L’intervento introduttivo di Gianni Scipione Rossi
Todi, 26 gennaio 2019
La Giornata della Memoria, che cade domani 27 gennaio, è la data simbolica scelta a livello internazionale perché in quel giorno del 1945 furono aperti i cancelli del campo di concentramento e sterminio nazista di Auschwitz, in Polonia.
Abbiamo scelto come titolo di questo “Dalla discriminazione alla persecuzione” perché non possiamo dimenticare o sottacere che ottanta anni fa, in Italia, cominciarono ad essere applicate nel concreto le cosiddette leggi razziali varate tra il novembre e il dicembre del 1938. Nelle scuole si era cominciato prima, a settembre, quando studenti e professori ebrei furono espulsi.
Per gli italiani ebrei cominciò la fase della discriminazione. Nell’ottobre del 1943 si passò alla fase della persecuzione. Si pensi al 16 di quel mese, quando mille ebrei romani furono deportati in Germania.
Giornata della Memoria, dunque, della Shoah, dell’Olocausto ebraico, ma che va inquadrato in un contesto più generale.
Di fronte a quel che è accaduto – sei milioni di persone scientificamente eliminate dal regime nazista – ci si chiede sempre – o almeno io me lo chiedo – come sia potuto accadere.
So che questi discorsi stancano. C’è fatalmente qualcosa di retorico nella narrazione di questi giorni. Sui giornali, alla radio, alla televisione.
Ci si è anche chiesti spesso se non abbiano un effetto contrario, se non annoino invece che fare riflettere.
Spero di no, ovviamente, anche se su questo c’è stato e c’è un largo dibattito.
Nel 2014 la giornalista e scrittrice torinese Elena Loewenthal pubblicò per Einaudi un piccolo libro urticante: Contro il giorno della memoria. Una dolente provocazione intellettuale, direi. Ma non solo.
Scrisse Elena Loewenthal:
<Io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica: è soltanto la avvilente consapevolezza di una distanza minima, ma insormontabile. Io che sono nata poco dopo che tutto era finito, che sono vissuta circondata da quel passato, da quei ricordi – per lo più pestati sotto il tallone del silenzio, non per rimuovere quel passato, ma perché per tornare a vivere era fondamentale non lasciarlo parlare, almeno per un po’ di tempo – so per certo un’unica cosa, di quella memoria: che non potrò mai nemmeno lontanamente sentire quello che ha sentito chi è stato dentro quel tempo, quelle cose. Malgrado la mia vicinanza estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di una distanza minima, ma insormontabile> [p. 90].
Sono le considerazioni con cui Elena Loewenthal chiude Contro il giorno della memoria, un testo di riflessione sul senso del “Giorno della memoria” (che lei chiama, come un prodotto di consumo, GdM) e sui motivi per cui quel giorno, in quella forma, con quel tipo di cerimoniale, non la riguarda, né desidera essere coinvolta.
Io capisco il punto di vista di Elena, ma per me è facile. Non sono ebreo e quella tragedia l’ho studiata senza per fortuna averla del mio bagaglio psicologico personale.
Il rischio è invece quello di dimenticare.
La senatrice a vita Liliana Segre lo ha sottolineato qualche giorno fa, il 15 gennaio: <Sarà così, la Shoah si dimenticherà, la storia è sempre cosi>.
Qualche giorno dopo, il 21 gennaio, accompagnando gli studenti in Polonia, un’altra sopravvissuta, Andra Bucci, ha detto che sarebbe meglio ricordare ogni giorno piuttosto che concentrare tutto in una giornata o in una settimana, quasi per lavarsi la coscienza. Anche qui, capisco, ma è meglio una settimana di niente. Perché penso che questo accadrebbe.
C’è anche un altro rischio. Lo ha segnalato il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni in un convegno a Roma, il 18 dicembre 2018.
Questo il resoconto di “Shalom”:
<Rav Di Segni ha espresso preoccupazione per un fenomeno che appare in crescita e distante anni luce da un lavoro di Memoria viva e consapevole. E cioè il radicarsi di quello che ha definito “Shoahismo”. Una religione vera e propria, con i suoi luoghi e con i suoi templi. Tappe imprescindibili per chi ha a cuore la Memoria ma che – ha osservato – non possono diventare l’ancoraggio unico della propria identità. “L’ebraismo, che è una identità viva, per alcuni è soltanto un cimitero. Tutto ciò – ha detto – è patologico”>.
È anche questo è un tema centrale, non nuovo. Spesso si è detto che a molti piacciono gli ebrei morti, non quelli vivi. E questo aprirebbe un largo dibattito sull’antisemitismo e l’antisionismo persistenti, che esistono purtroppo fra noi.
Non è vero che la storia non possa ripetersi. Lo fa in maniera diversa, ma può accadere.
Per questo ogni volta che sento battute antisemite o antisioniste, quando vedo certi striscioni negli stadi, quando vedo svastiche sui muri delle scuole… o leggo riferimento a quel falso storico che furono i Protocolli dei Savi di Sion – come è accaduto in questi giorni – io mi preoccupo. Molto.
Per questo penso che sia giusto ricordare, avere memoria di quel che è accaduto. Meglio un giorno, meglio una settimana, del niente che si è perpetuato per tanto tempo.