Garibaldi, Pisacane e l’opzione militare

Aldo G. Ricci

Parlando di Garibaldi in occasione del 150° dell’unità d’Italia, si ha sempre un certo timore di cadere nella retorica, anche per il modo con cui la storiografia lo ha spesso trattato. E tuttavia, al di là dell’oleografìa, egli continua a rappresentare un mito necessario nella storia d’Italia, perché costituisce il contrappeso indispensabile a equilibrare tutto quello che il Risorgimento avrebbe potuto essere e in parte non è stato. Vale a dire riscatto di popolo, come avrebbero voluto Mazzini e tanti altri patrioti, oltre che guerra regia, come volevano invece i liberali moderati, Cavour in testa. Il mito di Garibaldi resiste a ogni cambiamento di clima politico o storiografico, a conferma che anche da noi vale la legge del West, enunciata per il giustiziere di Liberty Valance nel celebre film omonimo di John Ford.

Una dimostrazione della sua intramontabile popolarità emerge certamente dal fatto che in ogni città d’Italia si sono una strada e un monumento a lui dedicati, e che ogni parte politica ne ha fatto in tempi diversi un simbolo, a conferma sia della sfaccettatura del personaggio, sia del fatto che scegliendolo come riferimento si riteneva di ancorarsi a una radice capace di sfidare il tempo.

La sua vita si svolge in modo leggendario fin dall’inizio. Avviato alla carriera marinaia dal padre, s’imbarca nel 1824, a 17 anni, e gira in lungo e in largo per il Mediterraneo. Nel 1833 gli incontri decisivi: Emile Barrault, un seguace di Saint Simon, che lo iniziò a una visione solidaristica, internazionalista, missionaria della vita come impegno inesausto. E poi “il profeta”, che molti individuano in Gian Battista Cuneo, mazziniano, che gli insegnò “Italia. Unità e Repubblica”.

Queste premesse lo spingono alla sua prima e unica partecipazione cospirativa in stile mazziniano, la congiura del 1834, che doveva muovere dalla Savoia e da Genova, e alla quale partecipa dopo essersi arruolato nella marina militare sarda. Fallita la congiura, ripara a Marsiglia e di qui. arruolatosi nella flotta di Hussein Bey, muove per Tunìsi, terra ricca di emigrati politici. La Tunisia fu infatti in quegli anni terra ospitale per gli italiani implicati nelle vicende risorgimentali, sia pure con alti e bassi e con la sorveglianza di tutti i consoli degli stati italiani e non accreditati presso il Bey. Garibaldi dimora a Tunisi presso un amico di comune fede mazziniana. Gaetano Frediani. che visse a lungo nella Reggenza, svolgendo un ruolo importante tra gli emigrati politici.

Ma Tunisi e la vita sedentaria non facevano per il Nostro e pochi mesi dopo riprende il mare per Marsiglia e di qui per Rio de Janeiro. Resterà in Sud America fino al giugno del 1848, quando tornerà in Italia per partecipare agli avvenimenti rivoluzionari di quel biennio. Ma il periodo sudamericano è fondamentale per molti motivi e in primo luogo perché qui nasce il mito di Garibaldi condottiero imbattibile, combattente per la libertà di tutti e non solo dell’Italia. Qui Garibaldi diventa un mito per i patrioti italiani, ma questo mito ha tutte le premesse per trasformarsi, come avverrà, in mito universale.

In ogni angolo del mondo, pochissimi conoscono Mazzini. Cavour. Vittorio Emanuele II, ma tutti conoscono Garibaldi. E la riprova l’ho avuta personalmente negli incontri con tutte le delegazioni straniere venute a visitare gli archivi italiani, dal Sud America al Nord America. dall’Australia alla Cina all’Africa.

In Sud America Garibaldi si convince di un principio al quale terrà fede durante tutta la vita, secondo cui nei momenti di crisi rivoluzionaria diventa indispensabile la dittatura, il potere unico, in grado di decidere senza tentennamenti. Il modello è quello romano: dictator per la salvezza della repubblica. Il dittatore che. come Cincinnato, assolto il suo compito, abbandona la carica e torna a svolgere il suo mestiere, ad arare il campo, un esempio che Garibaldi seguirà in più occasioni.

Sempre in Sud America, tra Uruguay e Brasile, il Nostro impara poi la tecnica della guerra per bande, che metterà a frutto in molte delle sue imprese. Questa tecnica gli sarà poi rimproverata da un altro grande rivoluzionario, Carlo Pisacane, in occasione della difesa di Roma. Pisacane affermerà infatti che Garibaldi sarebbe stato soltanto un capo guerrigliero, incapace di guidare grandi unità militari, un’affermazione che sarà smentita da molte delle sue imprese successive. I paradossi della storia faranno sì che lo stesso Pisacane, molti anni dopo, sarebbe morto alla testa di 300 patrioti, che altro non potevano essere che una banda di guerriglieri.

In Sud America nasce anche uno dei simboli più famosi dell’iconografia garibaldina: la camicia rossa. La sua genesi è quanto mai curiosa, a dimostrazione di come spesso il mito si nutra di particolari del tutto casuali. Garibaldi doveva intatti dare una uniforme ai suoi volontari e l’unica partita di stoffa disponibile a poco prezzo era quella destinata alla confraternita dei macellai, che per evidenti motivi era di color rosso: un colore che poi avrebbe fatto tutt’uno con il nome e con la leggenda dei garibaldini.

Quando il Nostro viene in Italia nel giugno del 1848 è già un mito a più facce. Ề l’eroe disinteressato che rifiuta tutte le offerte rivoltegli a titolo personale, ma è anche il protagonista di mille storie di cui scrivono i massimi scrittori europei: Victor Hugo. George Sand. Alexandre Dumas. Ề già un idolo per i democratici e un incubo per i reazionari e i governi di tutto il mondo. Un binomio espresso a perfezione da due versi del poeta Francesco Dall’Ongaro: “Ề nato d’un dimonio e d’una Santa/in un momento che han sentito amore”

Tornato in Italia comincia il cammino lungo 20 anni, costellato di vittorie e sconfitte, che porta fino all’Unità del Paese: 1848-49 prima guerra d’Indipendenza e difesa di Roma; 1859 seconda guerra d’indipendenza; 1860 i Mille; 1861 rottura con Cavour per la cessione di Nizza alla Francia; 1862 Aspromonte; 1866 III guerra d’indipendenza; 1867 Mentana.

A Roma Garibaldi viene dopo la sconfitta dell’esercito sardo proclamando di non voler sottostare alla resa. Polemizza con i triumviri per la conduzione della guerra che vuole trasformare da difensiva in offensiva. Prima sconfìgge i Borboni vicino a Velletri, poi, il 30 aprile del 1849 sconfigge i francesi nella zona nord della città e vorrebbe tentare di ricacciarli in mare prima che ricevano i previsti soccorsi. La resa della città è preceduta dall’eroica difesa del Gianicolo dove cadono i migliori eroi di quell’impresa. C’è ancora tempo per un tradimento dei francesi che dopo aver ricevuto i rinforzi ed essere stati nuovamente fermati, attaccano prima della scadenza della tregua che era stata proclamata.

Mentre l’Assemblea Costituente si appresta a proclamare la nuova Costituzione dal Campidoglio, poco prima dell’arrivo delle truppe straniere, Garibaldi il 2 luglio chiama alla lotta quanti intendono seguirlo a Venezia ed esce dalla città con 4000 uomini.

La marcia verso il Nord è una catena di combattimenti e fughe destinati a entrare nella leggenda. La caccia degli Austriaci, aiutati spesso dai preti locali, è spietata. Da questi episodi trae linfa il rancore e il disprezzo che Garibaldi manifesterà costantemente nei confronti del potere temporale della Chiesa: sentimenti che affiorano dalle sue Memorie, che comincerà a scrivere pochi mesi dopo.

Il 4 agosto gli muore al fianco la moglie Anita. nelle valli di Comacchio. destinata a diventare simbolo del femminismo, ma anche dell’eroina che non ha voluto lasciarlo, che cavalca al suo fianco, che vuole continuare a combattere anche se è incinta. Garibaldi è sconfìtto, ma nella gloria, e la sua leggenda è quindi destinata ad aumentare. Chi non vorrebbe morire al suo fianco?

Riparato nuovamente in America, Garibaldi dà un nuovo saggio della sua natura speciale negli Stati Uniti, dove preferisce rifiutare ogni aiuto e affiancarsi a un altro emigrato, destinato a diventare famoso, Antonio Meucci. per lavorare con lui come operaio nella sua fabbrica di candele. Nel 1855 compra l’isoletta di Caprera con l’eredità del fratello e quel luogo diventerà sempre più nel tempo un simbolo del personaggio: del luogo dove ritirarsi dopo le vittorie o le sconfitte gloriose, del moderno Cincinnato, della sua natura più profonda di uomo legato alla natura e alla vita semplice, che ama provvedere a se stesso.

Nel frattempo si avvicina alla convinzione che per l’Unità sia necessario un compromesso con la Monarchia. E questa svolta lo porta alla partecipazione alla II guerra d’indipendenza nella primavera del 59, con i gloriosi episodi Varese, S.Fermo e Valtellina. I preliminari di Villafranca con l’interruzione dell’avanzata verso il Veneto e la successiva cessione di Nizza, città natale di Garibaldi, lo portano alla rottura con Cavour, al quale non lesinerà espressioni durissime e al clima di diffidenza reciproca che caratterizzerà i loro rapporti.

Questo incide sulla fase iniziale della preparazione dell’anno successivo nell’Italia meridionale verso la quale il Piemonte adotta la strategia del “non aderire e non sabotare”. La spedizione dei Mille rappresenta l’apoteosi della leggenda garibaldina, un episodio destinato a entrare nella storia mondiale come esempio ineguagliato: mille uomini che conquistano un Regno. Ề vero che l’Inghilterra li protegge. Ề vero che il Piemonte è ambiguo e li appoggia prima indirettamente poi direttamente, ma è vero anche che la vittoria è solo di Garibaldi

Dopo l’incontro di Teano e la consegna del Regno delle due Sicilie a Vittorio Emanuele il Nostro ritorna all’Isola, per allontanarsene nel 1862 per un nuovo tentativo verso Roma che si conclude nel trauma di Aspromonte, il ferimento ad opera di soldati italiani e l’arresto prima di tornare a Caprera. Eppure nel 1866 dimostra ancora una volta che la Patria è sopra ogni cosa, tornando a combattere nella III guerra d’Indipendenza. Come sempre va al di là di ogni aspettativa e invade il Trentino, ma lo fermano e risponde con il famoso “Obbedisco” per riprendere la strada di Caprera.

Ma Roma resta in cima ai pensieri di tutti i patrioti. Garibaldi non si rassegna, non vuole Roma per uno scambio diplomatico. La vuole conquistata dai patrioti. Da qui nasce nel 1867 la spedizione nel Lazio con la sconfitta di Mentana, ad opera dei francesi, il nuovo arresto e l’esilio a Caprera.

Roma cade nel settembre 1870 per la sconfitta francese a Sédan. In Francia nasce la Repubblica e Garibaldi conferma la sua leggenda partendo per la difesa della Francia con il fìglio e i suoi volontari. Ề costretto a combattere da una carrozza. Ma il parlamento di Bordeaux gli riserva un cattivo trattamento e per dignità deve andarsene e tornare alla sua isola, dove resterà fino alla morte, visitato da migliaia di ammiratori e venerato come un mito vivente in tutto il mondo.

Garibaldi è il simbolo dell’altro Risorgimento, non quello monarchico, ma quello popolare. Quello che avrebbe potuto essere ma non è stato. Ma è anche l’antitesi di Mazzini. Tanto Mazzini è ideologo, tanto Garibaldi è pratico. Per lui esiste solo l’azione. Gli ideali sono la struttura morale dell’uomo, ma l’uomo si esprime nel fare. In lui e nel suo mito è già in nuce quello del Risorgimento come rivoluzione incompiuta.

Il mito viene ripreso dal successivo processo di sacralizzazione e istituzionalizzazione del Risorgimento che punta ad associare il binomio Vittorio Emanuele e Garibaldi. A diffondere il mito di Garibaldi contribuiscono, fin dai primi anni molti scrittori, alcuni dei quali hanno anche combattuto al suo fianco: Ippolito Nievo, Cesare Abba. Alberto Mario. Giuseppe Barrili.

La vita dell’eroe svolge un ruolo cruciale naturalmente per la creazione del mito. La sua prima biografia è del 1850. Le Memorie (che riscriverà molte volte) le comincia a scrivere nel 1849. Nella descrizione di Abba dell’impresa dei Mille Garibaldi che gira per Palermo conquistata è raffigurato a volte come un Santo, a volte come un Messia, altre come lo stesso Cristo. E come Cristo è raffigurato in molti ritratti dell’epoca. Il mito di Garibaldi nasce tra i democratici, ma poi diventa un mito di tutti. Lo dimostrano le infinite targhe che segnano dove è passato, le vie a lui dedicate, i monumenti e le piazze.

Crispi. il più grande costruttore del mito del risorgimento, promuove la costruzione e presiede all’inaugurazione del suo monumento a Roma sul Gianicolo. Dice esplicitamente che bisogna fare come la Chiesa e costruire una religione laica. Insomma la nuova Italia ha bisogno di “monumentalizzare” il Risorgimento. Bisogna creare il binomio del re buono e dell’eroe, l’equilibrio di istituzione e rivoluzione.

Un altro elemento che contribuisce al suo mito è l’isola, dove l’eroe si rifugia senza nulla volere, ma l’Italia sa che egli è là e può sempre venire, se serve alla patria. Ề l’eroe in riserva. Ma Garibaldi è anche l’idolo e il presidente onorario delle società operaie e delle società massoniche. Partecipa a tutto ma resta sempre non inquadrabile. Nessuno può dire: è solo nostro. Perché è di tutti.

Significativo l’enorme successo che riscuote presso gli inglesi, testimoniato dall’accoglienza ricevuta a Londra dove centinaia di migliaia di persone lo accolgono in un vero tripudio.

La sua concezione della politica non è sofisticata: libertà universale, ma anche dittatura se serve allo scopo. Riforme pragmatiche, non ideologiche. Suffragio universale, istruzione di massa obbligatoria, soppressione delle corporazioni, diritti civili, libertà di coscienza. Poca simpatia per i partiti e per le ideologie. Appello alla ragione, alla religione del vero, a quella forma di deismo che lo avvicina ai massoni, amore del progresso appreso dai saintsimoniani.

Il carattere trasversale del mito di Garibaldi emerge dal fatto che tutti se ne sono impadroniti. I socialisti alla fine dell’800. I nazionalisti con l’interventismo dei primi del Novecento fino alla prima guerra mondiale. Il fascismo ne ha fatto il suo profeta per il mito di Roma e della grandezza dell’Italia (un mito che lo unisce a Mazzini. cantato da Carducci). Ma anche l’antifascismo ne ha fatto un mito (Spagna, brigate Garibaldi). Per finire con il fronte popolare in Italia nelle elezioni del 1948, dove PCI e PSI si presentano con l’immagine di Garibaldi.

C’è uno scrittore popolare che ha dato vita a due eroi che impersonano bene il carattere popolare e semplice del mito. Si tratta di Emilio Salgari con Sandokan e il Corsaro Nero. Entrambi compiono le loro gesta partendo da un’isola ed entrambi lottano per la libertà, contro i tiranni.

Dopo la fine delle ideologie e dei partiti-chiesa, determinatasi nel nostro Paese dopo la caduta dei blocchi, si è avviata anche una riscoperta dell’identità nazionale, una ricerca delle radici. E in questa ricerca è avvenuta la riscoperta di Garibaldi. Si parla molto di memoria condivisa. Probabilmente uno degli elementi della forza e della resistenza del mito di Garibaldi è che è un mito di tutti, anche se molti vi trovano elementi diversi. Garibaldi rappresenta forse l’unico caso su cui nessuno degli italiani, che come si sa sono campanilisti e divisi su tante cose, ha nulla da ridire. Ề davvero un mito dell’intera Nazione, oltre a essere un mito universale. Un mito che conviene tenersi ben stretto.