Cavour e l’opzione politica
Stefano De Luca*
Le accelerazioni della storia
Il tempo storico non è un tempo matematico. Anche se spesso ci serviamo di ‘unità quantitative’ per orientarci al suo interno (i secoli e i loro ‘decimali’: decenni, ventenni e così via), in realtà esso non è composto, come il tempo matematico, di entità sempre eguali a se stesse, che scorrono secondo un ritmo immutabile. Ci sono secoli in cui il tempo storico – ossia, il ritmo del mutamento nelle vicende umane – sembra rallentare quasi sino a fermarsi; e decenni, o addirittura singoli anni, in cui accelera improvvisamente, sino quasi a precipitare. Lunghe persistenze si alternano a fratture più o meno improvvise, più o meno brevi. «Abbiamo alle spalle sei anni – disse nel 1795 il deputato francese Boissy d’Anglas, riferendosi alla Rivoluzione avviatasi nel 1789 – che valgono sei secoli». Matematicamente, l’affermazione di Boissy d’Anglas era un non-senso: sei anni non sono affatto sei secoli. Storicamente, però, si trattava di un paradosso ricco di significato e molti contemporanei (favorevoli o contrari alla Rivoluzione) l’avrebbero trovato pienamente condivisibile.
I Francesi avevano infatti dato vita, in soli sei anni, ad una ‘sperimentazione’ di idee politiche e assetti istituzionali che non aveva precedenti, per intensità, nella storia dell’Europa moderna. Tralasciando la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (che da sola segna l’inizio di una nuova epoca) e limitandoci alla sfera delle istituzioni, l’Europa continentale aveva assistito alla nascita della prima monarchia costituzionale (con la Costituzione del 1791), della prima Repubblica di grandi dimensioni (quella proclamata nel 1792), di una inedita e sanguinaria dittatura assembleare (il Comitato di Salute pubblica, 1793-94) e del primo tentativo di dare vita ad una Repubblica liberal-costituzionale, fondata sulla divisione dei poteri, sulla rappresentanza e sui diritti individuali (Costituzione del 1795).
Al di là del giudizio su questi eventi, un fatto era sotto gli occhi di tutti: la storia aveva subito una straordinaria accelerazione. E i suoi effetti non erano rimasti circoscritti alla Francia, ma si erano diffusi in gran parte dell’Europa, agendo come formidabili fattori di accelerazione soprattutto là dove – vedi il caso italiano e il caso tedesco – non era ancora stato realizzato lo Stato nazionale, ossia una delle forme politiche tipiche della modernità. Molte delle radici del Risorgimento italiano, ad esempio, stanno in quel processo di mutamento che si avvia con il ‘triennio giacobino’ (1796-99): al di là dei suoi evidenti limiti – che uno dei più grandi pensatori politici italiani, Vincenzo Cuoco, mise a fuoco già nel 1801 nel suo Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli – quella prima incerta e per molti aspetti contraddittoria esperienza rivoluzionaria diede avvio ad una dinamica che avrebbe condotto ad una prima coscienza nazionale del problema italiano e ai primi tentativi di ottenere indipendenza dall’esterno e libertà all’interno. Ma si trattò di una serie di ripetuti fallimenti – nel 1820-21, nel 1830-31, nel 1848 – che sembravano riconfermare, con la più drammatica delle evidenze, che l’Italia era destinata a rimanere divisa e priva di libertà.
In questo quadro, il processo di unificazione nazionale, rappresentò anch’esso una straordinaria accelerazione: questo traguardo che a molti era sembrato (e continuava a sembrare) irrealistico, si concretizzò nel giro di pochi anni. Come usano dire gli storici, un ‘decennio di preparazione’ (1849-59) e poi, nel giro di soli due anni (1859-61), la nascita del Regno d’Italia, comprensivo di gran parte della penisola e delle due isole maggiori. Ma l’unificazione italiana non fu l’esito scontato di forze che inesorabilmente tendevano a quel risultato: questa è l’illusione dei posteri, di coloro che vengono a ‘cose fatte’ e che sono abbagliati, per così dire, dalla forza e dall’evidenza del risultato. A ‘cose in corso’ – ossia quando il movimento storico è in atto e ogni attore del dramma, individuale e collettivo, gioca fino in fondo la sua parte – le possibilità sono molteplici, gli esiti incerti, le scelte dense di rischi: ed è in questi frangenti che si misura la grandezza dell’uomo politico, che consiste non tanto nel ‘guidare’ i processi storici, quanto piuttosto nello sfruttare il grande e spesso imprevedibile moto delle onde per portare la nave il meno lontano possibile dal punto in cui la voleva portare. E qui – in questa difficile e rischiosa dinamica tra progetti e circostanze – che si misura la grandezza (e la fortuna) di Cavour.
Il mio intento, nel breve spazio a disposizione, non è certo quello di offrire una ricostruzione sintetica – e in sequenza cronologica – della figura e dell’opera di Cavour. Per questo scopo rimando alle indicazioni bibliografiche in fondo al testo. Quello che mi propongo è un obiettivo molto più limitato: individuare alcune parole-chiave utili per delineare l’azione di Cavour nella fase in cui mette a punto e realizza la sua strategia per l’avvio del Risorgimento italiano. La mia analisi si interromperà quindi nel 1859, quando Cavour ottiene l’obiettivo ultimo della sua azione: la guerra, a fianco della Francia, contro l’Austria.
Le parole-chiave che ho individuato sono cinque. Le prime due sono modernizzazione e internazionalizzazione: modernizzazione economica e politica del Regno di Sardegna, al fine di metterlo in condizione di svolgere il suo ruolo di Stato-guida nella costruzione dello Stato nazionale italiano; e internazionalizzazione della questione italiana, perché era impensabile, secondo Cavour, che l’Italia potesse costituire il suo Stato nazionale ricorrendo alle sole forze militari del Piemonte (come si era illusoriamente creduto nel 1848) o, peggio ancora, ricorrendo alla via rivoluzionaria (come pensavano i seguaci di Mazzini). Modernizzazione e internazionalizzazione sono i cardini della strategia di Cavour, gli assi portanti della sua ‘via politico-militare’ al Risorgimento nazionale. Sul piano degli eventi – ossia, delle circostanze create o sfruttate da Cavour per realizzare la sua strategia – le parole-chiave sono Connubio, guerra di Crimea, accordi di Plombières. In questo ambito, soprattutto per quel che riguarda la guerra di Crimea e gli accordi di Plombières, si avrà modo di vedere quanto le scelte strategiche, anche quelle più meditate, siano esposte alla imprevedibilità delle circostanze. Si avrà cioè modo di vedere, per dirla con Machiavelli, come anche l’uomo di Stato dotato della maggiore virtù politica abbia bisogno, per realizzare i suoi progetti, dei favori della fortuna.
Modernizzazione politica
Modernizzare politicamente il Piemonte significa, in primo luogo, consolidare e rafforzare il sistema costituzional-rappresentativo, nato nel 1848 con la concessione dello Statuto albertino: a tale scopo è necessario difendere l’assetto costituzionale dalle tentazioni autoritarie della Destra reazionaria, che col pretesto dei disordini sociali mirava a ridurre gli spazi di libertà, e conferire maggiore centralità al Parlamento (come rappresentante della nazione) a discapito della Corona, che nello Statuto conservava una forte preminenza. Questa natura ‘liberale’ del sistema politico piemontese avrebbe giocato un ruolo decisivo nella causa dell’indipendenza nazionale, perché avrebbe permesso ai patrioti dei vari Stati italiani – fossero essi moderati o democratici – di riconoscere nel Regno di Piemonte lo Stato più avanzato della Penisola e quindi l’unica forza affidabile per realizzare l’unificazione nazionale.
Non va dimenticato che la connessione tra principi di nazionalità e principi liberali è uno dei lasciti di lungo periodo più importanti dell’azione cavouriana. Una traccia di questa connessione – che distingue nettamente l’unificazione italiana da quella tedesca – è ancora oggi osservabile nel Vittoriano (il monumento romano a Vittorio Emanuele II, progettato nel 1885 e portato a termine soltanto nel 1927): le due quadrighe che sormontano il monumento al primo re dell’Italia unita sono rispettivamente dedicate patriae unitati (all’unità della patria) e civium libertati (alla libertà dei cittadini). Dunque, nazione e libertà; Stato nazionale unitario, ma con poteri limitati da una costituzione che garantisce ai cittadini libertà civili, politiche ed economiche.
Queste convinzioni liberali si radicarono ben presto in Cavour. Negli anni Trenta il giovane e irrequieto Camillo, dopo aver lasciato l’esercito anche a causa delle sue idee politiche ‘avanzate’, viaggia per l’Europa, recandosi in Francia, in Inghilterra e in Belgio. A Parigi conosce e frequenta il filosofo Victor Cousin, il poeta e patriota italiano Giovanni Berchet, gli storici Eduard Mignet e Adolphe Thiers; segue le lezioni di Pellegrino Rossi (il costituzionalista italiano che sarebbe morto assassinato a Roma nel 1848), del grande storico della Rivoluzione francese Jules Michelet, del dottrinario Royer-Collard; alla Camera ascolta i discorsi di Alexis de Tocqueville (di cui conosce e apprezza il capolavoro, la Democrazia in America) di Alphons de Lamartine, di François Guizot. Questi mesi passati in mezzo ad un mondo politico e intellettuale di straordinario livello qualitativo contribuiscono alla sua maturazione: da allora Cavour crede nel nesso tra progresso sociale, libertà civili e libertà economiche. Egli si colloca, come già negli anni giovanili, agli antipodi del mondo dell’ancien régime e dei suoi valori (l’alleanza trono-altare dal punto di vista politico, il protezionismo dal punto di vista economico); ma non crede più che il progresso debba avvenire mediante drastiche e violente rotture col passato, che ora gli appaiono come cause di pericolosi contraccolpi reazionari. Il suo è un liberalismo moderatamente progressista, è il liberalismo del ‘giusto mezzo’: Cavour si sente erede dei principi dell’89 e avverso a quelli del ’93. E’ un liberale collocabile sulla linea del liberalismo di Benjamin Constant e Madame de Stael: avverso agli ultras di destra come a quelli di sinistra, ai reazionari e agli ultra-rivoluzionari, nemici opposti ma simmetrici del sistema liberal-costituzionale. Negli anni Quaranta Cavour si persuaderà che il pericolo maggiore, per la libertà, viene dal versante rivoluzionario; ma questo non gli impedirà di riconoscere che nel ‘suo’ Piemonte le posizioni conservatrici e reazionarie sono ancora molto forti e purtroppo spesso trovano un alleato in una parte consistente del clero. E’ sulla base di questa analisi che Cavour andrà oltre i confini del moderatismo subalpino, assumendo quegli atteggiamenti di apertura verso la sinistra moderata che lo condurranno al Connubio (in sostanza, all’alleanza tra destra e sinistra moderate). Ma le sue idee, sul piano teorico, erano rimaste sostanzialmente le stesse, come scrisse in una celebre lettera a Pietro di Santarosa nel 1843:
“Permettetemi di dirvi che se ero liberale nel 1831 lo sono ancora nel 1843. Certamente l’esperienza e gli studi hanno dissolto molte illusioni giovanili o moderato l’esaltazione dei miei sentimenti e mi hanno indotto a una grande indulgenza per le opinioni diverse dalle mie e per i sistemi politici non conformi ai miei principi. Ma su tutti i principali problemi politici, riguardo a tutte le grandi questioni sociali io non sono cambiato e non cambierò mai. Io ero nel 1831 sostenitore del progresso moderato, dove era possibile (…). Dove il progresso era impossibile, io credevo allora che si potesse tentare di raggiungerlo per mezzo di metodi violenti. Al riguardo le mie opinioni sono molto mutate, e confesso di non essere disposto a sacrificare il presente alle possibilità incerte del futuro. Ma a parte ciò, non credo che vi siano punti importanti sui quali vi siano divergenze tra il mio modo di vedere attuale e quello di quando avevo venti anni.”
Della modernizzazione politica del Piemonte fanno parte, oltre al consolidamento delle libertà civili e politiche, i processi di laicizzazione dello Stato, ossia l’abolizione dei ‘privilegi’ del clero, quali il foro ecclesiastico e il diritto di asilo, per realizzare i quali Cavour non temette di entrare in conflitto con il clero e anche con il ‘partito moderato’. Emblematico, in questo senso, il forte e convinto sostegno che Cavour diede al progetto di legge Siccardi, che aboliva tali privilegi e che suscitò forti resistenze nel clero e anche negli ambienti moderati. Su questo tema Cavour si allontana anche da quei moderati con i quali, per altri versi, aveva molte idee comuni. Cesare Balbo, una delle personalità più influenti del ‘partito moderato’ e grande ammiratore della liberale Inghilterra, di fronte alle leggi Siccardi ritiene che sia necessario aspettare tempi più tranquilli e procedere con maggiore cautela. Ma Cavour non è d’accordo. I tempi sono in realtà adatti, a suo parere, e le riforme, fatte al momento giusto, non favoriranno lo svilupparsi di tensioni rivoluzionarie, ma piuttosto le disinnescheranno. Nel discorso che tiene alla Camera in quell’occasione (7 marzo 1850) Cavour invita a guardare proprio all’Inghilterra così cara al moderato Balbo: in quel Paese, egli afferma «uomini di stato i quali avevano caro il principio conservatore, che sapevano far rispettare il principio di autorità ebbero pure il coraggio di compiere immense riforme, a petto delle quali quella di cui ci occupiamo è ben poca cosa, e ciò quantunque una parte numerosa dei loro amici politici le combattessero come inopportune». Cavour cita il caso del duca di Wellington, che nonostante il parere contrario dei suoi amici, realizzò nel 1829 l’emancipazione dei cattolici; cita il caso di Lord Grey, che nel 1832 fece una riforma elettorale avversata dalla classe aristocratica cui apparteneva; cita il «luminoso esempio» di sir Peel, che abolì nel 1846 i dazi sul grano, separandosi dai suoi amici politici. Da questi esempi trae una conclusione di carattere generale, che va al di là della questione in discussione: «vedete, dunque, o signori, come le riforme, compiute a tempo, invece di indebolire l’autorità, la rafforzano; invece di crescere lo spirito rivoluzionario, lo riducono all’impotenza». Si tratta di un vero e proprio elogio dello spirito riformatore, strumento per eccellenza del liberalismo moderno, e particolarmente necessario nel Regno di Sardegna, al fine di favorirne una modernizzazione graduale, senza strappi e senza contraccolpi: elogio che prelude alla scelta cavouriana di aprire alla sinistra moderata, dando vita al Connubio.
Il Connubio – nel ricordo che ne diede l’altro grande protagonista, Urbano Rattazzi – fu il tentativo di fondere destra e sinistra moderate presenti nel parlamento piemontese, al fine di resistere a qualsiasi tendenza reazionaria (vi era appena stato in Francia il colpo di Stato di Luigi Napoleone) e di continuare a sviluppare le libertà consentite dallo Statuto, tanto in ambito politico, quanto in ambito economico e amministrativo. Secondo Rosario Romeo, si trattò dell’accordo tra le forze migliori del liberalismo, uscito dalle fila del moderatismo, e quelle della democrazia borghese che era stata espulsa dal potere dopo la sconfitta di Novara. Questo accordo che segnò, sempre secondo Romeo, l’atto di nascita del moderno liberalismo italiano. Grazie alla stabile base politica offerta dal Connubio, Cavour poté sviluppare – sia pure in mezzo a ripetute tensioni – una politica che cambiò sostanzialmente il Piemonte: oltre alla neutralizzazione delle tendenze reazioanarie e alla laicizzazione dello Stato, il personale politico e amministrativo fu rinnovato con l’immissione di sempre più numerosi elementi borghesi, fu incoraggiato il libero scambio e l’economia capitalistica, furono realizzate grandi infrastrutture (a cominciare dalle ferrovie), fu potenziata la ‘vocazione italiana’ del Regno subalpino. Ed è in questo quadro che Torino divenne il centro di raccolta dell’emigrazione liberale italiana: anche se provenienti da parti politiche diverse, i profughi politici provenienti dagli altri Stati italiani si raccolsero intorno alla dinastia dei Savoia, contribuendo a creare il nucleo fondamentale di quel ceto patriottico di sincere convinzioni monarchiche e liberali, moderato ma anche deciso ad attuare l’unificazione del Paese.
Modernizzazione economica
Ancora più importante fu il contributo che Cavour diede alla modernizzazione economica del vecchio Piemonte. Si trattava di un tema che lo investiva anche sul piano personale: negli anni Trenta e Quaranta, infatti, Cavour – a causa delle sue idee liberali – non può prendere parte alla vita politica piemontese, che peraltro è assai asfittica. Egli si dedica quindi alla tenuta familiare di Leri, dove dà prova di grandi capacità imprenditoriali. La tenuta di Leri era un ‘bene nazionale’ del periodo rivoluzionario, che il padre di Cavour, il marchese Michele, aveva comprato e razionalizzato, fornendo un esempio emblematico di trasformazione in senso borghese-capitalistico di un’antica famiglia di tradizione aristocratico-militari. A Leri il giovane Camillo poté mostrare, come abbiamo detto, le sue doti di imprenditore agricolo e di uomo d’affari. Mentre il padre, infatti, si era limitato al settore agricolo e finanziario, diffidando delle iniziative industriali, il giovane Cavour, caratterizzato dal temperamento irrequieto dell’innovatore più che dall’atteggiamento positivo dell’uomo d’affari, si interessa anche al settore industriale e compie scelte rischiose, spesso esponendosi a perdite e insuccessi. Di questi insuccessi, però, non cerca le ragioni sul piano dell’interesse economico privato, quanto piuttosto su quello delle condizioni politico-sociali che rendevano così difficile avviare in Italia una moderna attività industriale.
Anche in questo caso l’esperienza europea è decisiva. Nel 1843 Cavour compie un viaggio in Inghilterra, dal quale torna con la convinzione che l’abolizione delle tariffe protezionistiche rappresenti la grande questione del momento. Cavour, in buona sostanza, è un convinto sostenitore del libero commercio e della concorrenza internazionale. In Inghilterra rimane inoltre impressionato dallo sviluppo delle ferrovie. Nella lettera del 1843 a Pietro di Santarosa che abbiamo già citato svolge le seguenti considerazioni:
“Io ho viaggiato molto per ferrovia. Ciò che ho visto mi ha fatto più che mai desiderare di vedere le strade ferrate impiantate anche nel Continente. So che voi non ne siete un grande sostenitore. Tuttavia se voi sperimentaste i vantaggi che esser procurano agli uomini di affari e anche a coloro che viaggiano per diletto, forse modifichereste la vostra opinione. In Inghilterra non esistono più distanze. Le comunicazioni anche tra città lontane, come Londra o Liverpool, sono diventate più facili che tra quartieri della stessa città. La posta parte da Londra due volte al giorno in quasi tutte le direzioni.”
Del resto, non è un caso che il primo scritto in cui Cavour si schierò apertamente a favore dell’indipendenza italiana (e che per questo motivo subì vari rifiuti, prima di essere pubblicato a Parigi nel 1846) fosse dedicato allo sviluppo delle ferrovie in Italia. I mali d’Italia, scriveva Cavour, sono antichi e la loro causa prima sta «nell’influenza politica che gli stranieri da secoli esercitano sulla penisola». Ma perché gli Italiani non riescono a liberarsi da questa funesta influenza? La ragione, secondo Cavour, «sta nelle divisioni interne, nelle rivalità, direi quasi nelle antipatie che animano, una contro l’altra, le differenti frazioni della grande famiglia italiana», oltre che nella diffidenza tra i sovrani dei vari Stati italiani e la parte più attiva della popolazione. In questo quadro, l’azione delle ferrovie – oltre a favorire lo sviluppo dell’agricoltura, dell’industria e del commercio – avrebbe permesso lo spostamento delle persone, che avrebbe portato gli Italiani a conoscersi meglio e a superare i pregiudizi che li separavano.
Le convinzioni liberiste di Cavour, una volta entrato nella vita politica, avrebbero avuto un peso decisivo nella sua azione, anche se non lo avrebbero mai imprigionato in una gabbia ideologica. Cavour cedette le costruzioni ferroviarie al grande capitale privato straniero e liberalizzò i commerci; ma intensificò anche le opere pubbliche, promosse il credito e le attività bancarie, nello sforzo di mobilitare tutto il risparmio disponibile del paese e di avviarlo a impieghi produttivi. Liberale classico, dunque, nella sua fiducia nel mercato e nella concorrenza; ma sufficientemente pragmatico per rendersi conto che, in una situazione economica arretrata come quella del Piemonte, il ruolo di stimolo dei pubblici poteri era fondamentale. Di fatto, il liberale Cavour fece una politica tendenzialmente inflazionistica di tipo ‘keynesiano’, una sorta di deficit-spending che mobilitò i fattori produttivi, ma che lasciò ai successori un debito pubblico assai oneroso. Uno dei principali risultati del ‘decennio cavouriano’ fu dunque la modernizzazione economica del vecchio Piemonte: anzi, alcuni storici sostengono che Cavour riuscì a realizzare il suo concetto di libertà all’inglese soprattutto sul piano economico, mentre su quello amministrativo-giudiziario conservò, in sostanza, le istituzioni carloalbertine.
Internazionalizzazione della questione italiana
La dimensione europea è parte integrante e decisiva della formazione di Cavour. La Svizzera, dove viveva la famiglia materna, rappresentò per Cavour una sorta di ‘seconda patria’: i soggiorni a Ginevra – città cosmopolita, centro di una vivace vita culturale, dominata dalla presenza di figure come Benjamin Constant, Madame de Stael, Sismondi – fecero ben presto sentire al giovane Cavour quanto arretrata e chiusa fosse la situazione del Piemonte e di Torino. Inoltre, fra i 25 e i 35 anni Cavour – come abbiamo già avuto modo di ricordare – fece una serie di viaggi in Francia, Inghilterra e Belgio, viaggi che, come ha sottolineato Giuseppe Talamo, «ebbero certamente un grande rilievo per la diretta conoscenza della realtà politica, economica e sociale dei maggiori Paesi dell’Europa occidentale. Se la Svizzera, in particolare Ginevra, rappresentava per Camillo una seconda patria (…) Parigi e Londra diventarono allora e restarono per sempre dei punti di riferimento costanti del suo mondo politico e culturale». Va inoltre sottolineato come Cavour, anche negli anni precedenti, avesse sempre colto il nesso tra i problemi della Penisola italiana e la politica delle maggiori potenze europee.
Questa dimensione ‘europea’ di Cavour – e la lucida consapevolezza delle condizioni in cui versavano gli Stati italiani e delle forze reali di cui disponevano – lo portò a maturare la convinzione, soprattutto dopo le sconfitte dell’esercito piemontese nella I guerra d’indipendenza, che la questione dell’indipendenza italiana poteva risolversi soltanto nel quadro europeo, il che implicava un’azione di tipo politico-diplomatico. Nel 1848, commentando la ripresa della guerra del Piemonte contro gli Austriaci, ripresa voluta da Gioberti (allora Presidente del Consiglio) con l’appoggio dei democratici, Cavour scrisse che l’indipendenza assoluta dell’Italia era «uno scopo al di sopra delle nostre forze» e che non sarebbe stata possibile «senza una guerra europea». In particolare, è alla Francia che bisognava guardare: quella Francia che era stata capace di produrre le rivoluzioni liberali del 1789 e del 1830 e che ora, con Napoleone III, era un’aperta avversaria dell’equilibrio stabilito a Vienna nel 1815. «E’ dalla Francia – afferma Cavour in una lettera del 1852 – che dipendono i nostri destini. Bon gré, mal gré, noi dobbiamo essere suoi alleati nella grande partita che presto o tardi si giocherà in Europa». Ma per portare la questione italiana in Europa, bisognava dapprima portare il Piemonte in Europa: indirettamente, ciò sarebbe avvenuto facendo del Piemonte uno Stato più moderno, sul piano politico ed economico; ma direttamente, si trattava di inserire il Piemonte nel gioco politico-diplomatico europeo.
La guerra di Crimea: una «responsabilità tremenda»
E’ in questo quadro che si colloca la scelta di Cavour di far partecipare il Piemonte alla guerra di Crimea: quando, nel 1854, si profila la guerra (dovuta alle pretese della Russia su questa penisola del Mar Nero), Cavour pensa che si tratterà di una ‘guerra ideologica’: da un lato le potenze occidentali, ossia i regimi liberi, dall’altro le potenze orientali, cioè il dispotismo. Ma le cose non andranno così, perché – sebbene il Piemonte fosse stato interpellato per una partecipazione alla guerra – ben presto le potenze occidentali cercano di assicurarsi anche l’apporto dell’Austria, probabilmente assicurandole che in Italia non sarebbe stato toccato lo status quo. Sul “Moniteur” – il giornale francese considerato organo del governo – appare un articolo in cui si afferma che se le bandiere austriache si fossero unite a quella francesi in Oriente, non avrebbero poi potuto dividersi sulle Alpi. Qualche mese dopo l’Austria aderisce all’alleanza franco-inglese. Le speranze di Cavour sembrano infrante.
Tuttavia, dopo essersi assicurato l’appoggio austriaco, l’Inghilterra – seguendo le regole della Realpolitik – si fa di nuovo avanti con il Piemonte per averne il sostegno militare (che avrebbe rassicurato ulteriormente l’Austria, diminuendo la consistenza dell’esercito piemontese di stanza in patria). Cavour, convinto che sia decisivo per il Piemonte non rimanere isolato, si mostra disponibile con l’incaricato inglese, ma precisa che si tratta soltanto della sua opinione. Ed in effetti si tratta soltanto della sua opinione: nel consiglio dei ministri, tutti i ministri, tranne uno, si dichiarano contrari all’intervento del Piemonte. Solo il re è favorevole alla guerra, sia per cancellare l’onta della sconfitta di Novara, sia perché – vista l’opposizione del governo alla guerra – prendere parte alla spedizione di Crimea porterebbe con sé il mutamento del governo, il che avrebbe anche significato la caduta delle leggi sgradite al clero e alla Chiesa di Roma, che il governo Cavour aveva proposto e che erano in discussione al parlamento. Si delineano così tre posizioni: c’è chi è contrario in linea di principio alla guerra, perché è impensabile trovarsi alleati con il principale nemico dell’indipendenza italiana, l’Austria; c’è che è disposto ad entrare in guerra, ma a seguito di un negoziato nel quale ottenere concreti vantaggi per il Piemonte e la causa nazionale; e c’è chi – come Cavour – ritiene che si debba entrare senza negoziare, perché quello che conta è che il Piemonte non rimanga isolato in Europa e che possa partecipare, alla fine del conflitto, al tavolo della pace.
Per Cavour fu un momento drammatico: viste la contrarietà di Rattazzi e della sinistra moderata, era a rischio il connubio e, con esso, l’insieme della politica di modernizzazione del Piemonte. Nel consiglio dei ministri si arriva ad una posizione di compromesso: il Piemonte partecipi pure alla guerra, ma a condizione che gli alleati si dicano pronti a riconoscere i sacrifici del Piemonte, ammettendolo alla trattative di pace e promettendo di considerare lo stato dell’Italia. Ma Francia e Inghilterra rifiutano anche questa condizione, che avrebbe suscitato l’ostilità dell’Austria, ossia di un alleato molto più forte e prezioso del Piemonte. In questo frangente, il re conduce una sorta di politica parallela: egli è favorevole alla guerra, ma avvia delle trattative con il Vaticano per le leggi sui conventi il cui scopo è far cadere il governo Cavour e sostituirlo con un spostato a destra. Per sconfiggere questa manovra, Cavour decide di entrare in guerra: i ministri, anche al fine di salvaguardare le leggi sui conventi, lo seguono. «Ho assunto sul mio capo – scriverà il Conte in quei giorni – una responsabilità tremenda. Non importa: nasca quel che deve nascere, la mia coscienza mi dice di aver adempiuto ad un sacro dovere». Alla Camera il dibattito sarà aspro. La Destra ritiene che l’ingresso in guerra senza nessun vantaggio in cambio e a fianco dell’Austria sia la logica conseguenza di una politica sbagliata: con il Connubio Cavour aveva portato a sinistra il Piemonte, mentre in tutta Europa si formavano governi conservatori. Se ci fosse stato un governo del genere anche in Piemonte le potenze occidentali non avrebbero avuto nulla da temere e non avrebbero imposto un’alleanza il cui solo scopo era rassicurare l’Austria. Quanto alla Sinistra, diede voce a timori assai diffusi: anzitutto contestò che si potesse parlare di un conflitto ideologico tra paesi liberali e paesi autoritari, giacché dell’alleanza occidentale facevano parte la Turchia, che ignorava ogni forma di libertà, e la Francia, che era governata dal despota Napoleone; in secondo luogo, al Piemonte non era stato promesso niente, in cambio della sua partecipazione. Cavour intervenne nel dibattito e sostenne con forza le sue ragioni: negò che l’alleanza fosse il frutto di pressioni da parte di Francia e Inghilterra; sostenne che la neutralità avrebbe nuociuto all’Occidente e si sarebbe risolta in un aiuto indiretto alla Russia, potenza autocratica; infine, obiettò che la presenza dell’Austria nell’alleanza era bilanciata dal peso della liberale Inghilterra. Ma è soprattutto nella difesa del connubio che usò gli argomenti più forti: egli rivendicò con orgoglio la scelta di aprire il Piemonte alle riforme, mentre negli altri Paesi europei prevalevano orientamenti conservatori e reazionari, perché solo così si potevano difendere, in quel frangente, le recenti conquiste liberali. Ma il clima, nel Paese, rimaneva sfavorevole: in Crimea non vi erano interessi né piemontesi, né italiani; i soldati italiani andavano a difendere non la loro causa, ma quella del despota di Parigi e della Mezzaluna turca, per di più senza alcun compenso.
Le Camere approvarono comunque i trattati di alleanza. Mentre la guerra si trascina stancamente, Cavour tratta ancora per ottenere almeno l’ammissione senza condizioni al Congresso di pace. Si prepara un memorandum da presentare al congresso di pace, in cui si sostiene che la situazione italiana era minacciosa e che il mancato riconoscimento dei sacrifici fatti dal Piemonte avrebbe avvantaggiato i partiti rivoluzionari e creato le premesse per un nuovo ’48. Per presiedere la delegazione piemontese si pensa a Massimo d’Azeglio, che gode di grande prestigio all’estero; ma quando d’Azeglio viene a sapere che gli alleati non intendevano porre sullo stesso piano potenze grandi e piccole, rifiutò di partire per Parigi. E così che, senza molto entusiasmo, Cavour si assume in prima persona l’incarico di guidare la delegazione piemontese. Una sua lettera testimonia ancora una volta della drammaticità della situazione: «E’ possibile – scrive – anzi è assai probabile che l’attuale missione sia l’ultimo atto della mia vita politica». A Parigi Cavour cerca di stabilire proficui contatti con i rappresentanti inglesi e francesi – in vista di una guerra all’Austria – ed ha modo di capire che dagli inglesi si sarebbe ottenuto ben poco (di qui nasce la sua convinzione che si sarebbe dovuto puntare sulla Francia e su Napoleone III). Ma al Congresso accadde comunque un fatto di importanza decisiva: per la prima volta si discute della questione italiana e si stigmatizzano, da parte del rappresentante inglese, le condizioni di arretratezza in cui versano lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Cavour pone inoltre il problema della presenza di truppe austriache in vari Stati della penisola.
«Per la prima volta nella nostra storia – avrebbe affermato Cavour al suo ritorno a Torino, nel discorso alla Camera – la questione italiana è stata portata e discussa davanti a un congresso europeo, al tribunale della pubblica opinione. La lite potrà essere lunga, le peripezie saranno forse molte: ma noi fidenti nella giustezza della nostra causa aspetteremo l’esito finale». Il discorso di Cavour suscita grande impressione in Italia: pur non avendo ottenuto nulla di concreto, nell’immediato, il risultato politico e simbolico è di grandissima portata. La questione italiana è ormai una questione europea.
Plombières e i suoi sviluppi: a un passo dal fallimento
Come abbiamo già detto, durante il congresso di pace Cavour aveva avviato una fitta rete di contatti con i rappresentanti francesi e inglesi, al fine di garantirsi un alleato nella futura guerra contro l’Austria. Aveva così potuto capire che dagli inglesi, al di là di generiche promesse, c’era poco da attendersi: il Paese su cui si doveva puntare era quindi la Francia, o meglio l’Imperatore, che aveva sempre mostrato una certa simpatia per l’Italia. Ma a complicare le relazioni con la Francia interviene un fatto del tutto imprevedibile: un gravissimo attentato a Napoleone III, organizzato da un anarchico italiano, Felice Orsini. Napoleone e l’imperatrice Eugenia escono illesi dall’attentato, che tuttavia provoca una strage: 8 morti e 150 feriti. L’impressione è enorme e la reazione francese non si fa attendere. Il governo di Parigi chiede a tutti i governi liberali europei (Inghilterra, Belgio, Piemonte) di prendere duri provvedimenti contro i rivoluzionari che si erano rifugiati nei loro confini e che si servivano delle libertà costituzionali per organizzare trame e per attaccare e diffamare l’Imperatore francese, soprattutto attraverso la stampa.
La reazione contro il Piemonte, per ovvie ragioni, fu particolarmente dura: al generale Morozzo della Rocca, che Vittorio Emanuele II ha inviato a Parigi per felicitarsi con l’Imperatore per lo scampato pericolo, Napoleone III risponde che non può considerare amico un Paese che ospita degli assassini e la cui stampa lo attacca e lo insulta ogni giorno. E aggiunge minacciosamente: «Mi basterebbe alzare un dito, e provvederebbe il mio esercito a sloggiare i delinquenti dovunque si trovino». Quando queste parole vennero riferite dal generale a Vittorio Emanuele II, il ‘re galantuomo’ reagisce con l’orgoglio e la dignità tipiche di Casa Savoia: «se queste sono effettivamente le parole dell’Imperatore – risponde al generale – ditegli nei termini che vi sembreranno più appropriati che desidero rimanere suo amico, ma che imposizioni non ne accetto da nessuno, che del mio onore rispondo solo a Dio e al mio popolo, e che nessuno farà abbassare la testa a un Savoia, abituato a portarla alta da ottocentocinquanta anni».Cavour, che conosce la psicologia di Napoleone III, dice al generale di riferire la risposta del re esattamente in quei termini, senza edulcorarla. Ed in effetti l’Imperatore rimane colpito dalla dignità e dal coraggio del re piemontese e risponde in termini assai concilianti. A rinsaldare i legami intervenne poi un fattore davvero imprevedibile, ossia l’esempio di nobile patriottismo e di alto idealismo mostrato da Felice Orsini al processo. In una lettera indirizzata all’Imperatore, nella quale rivendica il gesto compiuto contro colui che ha affossato la Repubblica romana, l’anarchico romagnolo dichiara altresì che non avrebbe mai chiesto la grazia e che attende sereno la morte sul patibolo; ma scongiura anche Napoleone III di restituire la libertà all’Italia, perché fin quando gli Italiani sarebbero stati schiavi, la pace dell’Europa e la sicurezza dell’Imperatore sarebbero stati a rischio. L’Imperatore rimane colpito dall’atteggiamento di Orsini e invia la lettera a Torino perché venga pubblicata. E’ l’avvio di un capovolgimento in cui si intrecciano inestricabilmente ragioni psicologiche (Napoleone III era stato, in gioventù, un cospiratore e agli ambienti rivoluzionari si sentiva legato, come ha scritto molto bene Montanelli, da un complesso sentimento di solidarietà, paura, nostalgia e rimorso) e ragioni strategiche (l’interesse di Napoleone per sostituire l’influenza francese a quella austriaca in Italia). Cavour coglie subito questo mutato atteggiamento dell’Imperatore e fa pubblicare tanto la prima lettera di Orsini, quanto il suo testamento politico. Ormai i rapporti erano riallacciati. E l’Imperatore, per il tramite del suo medico, fa informare Cavour che nell’estate del 1858 si sarebbe recato a Plombières, dove si sarebbero potuti incontrare.
Dopo aver fatto annunciare dalla stampa di essere in partenza per la Svizzera, Cavour si avvia in segreto verso la località francese (solo il re, La Marmora e Costantino Nigra – il suo emissario di fiducia a Parigi – conoscevano la sua vera destinazione), consapevole della decisività del momento. Una lettera a La Marmora ci rivela, ancora una volta, il suo stato d’animo. Scrive Cavour: «Il dramma si approssima alla soluzione. Prego il cielo di ispirarmi onde non faccia minchionerie in questo momento supremo. Ad onta della mia petulanza e dell’ordinaria fiducia in me medesimo, non sono senza grave inquietudine». A Plombières vengono fissati i punti di un accordo segreto, che impegna la Francia ad intervenire a fianco del Piemonte se quest’ultimo viene aggredito dall’Austria (occorre quindi trovare un pretesto per farsi attaccare). Gli accordi per il dopo-guerra prevedono la presenza in Italia di tre Stati: un Regno dell’Alta Italia (con l’annessione al Piemonte del Lombardo-Veneto e dell’Emilia Romagna), un Regno dell’Italia centrale (per il quale Napoleone pensa a suo nipote Gerolamo, per il quale caldeggia il matrimonio con Clotilde di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele) e il Regno delle Due Sicilie. Rimane salvo il potere temporale del Papa, sulla città di Roma, e torna l’idea di affidargli la presidenza di una confederazione tra gli Stati italiani. Era il massimo che si potesse ottenere, nel quadro politico internazionale del momento: decisivo era, per Cavour, sloggiare l’Austria dall’Italia e costituire un forte Stato di chiara tradizione italiana nella parte più avanzata del Paese.
Nei mesi successivi le notizie sull’accordo segreto iniziano a trapelare: da parte piemontese, ciò serve anche a far convergere a Torino tutti i patrioti degli altri Stati italiani, mobilitati dalla prospettiva entusiasmante di una guerra di liberazione nazionale. Sull’altare dell’accordo, viene combinato anche il matrimonio tra la giovanissima figlia del re (la quindicenne Clotilde) e il quarantenne nipote di Bonaparte (Girolamo). Ma le forze riequilibratici dell’equilibrio europeo tra grandi potenze – e i molti avversarsi francesi della politica filo-italiana dell’Imperatore – creano ostacoli sempre più grandi e Napoleone III, sotto la pressione esterne e interne, inizia una lenta marcia indietro. Infine, la Russia avanza la proposta di tenere un congresso internazionale che avrebbe dovuto risolvere la questione italiana per via pacifica, senza alterare più di tanto, s’intende, l’equilibrio esistente. Per la strategia di Cavour, per la sua politica, era una drammatica sconfitta. In questi frangenti convulsi, si avvia una battaglia diplomatica sottile e complicatissima, su chi debba a prendere parte al Congresso (gli altri Stati italiani, mentre viene addirittura proposto di non farvi prendere parte al Piemonte), sulle solite questioni di preminenza tra grandi e piccoli Stati, sul disarmo che avrebbe dovuto precedere il Congresso stesso (l’Austria insiste, ovviamente, per il disarmo del Piemonte, che è nel pieno della preparazione della guerra, sia per l’esercito regolare, sia per l’afflusso dei volontari). Cavour vive un dramma personale: all’interno, le attese create dagli accordi di Plombières sono immense e lo svanire della guerra contro l’Austria annienterebbe il suo prestigio presso i patrioti di tutte le tendenze; all’esterno, il Conte non può sottrarsi ad una sfibrante trattativa diplomatica, pur sperando che l’ipotesi del Congresso fallisca.
Impossibile ricostruire, in poche pagine, il susseguirsi sempre più fitto delle mosse diplomatiche fatte da Londra, da Vienna, da Parigi. Sta di fatto che il Congresso sembra ormai inevitabile: la stessa Francia si fa tramite per la richiesta ormai ineludibile di disarmo al Piemonte: a questa richiesta Cavour piomba nella disperazione. All’inviato francese risponde che ormai non gli rimane che tirarsi un colpo di pistola e farsi saltare la testa. Poche ore dopo affronta un consiglio dei ministri difficilissimo, in cui gli vengono rimproverate le sue scelte, e subito dopo telegrafò a Massimo d’Azeglio, che si trova a Londra, la decisione di accettare il disarmo preliminare, dal momento che anche la Francia si è unita alla richiesta inglese. E’ il fallimento di un’intera strategia politica: non a caso, in questo delicatissimo frangente, Cavour fa testamento e si chiude nell’isolamento. Preoccupati, i suoi amici mandano il fido Castelli a trovarlo: e costui lo trova circondato da mucchi di carte strappate, mentre nel caminetto ne bruciano altre. Ma ancora una volta la storia dimostra di essere una grande improvvisatrice. Gli Austriaci, infatti, si irrigidiscono e pretendono che il Piemonte disarmi immediatamente, minacciando in caso contrario la guerra. Viene così inviato un ultimatum per Torino, che mette il Piemonte nelle condizioni di apparire alle potenze europee come la vittima di una ingiustificata aggressione. Cavour passa dalla disperazione all’entusiasmo: la guerra è assicurata e la Francia non potrà sottrarsi ai suoi impegni. Come avrebbe detto Massimo d’Azeglio, si trattò di uno di quei terni al lotto che capitano una volta al secolo. La fortuna aveva arriso alla virtù politica del Conte.
Per un verso Cavour ebbe dunque ragione nella sua intuizione a voler diplomatizzare il Risorgimento, contro la soluzione rivoluzionaria o militare. Le sorti vittoriose della II guerra d’indipendenza stanno lì a dimostrarlo, giacché assestano un colpo formidabile (e sostanzialmente definitivo) all’egemonia austriaca in Italia. Ma quella stessa guerra, con l’armistizio di Villafranca tra Napoleone III e gli Austriaci (armistizio che tradisce gli accordi territoriali di Plombières), sta anche a dimostrare che la diplomatizzazione è esposta ai rischi derivanti dalla tendenze riequilibratici del sistema internazionale; e quando ciò accade, a riavviare il processo unitario sarà l’iniziativa popolare, di segno moderato nel centro-Italia, di segno garibaldino-mazziniano nell’Italia meridionale. La ‘soluzione politico-diplomatica’, in sostanza, consiste nell’utilizzare tutti gli elementi esistenti all’interno del concerto delle potenze europee e si contrappone alla soluzione rivoluzionaria (le rivoluzioni nazionali) di Mazzini, fondata sulla alleanza dei popoli contro i sovrani e alla soluzione militare sperimentata nel 1848 da Gioberti. La soluzione cavouriana permette alla dinastia sabauda di raccogliere intorno le forze democratiche rimaste deluse dalla strategia mazziniana. E tuttavia Villafranca dimostra che anche Mazzini, col suo richiamo alle forze popolari di contro a quelle diplomatiche, aveva le sue ragioni.
Indicazioni bibliografiche
La bibliografia su Cavour è ovviamente sterminata. Per chi voglia una ricostruzione approfondita della figura e dell’opera di Cavour, il rinvio obbligato è al grande lavoro di Rosario Romeo: Cavour e il suo tempo, 3 voll., Laterza, Roma-Bari, 1969-1984.
Per ricostruzioni documentate, ma nel complesso snelle, mi limito a segnalare i seguenti testi:
- Cognasso, Cavour, Dall’Oglio, Milano 1974
- Roveri, Camillo Benso di Cavour, La Nuova Italia, Firenze 1977
- Mack Smith, Cavour, Bompiani, Milano 1988
- Romeo, La vita di Cavour, Laterza, Roma-Bari 1990
- Talamo, Cavour, La Navicella, Roma 1992
- Hearder, Cavour: un europeo piemontese, Laterza, Roma-Bari 1994
- Cafagna, Cavour, Il Mulino, Bologna 1999
- e M. Corgnati, Cavour tra passione e ragione, Centro studi piemontesi, Torino 1999
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* Docente di Storia delle Dottrine Politiche all’Università “Suor Orsola Benincasa” di Napoli e all’Università “La Sapienza” di Roma