Mazzini e l’opzione rivoluzionaria
Giuseppe Parlato
L’eredità giacobina
Il rapporto fra progetto unitario e scelta rivoluzionaria si pose immediatamente, già alla fine del XVIII secolo, come espressione della cultura della Rivoluzione francese.
Se il Settecento espresse una cultura che si poneva in termini di forte discontinuità rispetto al passato, i mezzi con i quali si intendeva modificare l’assetto politico ed economico della società europea – e italiana, in particolare – erano sostanzialmente riformistici. Il Settecento riformatore, titolo di una delle più significative opere complessive sul secolo dei lumi scritta dallo storico Franco Venturi, individuò nelle riforme politiche ed economiche il vero processo di rinnovamento dell’Europa (si parlò non a caso di “assolutismo illuminato”). Con la grande rivoluzione del 1789, gli schemi politici mutarono repentinamente, penalizzando ogni ipotesi di graduale cambiamento della società e dei sistemi politici.
In Italia il riformismo illuminato non riuscì a fissarsi stabilmente al potere e soprattutto non riuscì a intercettare le pulsioni verso l’unità nazionale che divennero realtà soltanto con i due principali effetti della Rivoluzione francese: il giacobinismo e l’esperienza napoleonica.
Si può dire, non senza una certa forzatura, che cominciò allora, dalla Rivoluzione francese, la sfortuna del termine “riformismo”, che venne inteso non già come una proposta di trasformazione economica e politica graduale e senza traumi, ma piuttosto come una sorta di ripiego rispetto alla strada più corta e risolutiva, la rivoluzione, o addirittura come una soluzione sostanzialmente conservatrice destinata a bloccare un processo rivoluzionario ineluttabile e non più procrastinabile. Una sfortuna di lunga durata, se pensiamo che il riformismo è stato bandito dal linguaggio politico italiano dal Risorgimento almeno fino alla caduta del muro di Berlino, allorché apparve chiaro che i duecento anni di ideologia (dal 1789 al 1989, come ha ricordato lo storico francese François Furet) avevano cancellato le speranze riposte nelle trasformazioni rivoluzionarie e nei grandi scenari.
Il pensiero rivoluzionario influì notevolmente sulle società segrete nate in Italia dopo il 1789, sia attraverso le costituzioni giacobine, sia attraverso l’elaborazione di alcuni personaggi, in particolare Babeuf, che vollero dare al messaggio rivoluzionario un’impronta fortemente egualitaria.
In Italia, in altri termini, non si diffuse tanto il messaggio girondino o quello termidoriano, che prefiguravano rispettivamente un esito liberale oppure addirittura una società con venature conservatrici, quanto quello giacobino. Il caso dei Sublimi Maestri Perfetti di Filippo Buonarroti o le elaborazioni sulla “guerra per bande” di Saint-Jorioz, rappresentarono un mondo rivoluzionario estremamente elitistico, nel quale l’insurrezione di pochi colti e consapevoli (in un’ottica che richiamava la struttura della Massoneria) mirava a modificare profondamente l’assetto politico e sociale degli Stati italiani.
In questa ottica, la Carboneria costituì l’esempio più significativo di organizzazione settaria. Le sette segrete furono, dunque, i primi movimenti politici dell’Italia dopo la Restaurazione che miravano a un sovvertimento politico dei pochi “eletti”, dei pochi in grado di conoscere in maniera approfondita le ragioni della rivoluzione, i quali avevano il compito, una volta preso il potere, di svolgere un’intensa azione pedagogica nei confronti di tutti gli altri.
I moti del 1820-21 furono il primo esempio dell’azione carbonara e delle altre sette segrete. A Napoli nel 1820 e a Torino l’anno successivo scoppiarono due insurrezioni militari che si richiamavano a quella avvenuta a Cadice nel gennaio 1820, allorché alcuni ufficiali spagnoli in procinto di essere inviati in America latina, insorsero chiedendo la Costituzione di Cadice del 1812, una costituzione fortemente “borghese” e in grado di limitare il potere nobiliare.
Anche se in Piemonte prevalse con Santorre di Santarosa l’opzione per la Costituzione spagnola, vi era una corrente che invece propugnava la Costituzione octroyée in vigore allora nella Francia di Luigi XVIII, più moderata e più rispettosa del potere dei nobili. Ugualmente la costituzione spagnola fu adottata a Napoli.
I moti fallirono, sia a Napoli che a Torino, per l’intervento degli austriaci e molti rivoluzionari lasciarono l’Italia per raggiungere la Spagna (o la Grecia), dove ancora si combatteva per affermare i principi costituzionali.
La prima consapevolezza politica di Mazzini si manifestò proprio in occasione dei moti piemontesi del 1821. In realtà, il suo spirito ribelle era già noto da un anno, quando fu coinvolto in una zuffa scoppiata fra studenti dell’università e, anche se per poco tempo, fu arrestato. In ogni caso, nel marzo 1821, a sedici anni, partecipò ai tumulti studenteschi con i quali i giovani genovesi reclamavano la costituzione. Per questo motivo il suo nome figura tra gli inquisiti dalla polizia del Regno di Sardegna e, pur non avendo avuto conseguenze di carattere penale, da quel momento incominciò ad essere controllato come pericoloso. Quei moti rimasero impressi nella mente del giovane Mazzini non soltanto per avervi partecipato in qualche modo, ma anche perché, alla loro conclusione, incontrò un gruppo di profughi dei falliti moti che, a Genova, attendeva di imbarcarsi per la Spagna.
La Giovane Italia
La sensazione che la situazione italiana si potesse risolvere soltanto con una soluzione insurrezionale fu presente in tutto l’arco della vita politica di Mazzini, e nacque nel periodo giovanile: nel 1827 si affiliò alla Carboneria, assumendo incarichi di rilievo, tanto da essere prima inquisito dalla polizia, quindi costretto all’esilio a Marsiglia, nel 1831.
Fu a Marsiglia, in un ambiente dove abbondavano gli esuli politici, che nacque a Mazzini l’idea della “Giovane Italia”, all’inizio ancora debitrice alla struttura settaria propria della Carboneria e di quella degli Apofasiméni, diretta da Bianco di Saint-Jorioz, alla quale Mazzini aveva per un certo tempo aderito. Tuttavia, proprio la riflessione sugli esiti insurrezionali dei moti del 1821 e sulle necessità politiche del momento portò a scindere l’esperienza della nuova organizzazione da quella delle sette segrete nate dopo la Restaurazione. Tanto la Carboneria era élitistica, segreta e da iniziati, tanto la “Giovane Italia” avrebbe dovuto rappresentare un vero e proprio movimento popolare: quindi presentarsi, ove possibile, alla luce del sole, avere un rapporto con tutti i ceti della società e soprattutto sviluppare una funzione di propaganda rispetto alla necessità della unificazione italiana. Meno simbolismo, quindi, e più azione organizzata con responsabili noti all’organizzazione (e non con vertici clandestini come nella Massoneria e nella Carboneria).
Nello stesso tempo Mazzini prendeva le distanza dalla Rivoluzione francese e dal suo mito, così radicato nel mondo insurrezionale italiano e non, dalla fine del periodo napoleonico. Pur essendo l’episodio che aveva cambiato radicalmente l’umanità, la Rivoluzione francese era stata in primo luogo francese, il che significava che si trattava della conclusione di un fenomeno (la crisi dell’ancien regime), che non si poteva prendere come modello della evoluzione della situazione italiana. In effetti, tutto il mondo settario si rifaceva alla grande rivoluzione dell’’89 come alla “madre di tutte le rivoluzioni”, all’evento che aveva aperto un nuovo corso dell’umanità e che occorreva seguire ed imitare. Per Mazzini, invece, la situazione politica italiana – sia per la particolarità del quadro politico e culturale italiano, sia per le caratteristiche dei suoi abitanti – aveva bisogno di soluzioni assolutamente nuove e la “Giovane Italia” si candidava per rappresentare la novità politica.
In particolare, Mazzini introdusse un elemento centrale nella futura evoluzione del sentimento nazionale: la visione mistico-religiosa della patria. Poiché il suo obiettivo era quello di preparare il terreno pedagogicamente e con l’esempio alla unificazione nazionale (“le rivoluzioni si fanno col popolo pel popolo”), uguaglianza, sovranità popolare e questione sociale diventavano le parole d’ordine del pensiero mazziniano. Il metodo era strettamente religioso (e anche questo costituiva una differenza non irrilevante con la Rivoluzione francese). Se la causa italiana, se la rivoluzione fosse diventata una religione, allora il popolo avrebbe capito: per cui negli scritti di Mazzini si trovavano frequentemente parole come martirio, fede, resurrezione, sacrificio, apostolato.
Il nuovo movimento, che assunse le forme di un vero e proprio partito politico, il primo in Italia, aveva obiettivi molto chiari e precisi: indipendenza dell’Italia dallo straniero; unità italiana; libertà. Dopo un brevissimo periodo in cui si professò “federalista”, Mazzini perseguì tenacemente la linea unitaria, l’unica che possa veramente sposarsi con la Repubblica. La linea unitaria non era soltanto dettata dal timore che il federalismo potesse costituire un elemento di disunione o di autonomia municipalistica in una nazione giovane, ma anche dal fatto che per Mazzini la comunità nazionale era un corpo unico; la sua visione era organica ed etica e partiva dal presupposto che la nazione fosse un organismo nel quale l’armonia delle varie componenti locali e sociali era essenziale per il suo progresso, nell’ambito di un’assoluta finalità etica.
Un altro elemento innovativo della “Giovane Italia” fu la creazione di una rivista, con lo stesso nome, in grado di propagandare le idee di Mazzini a un pubblico più vasto rispetto a quello degli affiliati, ribadendo così quella necessità educativa che egli poneva al vertice degli scopi del movimento.
La Giovane Europa e il principio di nazionalità
Un paio d’anni dopo la nascita della “Giovane Italia”, per Mazzini potevano già essere maturi i tempi dell’insurrezione. L’elemento insurrezionale, che Mazzini traeva direttamente dal mondo settario, nel metodo era tuttavia diverso. Intanto per il numero delle persone da mobilitare: non si trattava più di una élite di persone che, secondo gli insurrezionalisti settari, avrebbero dovuto trascinare – non si sa esattamente come – il popolo e realizzare la rivoluzione. Si trattava, invece, di gruppi sempre più numerosi di militanti, convinti e consapevoli degli obiettivi dell’azione, i quali avrebbero svolto una importante azione educativa verso il popolo, il quale, a sua volta, si sarebbe mosso di conseguenza. In particolare, Mazzini pensava che una insurrezione avrebbe indotto l’Austria a intervenire militarmente contro il Piemonte e ciò avrebbe determinato lo scoppio della rivoluzione nazionale.
Tuttavia, nel 1833, quando a Mazzini sembrava imminente il momento dell’insurrezione, una serie di arresti e di processi, e di conseguenti condanne capitali, scompaginò la sua strategia. Prima tentò con il Mezzogiorno, convinto di avere colà numeri importanti di affiliati da mobilitare. Così non era, in effetti, e Mazzini pensò allora a una insurrezione in Savoia che sarebbe partita dalla Svizzera, dove nel frattempo si era rifugiato perché ricercato dalla polizia piemontese. Il fallimento della insurrezione in Savoia, determinato dalla difficoltà di coordinare gli insorti e dalla scarsità dei numeri degli aderenti di cui alla fine poté disporre, provocò la crisi del suo movimento, ma contemporaneamente lo qualificò come il più pericoloso elemento rivoluzionario presente in Italia.
Il fallimento della spedizione in Savoia non affievolì lo spirito di Mazzini: anzi, i fallimenti dovevano costituire l’elemento fondamentale per una ripresa, per ritentare ancora la via insurrezionale. L’esempio degli insuccessi mazziniani fece sì che il suo messaggio nazionale si diffondesse ancora maggiormente e se l’idea di un’Italia unita cominciò a non essere più semplice ipotesi di élites intellettuali ma cominciò a interessare molti settori della società (artigiani, studenti, professionisti), fino a diventare un fenomeno di “massa” (nel senso che possiamo dare a un fenomeno di metà Ottocento), lo si deve essenzialmente alla sua pervicacia e alla sua tenacia nel non farsi condizionare dalle sconfitte.
Tanto fu evidente e forte l’eco della sua azione insurrezionale che a un certo punto, nel 1834, si pose il problema di allargare i confini e gli scopi della “Giovane Italia” a un ambito più vasto. Nacque così, da un gruppo di esuli politici italiani, polacchi e tedeschi, la “Giovane Europa”. Il significato della nuova formula era rilevante su due piani. Da un lato c’era la necessità di allargare il discorso a tutti i popoli le cui nazionalità fossero oppresse dai vecchi stati, per unire le forze e combattere l’assetto geopolitico nato dalla Restaurazione, dall’altro si veniva definendo uno dei principi cardine del pensiero politico del Risorgimento, quello secondo cui il rispetto e la tutela internazionale della propria nazionalità costituivano la logica premessa per il rispetto e la tutela di tutte le nazionalità. Questo principio, che sanciva in maniera abbastanza chiara il rifiuto della sopraffazione di una nazionalità sull’altra e quindi qualificava il pensiero mazziniano (e risorgimentale) non tanto come “nazionalista”, quanto piuttosto come “nazionalitario”, preludeva a una sorta di Europa delle nazionalità. Da questa tesi discendeva anche un’altra conseguenza, di carattere geopolitico: il rifiuto del riconoscimento degli Stati sovranazionali che, come l’Austria-Ungheria, soffocavano le singole nazionalità oppresse e che non nascevano – come gli Stati Uniti – da un libero patto fra popoli.
Ciò può spiegare per quale motivo, ancora alla vigilia della prima guerra mondiale, buona parte del movimento democratico di origine mazziniana non riteneva di potere risolvere la questione italiana se non passando attraverso la distruzione dell’impero della duplice monarchia.
Detto ciò, tuttavia era ben presente in Mazzini, come in altri pensatori del Risorgimento, il concetto di “primato”. Un primato inteso come “morale e civile”, come avrebbe precisato Gioberti, costituiva comunque qualcosa che tendeva a differenziare una nazione dall’altra, come se alcune di esse avessero un compito da svolgere a favore o in rappresentanza delle altre nazioni, e altre non avessero tale compito. È indubbio che anche in Mazzini era presente l’idea che l’Italia fosse la nazione che potesse meglio di altre costituire un esempio da seguire e che non fossero poi molte le nazioni in grado di dare un effettivo contributo all’umanità. Su questo punto, occorre dire che il Risorgimento non è stato mai molto chiaro e molti studiosi hanno voluto vedere in questo non mai chiarito problema il germe di un futuro nazionalismo.
Tuttavia, rispetto a una compiuta teoria nazionalista, che cronologicamente va collocata tra la fine dell’Ottocento e i primi del nuovo secolo, manca del tutto nella visione risorgimentale l’idea dell’imperialismo. Seppure forte l’idea che l’Italia abbia un ruolo nel concerto internazionale, tale ruolo è più morale e culturale che politico e militare. E, in ogni caso, è del tutto assente l’ipotesi che un’idea di nazionalità possa sopraffarne un’altra. Anzi, è stata proprio il rispetto per l’altrui nazionalità, desunto dalla tradizione risorgimentale, a indurre molti patrioti ad andare a combattere per l’indipendenza di altre nazioni: pensiamo a Santorre di Santarosa che andò a combattere e a morire per l’indipendenza greca, a quanti, dopo il fallimento dei moti piemontesi e napoletani del ’20-’21 decisero di andare in Spagna, o infine a Garibaldi, che nel 1870 non esitò a correre in soccorso della Francia in guerra contro la Prussia, quella stessa Francia che impediva all’Italia di acquisire Roma.
La questione sociale
Falliti i moti in Savoia, Mazzini di fatto sciolse la “Giovane Italia” e dovette riparare in Inghilterra, dove ebbe modo di riflettere sulla situazione italiana, affinando alcune tesi, come quelle sulla dimensione europea della sua metodologia rispetto alla organizzazione del movimento insurrezionale. Nel 1839, “rifondò” la “Giovane Italia” soprattutto perché era preoccupato dal proliferare di gruppi e di organizzazioni totalmente privi di un unico centro operativo. Le iniziative individuali vagamente riconducibili al mazzinianesimo erano state molte e tutte segnate da insuccesso. Si trattava di raggruppare le fila delle varie organizzazioni riportandole a un unico punto di riferimento strategico e ideologico. C’era anche la volontà, in questa rifondazione della “Giovane Italia”, di contrastare le organizzazioni concorrenti, come la “Lega Italica” di Nicola Fabrizi, e quindi di qualificare la Giovane Italia come il punto di riferimento più importante del mondo democratico-insurrezionale. Nello stesso tempo, Mazzini si rendeva conto che stavano crescendo i consensi per la linea moderata e liberale, soprattutto dopo gli insuccessi e l’alto costo umano dei tentativi mazziniani, e pertanto si trattava di costruire un modello politico che risultasse alternativo alla linea moderata.
Negli anni ’40, infatti, mentre si registrava l’ennesimo fallimento insurrezionale con la spedizione dei fratelli Bandiera, Gioberti e Balbo stavano preparando una soluzione alla questione italiana che non passava dall’insurrezione. Per Balbo, il gioco delle diplomazie avrebbe indotto, prima o poi, l’Austria a un “inorientamento”; bastava stabilire con l’Austria, secondo Balbo comunque fondamentale nell’equilibrio geopolitico europeo, un accordo per cui a ogni compenso verso oriente di Vienna sarebbe corrisposto un vantaggio territoriale per l’Italia. L’idea era ottima e rappresentò il punto di forza del rinnovo della Triplice Alleanza, nel 1882. Tuttavia, ben sappiamo che, quando si dovette applicare, la proposta “compensativa” austro-ungarica risultò essere assolutamente inaccettabile. Per Gioberti, invece, l’Italia si sarebbe potuta realizzare attraverso una federazione con a capo il Papa, una sorta di capo dei principi italiani, garante della loro nuova alleanza.
Ma il 1849 cancellò sia l’illusione di una federazione, sia la speranza di una soluzione democratica, e cioè di popolo, alla questione italiana, sia anche la soluzione federale, resa inattuale dal “tradimento” dei principi italiani, i quali vennero meno all’impegno assunto del 1848 di salvare gli Statuti. Rimanevano la soluzione diplomatica e quella insurrezional-militare: quest’ultima però, frutto spesso di una lettura superficiale o errata delle condizioni politiche dell’Italia meridionale, ebbe vita stentata e improduttiva, come confermò l’impresa di Pisacane.
Nella nuova “Giovane Italia”, Mazzini aggiungeva un elemento significativo che avrà importanza nel medio futuro, la questione sociale. Durante il soggiorno inglese, aveva avuto modo di verificare di quanto la situazione fosse diversa da quella italiana in termini di sviluppo industriale. La classe operaia in Inghilterra esisteva davvero, mentre in Italia, al massimo, il ceto più politicizzata, vicino al mondo democratico, era quella degli artigiani.
Mazzini colse immediatamente la forza dirompente del concetto di lotta di classe internazionale, non soltanto per la sua capacità di aggregazione, ma soprattutto perché avrebbe vanificato – se si fosse affermata – ogni pulsione e ogni interesse di carattere nazionale. Il castello di teorie di Mazzini sarebbe franato di fronte all’azione antagonista della lotta di classe, già paventata nel Capitale di Marx, finalizzata ad abbattere quella classe borghese che sulla idea di nazione si era fondata e si stava, in qualche modo, ancora fondando.
Per questi motivi, Mazzini parlò di collaborazione tra le classi, nel supremo interesse della nazione, e di partecipazione degli operai alla gestione e alla produzione, affinché non si entrasse nell’ottica dello sfruttamento previsto da Marx.
La collaborazione sociale partiva da un dato ben evidentemente “religioso” (mentre Marx era giustamente accusato di “materialismo”), e cioè la necessità che tutti avessero ben chiari i doveri prima che i diritti. Una comunità, fatta da tutto il popolo e non soltanto espressione di una classe, ancorché di lavoratori, poteva reggersi soltanto sulla condivisione sul rispetto dei doveri di ciascuno, prologo all’affermazione dei diritti. Se la nazione era un corpo organico fondato su una scelta di carattere spiritualistico, ogni ipotesi legata a una visione materialistica o comunque di vantaggio rivoluzionario di una sola parte, ancorché la più debole, era destituita di ogni fondamento. Di qui la durissima polemica con Marx e, successivamente, con l’anarchico Bakunin, i quali partivano da una visione internazionalista e materialistica della società e dello sviluppo umano.
Come sempre, Mazzini volle dotare le sue idee di un supporto organizzativo: nasceva così l’Associazione Operai Italiani, che tuttavia ebbe influenza soprattutto nell’ambito dell’emigrazione italiana, mentre ben poca ne ebbe nella organizzazione in Italia del mondo del lavoro, sia industriale che agricolo: in quest’ultimo caso poi, il messaggio di Mazzini risultò sostanzialmente impenetrabile, a causa dello stretto e tradizionale legame del mondo contadino con la Chiesa. .
La mancata insurrezione nazionale dei contadini e degli operai venne a lungo contestata a Mazzini e, in generale, allo stesso Risorgimento. Furono Gramsci e Gobetti a parlare di “rivoluzione agraria mancata” e di colpa originaria del Risorgimento, che avrebbe così avuto in sé i segni della conservazione, dell’arretratezza, del sottosviluppo e dell’autoritarismo. In realtà, come ha esaurientemente spiegato lo storico Rosario Romeo, una rivoluzione degli operai e dei contadini non si sarebbe potuta fare in quel momento (tra gli anni quaranta e gli anni sessanta del secolo scorso), per l’assenza di una disponibilità reattiva del mondo delle campagne. E se si fosse fatta, per assurdo, si sarebbe fatta in termini non certamente progressivi: infatti, la rivoluzione agraria vagheggiata da Gramsci non avrebbe potuto avere quei caratteri di preparazione allo sviluppo industriale che invece ebbe l’erede del Risorgimento, quello Stato liberale, cioè, che realizzando le infrastrutture, riuscì a creare le condizioni – pur tra molte contraddizioni – della nascita di uno Stato industriale in Italia. Ciò determinò la possibilità per l’Italia di essere competitiva a livello europeo.
In altri termini, se si fosse realizzata una rivoluzione agraria senza una adeguata politica di infrastrutture, non si sarebbe comunque intaccato il latifondo, per sconfiggere il quale si sarebbe dovuta creare una diffusa proprietà privata, solida e in grado di produrre quella ricchezza produttiva che, a sua volta, avrebbe determinato le condizioni per la nascita di uno sviluppo nell’industria. Il che, sia per le ragioni storiche di arretratezza del meridione, sia per il progetto stesso di una rivoluzione agraria, sarebbe stato impossibile.
A tutto ciò occorre aggiungere una notazione di carattere internazionale: se il Risorgimento si fosse caratterizzato come Gramsci avrebbe voluto, si sarebbe scatenata la reazione delle grandi potenze europee, ancora legate a una visione sociale di carattere conservatore e certamente non disponibili a vedere l’Italia unita trasformata in un paese giacobino con prospettive di tipo comunistico.
Le occasioni del 1848
Uno dei principali nemici di Mazzini fu, com’è noto, Cavour. Li divideva non soltanto una diversa concezione della politica, ma anche il metodo con il quale raggiungere l’unità italiana; infine li divideva la questione istituzionale.
Cominciamo da quest’ultima. Per Mazzini la repubblica era la migliore delle soluzioni possibili, perché avrebbe rappresentato veramente l’affermazione di un governo popolare e non il perpetuarsi di un potere dinastico. Inoltre, la repubblica per Mazzini si riallacciava alla tradizione romantica, che vedeva nella Roma repubblicana il migliore e più costruttivo periodo della tradizione italica. La monarchia invece mostrava ancora ben visibili i segni delle antiche nobiltà, dei poteri ristretti, delle difficili rappresentanze popolari, delle aristocrazie che impedivano una crescita effettiva della società.
In merito alle divergenze sulla concezione politica, occorre dire che per Mazzini liberalismo voleva dire egoismo, individualismo, separazione di Stato e individuo, di religione e politica. Invece il pensiero mazziniano puntava essenzialmente all’unità, pur difendendo la sacralità dell’individuo. La stessa libertà, punto di forza del liberalismo risorgimentale, era finalizzata, per Mazzini, alla educazione dei cittadini, affinché arrivassero alla verità. A differenza del liberalismo di Cavour, che non si proponeva di cambiare l’individuo per renderlo migliore, il pensatore genovese mirava alla reazione di una società di credenti nella quale i doveri venissero prima dei diritti.
Un’altra evidente differenza con Cavour fu il metodo per raggiungere l’unificazione. Come già si è accennato, per Cavour era indispensabile una politica di accordi internazionali, in primo luogo per segnalare la questione italiana nel consesso europeo e in secondo luogo per realizzare una politica di alleanze per iniziare il processo di unificazione, che per il Conte sarebbe stato lento. Per Mazzini ogni accordo di carattere internazionale sarebbe stato un gravissimo errore perché avrebbe tolto al popolo italiano la possibilità di realizzare autonomamente il suo farsi Stato. Inoltre l’apporto delle diplomazie avrebbe impedito lo svilupparsi di un senso di comune educazione alla nazione, una coscienza che per Mazzini si acquisiva soprattutto attraverso i tentativi insurrezionali, che costituirono sempre, fino all’ultimo, il metodo migliore e più diretto di procedere verso l’unità.
Tuttavia, il metodo insurrezionale, come si è già accennato, mostrò il proprio fallimento alla fine degli anni Quaranta, proprio allorché Mazzini ebbe la grande possibilità di svolgere un ruolo di particolare rilievo, anche a livello di potere, nella repubblica romana.
Mazzini aveva seguito con particolare attenzione i prodromi della rivoluzione del ’48, invitando i suoi amici a sostenere il partito delle riforme allo scopo di sfruttarlo per i fini nazionali, ma contemporaneamente mettendoli in guardia dall’aderire direttamente al liberalismo moderato, che non avrebbe mai realizzato l’unità di popolo. Allo stesso modo aveva invitato coloro che in Italia lo sostenevano a diffidare seriamente della soluzione federalista, ancorché repubblicana, come quella di Cattaneo, perché debole, priva di un vero afflato unitario e soprattutto pericolosa, perché la struttura federalista avrebbe consentito agli Stati stranieri di intervenire nuovamente nei fatti d’Italia.
Gli anni Quaranta, mentre Mazzini era in Inghilterra, erano stati gli anni delle grandi illusioni dell’insurrezionalismo: l’episodio – e il fallimento – più drammatico fu senza dubbio quello dei fratelli Bandiera, nel 1844. Veneti, figli di un ammiraglio della marina austriaca, Attilio ed Emilio Bandiera dalla Grecia raggiunsero le coste calabresi, convinti che vi fosse un’insurrezione in atto. In realtà, l’insurrezione si era già conclusa con una dura repressione del governo borbonico: quando i Bandiera arrivarono in Calabria era già tutto finito; arrestati in seguito a una delazione, furono fucilati senza avere potuto realizzare neppure il tentativo di sollevare le popolazioni calabre. Mazzini fu subito accusato di velleitarismo e di mandare a morire inutilmente i giovani che lo seguivano. A parte il fatto che, lo ripetiamo, per Mazzini anche il più malriuscito dei tentativi era sempre positivo, a causa di quella funzione esemplare che egli assegnava all’azione insurrezionale, anche e forse soprattutto a quella fallita, restava il fatto che Mazzini, nel caso specifico, si era dichiarato contrario alla spedizione. I fratelli Bandiera, pur essendo mazziniani, avevano infatti seguito le indicazioni del capo della Legione Italica, Nicola Fabrizi, che Mazzini non condivideva. Tuttavia, restava il fatto che la metodologia di Mazzini non era poi così diversa da quella di Fabrizi e pertanto le critiche potevano essere mosse ad entrambi.
Ma l’insurrezione palermitana del 1848 e, soprattutto, l’insurrezione milanese sembrarono dare ragione a Mazzini: il popolo insorgeva ed evidentemente il seme mazziniano gettato apparentemente invano stava dando i suoi frutti. Proprio per questo Mazzini abbandonò l’organizzazione della Giovane Italia, che aveva fatto il suo tempo, e costituì l’Associazione Nazionale Italiana, nel marzo 1848, pochi giorni prima dell’insurrezione milanese. Si trattava di un vero e proprio partito politico, con un programma ben definito. Il primo passo era il raggiungimento dell’unità e la liberazione dallo straniero. Quindi si sarebbe discusso della scelta tra monarchia e repubblica, che il popolo avrebbe compiuto con ben maggiore consapevolezza. Veniva ribadita la concezione democratica e volontaristica, nell’ambito di una visione messianica e provvidenzialistica della storia. Per Mazzini, quindi, la patria, la nazione, non erano il frutto di un territorio comune, come per altre concezioni fondate sul binomio sangue-territorio, ma «una comunione fraterna di uomini liberi parlanti la stessa favella e credenti in una fede sociale». Questo ultimo accenno alla fede sociale comune rappresenta la componente ideologica del mazzinianesimo, destinata a perdurare nei decenni, fino alla creazione dei movimenti repubblicani della fine Ottocento e del Novecento che appunto a Mazzini si riferivano.
Era la “terza Italia”, quella del popolo, dopo l’Italia dell’Impero e quella dei Papi, e non a caso il giornale mazziniano, fondato in quell’occasione, si chiamò “L’Italia del Popolo”. Ma la stagione delle insurrezioni del 1848 non ebbe l’esito sperato. Con il mutato atteggiamento di Pio IX, che dopo una iniziale adesione al moto unitario se ne dichiarerà contrario, facendo così fallire l’ipotesi neoguelfa, e con l’armistizio dell’agosto 1848 tra Piemonte e Austria, si poteva dire che l’ipotesi della guerra federale in grado di dare sviluppo al problema nazionale fosse fallita. A questo punto i democratici ripresero la loro autonomia: Venezia tornava alla Repubblica di San Marco, in Toscana il moderatismo lasciava il passo alla “dittatura” democratica di Guerrazzi, a Napoli, fallita ogni possibilità di compromesso tra liberali e monarchia la guerra e le insurrezioni proseguivano in Sicilia e in Calabria. Dove però si raggiunse il punto più alto e più significativo della storia del movimento popolare italiano nel Risorgimento fu a Roma con la proclamazione della Repubblica.
Nonostante tutto, Mazzini, come Garibaldi e altri, continuarono a credere nella possibilità che il popolo potesse di nuovo insorgere; di qui la necessità di attivare e potenziare il “Partito dell’Azione”, una formula che ebbe molta fortuna nell’Italia democratica negli anni successivi: il “Partito d’Azione” fu per breve tempo, tra gli ultimi anni della seconda guerra mondiale e i primi anni Cinquanta, la formazione politica che meglio e più di altre si richiamava all’insegnamento di Mazzini.
La repubblica romana
Nel novembre 1848, a Roma era stato ucciso Pellegrino Rossi, primo ministro dello Stato Pontificio, che con i suoi progetti di riforma aveva scontentato tutti, i conservatori e i rivoluzionari. Ma la popolazione romana scese in piazza per chiedere a Pio IX un nuovo governo che operasse a favore del progetto unitario italiano e convocasse la costituente. Poco dopo il Papa lasciava Roma, determinando un vuoto di potere, subito coperto dai mazziniani, che determinarono una svolta rivoluzionaria della situazione politica romana. A febbraio veniva proclamata la repubblica romana, della quale Mazzini fu uno dei triumviri, con Armellini e Saffi.
Il mito della “terza Roma” (anche qui, dopo quella dell’impero e quella dei papi, la Roma del popolo) fu diffuso da Mazzini e costituì un punto di riferimento fondamentale per tutto il movimento dei democratici.
Si è fatta molta ironia, nel passato, circa la vera essenza del mito della romanità – e della “terza Roma” in particolare – in Mazzini. Certamente si trattava di un mito romantico, che aveva scarsi riscontri nella realtà scientifica e storica. Tuttavia è indubbio che la forza evocativa dei miti è sempre stata tale da aggregare le masse attorno a un’idea. In questo senso, Mazzini è modernissimo: la necessità del mito di Roma nasceva dal fatto che l’Italia, per unirsi, non disponeva di altri miti se non quello dell’antico splendore dell’impero romano. Un mito dell’impero trasformato in chiave nazionale e non universale, com’era in effetti. E la stessa “seconda Roma”, quella dei papi, nulla aveva di nazionale, ma piuttosto aveva costituito uno degli ostacoli maggiori a ogni anche tenue progetto di unificazione nazionale.
Tuttavia, Mazzini poneva l’accento non tanto sulla presunta identità nazionale rappresentata dall’impero romano o dal pontificato, che evidentemente era del tutto assente, quanto piuttosto sul ruolo che l’ingegno italiano aveva avuto in entrambi i casi. Era il solito (ed efficacissimo) discorso del “primato”, che da Gioberti in poi, con declinazioni assolutamente differenti, finiva con proporsi come modello aggregativo attorno al mito. Perché, questa era la questione, l’Italia non aveva uno Stato assoluto moderno da evocare, né aveva avuto nei secoli passati un esempio, un’occasione, un momento in cui lo spirito nazionale si fosse affermato. Non c’era stato nulla di tutto ciò: occorreva quindi inventare una tradizione e la si inventò attraverso gli unici momenti “alti” della nostra storia: l’impero e il papato, appunto.
In questo modo, Mazzini dava al mondo (ma soprattutto agli italiani) un esempio – anche in questo caso era pedagogico – di quanto lo spirito italiano fosse stato glorioso e valente nel passato se era riuscito a dare al mondo due istituzioni così rilevanti e così longeve come l’impero romano e il papato. Lo spirito italiano, insomma, c’era e si trattava si farlo riemergere dalle secche di una storia grigia e ostile com’era stata quella degli ultimi secoli. Ri-sorgimento, quindi, come in precedenza c’era stato il Ri-nascimento. L’episodio della repubblica romana costituì l’occasione tanto attesa per rendere attuale il mito della romanità.
Per anni, a livello storiografico, ci si è interrogati in merito alla repubblica romana: se cioè essa fu soltanto l’espressone più alta del mazzinianesimo e del democratismo rivoluzionario, con scarsi e casuali agganci a Roma, ovvero se essa fu soprattutto l’espressione del mondo democratico romano, cui Mazzini e gli altri diedero un contributo in termini di aiuto organizzativo e ideale. Dalle ricerche più recenti si propende ormai su questa seconda ipotesi. Senza nulla togliere all’azione cospirativa dei mazziniani, vi erano a Roma organizzazioni insurrezionali che aspettavano solo l’occasione per emergere e fare sentire la propria voce: il che avvenne appunto nel febbraio 1849. Non bisogna, infatti, farsi prendere dalla suggestione dei nomi illustri che giunsero a Roma per concludere l’esperienza rivoluzionaria del biennio: da Mazzini a Garibaldi, da Mameli a Dall’Ongaro, da Pisacane a Cernuschi, a Saliceti e a tanti altri. Vi era in realtà un movimento democratico romano di cui furono testimonianza evidente i giornali che uscirono in quei mesi e che dimostrarono un lungo e appassionato lavoro di approfondimento culturale e politico. D’altra parte, la stessa Costituzione – che vista la breve vita della repubblica, costituì il suo più importante esito – fu sempre considerata tra i più completi e più importanti documenti ufficiali emanati dal movimento insurrezionale italiano. Com’è noto, la costituzione fu votata dall’Assemblea costituente il 3 luglio 1849, il giorno stesso in cui la repubblica finiva. In questo senso la repubblica romana diventò uno dei possibili sviluppi del Risorgimento, e, come ha acutamente notato Stefano Tomassini, l’autore che più recente ha scritto sull’argomento, si trattò di «uno sviluppo che non troverà realizzazione nel Risorgimento stesso, ma continuerà a percorrere tutta la storia della nazione fino al secolo ventesimo e forse fino al ventunesimo, se avremo un po’ fortuna».
Tra le novità più rilevanti vi era il suffragio universale maschile (bisognerà attendere il secolo successivo per vedere votare le donne), vi era un suggestivo e un po’ fantasioso bilanciamento dei poteri, per cui non si può dire se fosse più presidenziale o più parlamentare: certamente non era prevista la figura del capo dello Stato; non si proclamava la religione cattolica religione dello Stato e si sosteneva che «dalla credenza religiosa non dipende l’esercizio dei diritti civili e politici». La sovranità era «per diritto eterno nel popolo», il quale aveva costituito una «repubblica democratica»; la struttura dello Stato si fondava sulle autonomie municipali, fin dai princìpi fondamentali della Carta: «i Municipii hanno tutti eguali diritti: la loro indipendenza non è limitata che dalle leggi di utilità generale dello Stato». E, subito dopo, si aggiungeva: «La più equa ripartizione possibile degl’interessi locali, in armonia coll’interesse politico dello Stato, è norma del riparto territoriale della Repubblica». Era prevista la suddivisione dei poteri e l’esecutivo era rappresentato da tre consoli, eletti dall’Assemblea, in carica per soli tre anni.
L’influsso della repubblica romana e della sua Costituzione, redatta per i posteri, fu enorme. Immediatamente conclusa la breve vita della repubblica, cronisti e storici cominciarono a occuparsi della sua vicenda. Ma, oltre a ciò, fu il nome di Roma a emergere finalmente nei fasti risorgimentali: se fino ad allora il Nord aveva dato un contributo preponderante alla causa nazionale e il Centro-Sud aveva solo mostrato fallimenti, in questo caso l’esempio romano, e a maggior ragione la restaurazione che ne derivò al ritorno del Pontefice, rimasero significativi nell’Italia di allora. In breve: dopo la conclusione della repubblica romana, diventò impossibile pensare a un’Italia unita senza Roma, come avrebbe voluto D’Azeglio. Come ha sostenuto Rosario Romeo, trent’anni di predicazione mazziniana avevano contribuito a rafforzare l’intuizione del conte di Cavour in merito all’importanza del problema di Roma, lanciando la formula di Roma capitale nel momento decisivo del confronto con Garibaldi e a ribadirla in seno al Parlamento italiano. Per D’Azeglio e per il vecchio moderatismo subalpino era già stata sufficiente la decisione presa da Vittorio Emanuele II all’indomani dell’armistizio con l’Austria, e cioè mantenere intatto il valore e l’essenza dello Statuto. Ciò, per D’Azeglio, avrebbe dovuto produrre un effetto “calamita” rispetto al mondo liberale (ma anche al di fuori di esso) in Italia e avrebbe dovuto determinare le condizioni dell’unificazione.
Nel che, aggiungeva Romeo, si scorge come il “buonsenso” e il “realismo” dell’ex presidente del consiglio fossero in effetti più utopistici dell’idealismo mazziniano, ispiratore e creatore delle forze più combattive del movimento nazionale, senza le quali il moderatismo azegliano non sarebbe mai riuscito a fare l’Italia. Certo, Roma significava anche altro: significava ideali di grandezza e aspirazioni di gloria staccate dalla realtà del paese e cariche di pericoli. Ma, come più volte si è detto, a ciò concorreva non solo il nome di Roma ma l’ispirazione di fondo di gran parte del patriottismo italiano. Senza quegli ideali e quelle aspirazioni non si sarebbero avute molte delle amarezze e delle tragedie che punteggiarono la storia dell’Italia unita: ma, probabilmente, non ci sarebbe stata neppure l’Italia. Indubbiamente, Cavour stette dalla parte del realismo e della moderazione: ma ebbe anche l’intuizione di ciò che valessero le forze e i motivi ideali nella costruzione dell’edificio italiano. E a ciò soprattutto si deve lo stacco che innalza la sua figura e la sua opera al disopra del mondo mediocre e ormai sterile del vecchio moderatismo.
Questo brano di Romeo, tratto dal terzo volume della fondamentale biografia di Cavour (R. Romeo, Cavour e il suo tempo. 1854-1861, Laterza, Roma-Bari 1984, p. 915), rappresenta meglio di ogni altra considerazione lo stretto rapporto che si venne a creare fra le due più significative figure risorgimentali. Ciò non in una retorica ricostruzione nella quale i “padri” del Risorgimento si ritrovano tutti in una sorta di fittizio Pantheon, quanto piuttosto nella valutazione dell’importanza del messaggio mazziniano dopo la Repubblica romana e, contemporaneamente, della sottolineatura del ruolo di statista di Cavour, il quale, pur essendo rigorosamente liberale e pur non approvando quasi nulla dell’azione e del pensiero mazziniani, tuttavia riconobbe e “sfruttò” in termini di alta politica le parti di quel pensiero che avevano determinato un forte coinvolgimento emotivo e culturale nella popolazione italiana.
Verso l’unità
La fine della repubblica romana e la susseguente fine di quella di San Marco, dopo la disperata difesa di Daniele Manin, chiusero l’attività del biennio rivoluzionario. Il bilancio era nuovamente un fallimento. In verità, com’è noto, non aveva fallito soltanto Mazzini: avevano fallito tutti i democratici di varia osservanza, dal Gioberti neoguelfo, poi estremista democratico nell’ultima fase della guerra del Piemonte all’Austria, fino al Cattaneo e al Ferrari che propugnavano una repubblica basata sul federalismo. Era rimasta in piedi soltanto l’opzione politica del liberale Cavour, con quelle “correzioni” rispetto al vecchio moderatismo che si son viste così bene illustrate da Romeo.
Per Mazzini il fallimento era dovuto essenzialmente al fatto che l’insurrezione non aveva avuto un solo centro di coordinamento a livello nazionale; nello stesso periodo il federalista Cattaneo pensava che dovesse diventare federale anche la rivoluzione, ipotizzando la necessità di otto centri diversi di coordinamento, uno per ciascuno degli Stati nei quali l’Italia allora si divideva.
Ma nonostante la lucidità dell’analisi, per Mazzini si avvicinava la fine politica: con il fallimento dei moti milanesi del 1853, il mazzinianesimo andò in crisi. E dire che quello milanese era stato un moto, per la prima volta, con una chiara connotazione sociale, avendo visto anche la partecipazione di elementi provenienti dalle classi sociali più umili. Fu anche questo elemento a disorientare e a preoccupare i ceti borghesi della capitale lombarda, i quali fino ad allora avevano dato il proprio contributo all’idea nazionale. e anche fra gli stessi mazziniani ci fu chi disapprovò quella virata in senso socialista.
Nell’opuscolo Agli Italiani, scritto da Mazzini nel marzo 1853, si ribadiva, in una sorta di descrizione giustificatoria, la bontà della sua strategia; se i moti non erano riusciti, ciò era dipeso dalla codardia delle classi dirigenti della penisola, che non avevano avuto il coraggio di appoggiare i moti. Tuttavia, il nuovo fallimento, l’anno successivo, dei moti in Lunigiana, guidati da quel Felice Orsini che qualche anno dopo avrebbe attentato alla vita di Napoleone III, mettendo in seria discussione la politica di alleanza che Cavour stava tessendo con l’imperatore francese, dimostrò come il “Partito d’Azione” fosse riuscito ad avere grande visibilità anche a livello europeo ma contemporaneamente risultasse alla fine del tutto marginale nell’ambito del processo unitario. Per altro, proprio in quel periodo, alcuni mazziniani decidevano di iniziare una forma latente ma efficace di collaborazione con il Piemonte cavouriano: l’esempio più significativo fu senza dubbio quello di Manin.
Ciò indusse Mazzini a prendere delle contromisure per evitare l’isolamento proprio nel mondo democratico. E la soluzione fu quella di avvicinarsi anch’egli a Cavour. La strategia dei due personaggi fu complessa ma tutto sommato utile ad entrambi. Per Mazzini, come si è detto, si trattava di evitare il rischio di un isolamento politico; in secondo luogo egli pensava che se fosse riuscita una delle tante insurrezioni (vi fu addirittura un quarto tentativo insurrezionale in Lunigiana, finito come i precedenti), avrebbe potuto trattare con Cavour in condizioni di forza, sperando di bloccare sul nascere quella che sembrava la prospettiva più evidente, e cioè un incontrastato dominio cavouriano nel processo di unificazione.
Per Cavour il discorso era evidentemente diverso: il Conte voleva collaborare sotto traccia con Mazzini principalmente per controllare le spinte eversive che si venivano preparando; inoltre riteneva che se uno dei tentativi mazziniani avesse avuto successo, avrebbe determinato la reazione austriaca e quindi avrebbe imposto un intervento piemontese contro l’Austria, che alla fine era il vero obiettivo del Conte. Se invece i tentativi mazziniani non fossero andati a buon fine (ed era l’ipotesi più probabile), Cavour si sarebbe servito proprio della eco che tali conati insurrezionali avrebbero avuto in Europa per convincere le diplomazie che la strada da battere era quella del sostegno diplomatico alla causa italiana diretta da Torino, onde evitare il dilagare dei fermenti rivoluzionari in Europa.
In questo senso va vista l’impresa di Pisacane, l’ultimo tentativo di Mazzini per ribaltare una situazione che gli era diventata gravosa sotto ogni punto di vista. Per Mazzini la spedizione di Sapri aveva più di un elemento di interesse: in primo luogo essa coinvolgeva un indirizzo fortemente sociale e il Genovese pensava che questo taglio politico avrebbe avuto successo nel Sud. Inoltre, una insurrezione nel meridione (ma con due “varianti” che non ebbero successo, a Genova e a Livorno) avrebbe spiazzato Cavour, spostando il centro di interesse insurrezionale dalla Lombardia a una zona, il Sud, appunto, nella quale il liberalismo piemontese non sarebbe potuto arrivare. Infine, con questa azione, Mazzini puntava a tagliare la strada a un probabile tentativo insurrezionale condotto dal cugino di Napoleone III, Lucien Murat, sempre per cercare di porre nuovi ostacoli alla strategia cavouriana.
L’ondata di critiche di cui Mazzini fu oggetto dopo l’impresa di Pisacane fu pesantissima. Molti mazziniani decisero di passare con Cavour: oltre al già citato Manin, vi erano La Farina e, soprattutto, Garibaldi, il quale non condivise per nulla l’ostinazione di Mazzini e il suo non volere cogliere quei segnali che da Torino giungevano in vista di una soluzione diplomatica della questione nazionale.
Mazzini non mostrò evidentemente di credere possibile una funzione positiva dell’alleanza tra Piemonte e Francia; soltanto dopo la pace di Villafranca, quella che interruppe la seconda guerra d’indipendenza, Mazzini si decise ad appoggiare Vittorio Emanuele II se avesse continuato la guerra contro l’Austria da solo. E si risolse di tornare in Italia per assistere all’impresa di Garibaldi, nella quale vi erano due suoi stretti collaboratori, Rosalino Pilo e Francesco Crispi. Fu proprio quest’ultimo ad avere l’idea dei Mille e della loro spedizione in Sicilia, in un’isola già provata per la repressione borbonica e quindi più disponibile ad accogliere un’ipotesi di liberazione dal governo di Napoli. Furono quindi Crispi e Pilo a dare un’impronta “mazziniana” alla spedizione di Garibaldi, soprattutto recuperando quel senso di volontarismo che era stato il modello educativo e propagandistico di Mazzini e del quale si giovarono certamente i Mille.
Ma soprattutto fu mazziniana l’idea di condurre il processo di unificazione nazionale in senso unitario e non federale. Contro le tesi di Gioberti, dello stesso Cavour (che fino a qualche anno prima era scettico in merito alla possibilità di una soluzione immediatamente unitaria) e dei moderati alla Balbo, Mazzini riuscì a fare passare l’idea che l’Italia dovesse essere costituita in Stato unitario, così come aveva da decenni sostenuto contro tutti.
Una rivoluzione “tradita”
Conclusasi la prima fase del processo unitario con la proclamazione del Regno d’Italia, nel marzo 1861, Mazzini si trovò nella scomoda condizione di essere uno dei “padri” del risorgimento e nello stesso tempo di prendere le distanze dalle modalità con le quali lo stesso risorgimento si era realizzato, iniziando una serrata critica al nuovo Stato unitario che poi avrebbe avuto diversi seguaci. Nella sua visione, fortemente condizionata dai propri insuccessi e dagli altrui successi, arrivò a preferire alla situazione che si era creata addirittura il ritorno alle potenze straniere, che, almeno, avrebbero costituito uno stimolo maggiore a mettere in atto nuovi tentativi insurrezionali. Invece lo Stato unitario diventava un elemento ingannevole per l’opinione pubblica perché appariva a tutti come un fatto evidentemente positivo.
In ogni caso, fino al 1870, e cioè a due anni dalla morte, Mazzini non rinunciò a creare le condizioni per ulteriori momenti insurrezionali, con il preciso scopo di conquistare Roma e Venezia. La seconda, però, più della prima, perché voleva evitare che la conquista di Roma si trasformasse nell’ennesimo successo dei Savoia, così come era avvenuto per il Meridione nel 1860. Inoltre, con un complicato ragionamento, pensava che provocare l’Austria con una insurrezione nel Veneto avrebbe costretto l’Impero di Vienna a scatenare un’altra guerra contro l’Italia; di qui, per Mazzini, sarebbe partita una iniziativa rivoluzionaria europea, volta a travolgere tutte le dinastie del continente, a cominciare dall’odiato Napoleone III.
Tuttavia, dopo l’esito della guerra del 1866, le sconfitte militari e la vittoria della Prussia che ci permise di ottenere il Veneto con la umiliante mediazione dell’imperatore francese, Mazzini capì che sul Nord Est non avrebbe potuto fare più nulla e orientò le sue iniziative, sempre più velleitarie, verso Roma. Naturalmente non uno di questi tentativi andò in porto. Nel 1867 voleva intervenire quando si profilò l’impresa garibaldina, per determinarla in senso repubblicano; l’anno successivo invece provò a organizzare una insurrezione che da Ancona e da Bologna, da Milano e da Genova puntasse direttamente verso il Meridione, in Sicilia e a Napoli, non più per l’unità ma per la repubblica; dal Sud l’insurrezione avrebbe portato a Roma dove sarebbe stata convocata l’Assemblea costituente. Nel 1869 era la volta di Lugano, poi nel maggio 1870 di nuovo Milano e Genova, quindi, tre mesi dopo, ancora un progetto sulla Sicilia, ma fu arrestato e si fece due mesi di fortezza a Gaeta. Infine il tentativo insurrezionale direttamente su Roma, da parte dei democratici presenti nella capitale: nei giorni della presa di Porta Pia non vi fu però alcuna insurrezione nella città, i cui abitanti non difesero il Papa ma neppure si affannarono per tentare la rivoluzione di Mazzini.
Questa serie di insuccessi, che neppure ebbero il fascino di quelli degli anni Trenta e Quaranta, determinarono un progressivo scollamento dei mazziniani, i quali in parte si indirizzarono verso l’accettazione dello Stato liberale e monarchico, in parte – quelli più rivoluzionari – si ritrovarono sulla sponda anarchica o marxista, soprattutto dopo le dure critiche che Marx aveva condotto contro l’insurrezionalismo e l’interclassismo di Mazzini.
Morì a Pisa nel 1872, sotto un falso nome inglese, George Brown, anche se, dopo l’amnistia avrebbe potuto presentarsi con il proprio nome. Era l’ultimo elemento di estraneità rispetto a un’Italia che non amava e dalla quale non era amato.
Tuttavia, come si è più volte ricordato, il suo nome sarà diffuso nelle culture politiche del Novecento; non soltanto perché il suo indirizzo metodologico sarà ripreso nei decenni successivi, ma soprattutto perché il suo messaggio era l’unico veramente ideologico dell’intero risorgimento. La visione del mondo, l’ansia pedagogica, la necessità dell’esempio costituirono la sostanza del suo messaggio ideologico, un messaggio che, soprattutto nell’ultimo periodo, prevaleva su una lucida lettura della realtà. Si trattava, poi, di un messaggio che, pur sottolineando la “sacralità” dell’uomo come individualità, poneva fortemente l’accento sulla componente sociale del vivere umano. Il suo complesso schema di diritti e di doveri poneva l’uomo ottocentesco di fronte a una forte novità: pur in un periodo significativamente segnato dalla cultura liberale – sia quella di derivazione francese, sia quella di derivazione inglese –, Mazzini aveva avuto l’idea che la socialità poteva essere l’unico forte collante in grado di costruire una nazione. Dal complesso del popolo che attraverso una visione religiosa della vita si educa diventando consapevolmente nazione, si dipana la visione filosofica di Mazzini, unico fra i pensatori del risorgimento a cogliere l’importanza della dinamicità delle masse.
In questo senso, il messaggio mazziniano riuscì ad avvicinare alle idealità del risorgimento ampi strati della popolazione, la media e piccola borghesia e l’artigianato, per i quali la lotta nazionale assumeva un più largo significato rivoluzionario, come conquista di un posto nella società fino ad allora negato.
Nella democrazia mazziniana c’era, forte, l’aspirazione a una nuova concezione dello Stato, che si voleva costituire attraverso un più diretto legame con la nazione; la volontà politica della nazione – intesa come la comunità dei cittadini – diventava, come nella Costituzione della Repubblica romana, la fonte della legittimità del nuovo Stato.
L’esigenza di uno Stato che disponesse di una larga base popolare, che fosse lo Stato di tutti gli italiani, rimase come una esigenza permanente nella storia politica italiana anche dopo l’Unità e, in questo senso, le aspirazioni mazziniane hanno costituito la base politica per molti movimenti che condividevano tale obiettivo. Anzi, in molti casi si sottolineava come fosse passato molto tempo, e prezioso, rispetto alla predicazione mazziniana e ciò nonostante una effettiva nazionalizzazione delle masse non vi fosse stata.
Alla data della sua morte, mancheranno ancora quarantadue anni allo scoppio della prima guerra mondiale. Ma l’idea che potesse esistere una guerra veramente rivoluzionaria, una guerra ideologica nella quale non si combattesse semplicemente per la conquista di un territorio ma per il prevalere della “civiltà” contro il male assoluto, l’idea che fosse possibile uno scontro fra i popoli uniti contro le dinastie – tutte tematiche che si ritrovano nell’immane tragedia del 1914 – erano già presenti in buona parte del pensiero mazziniano. E non a caso, sia il fascismo, sia l’antifascismo in buona misura si riapproprieranno di molte parole chiave del suo pensiero e di molta metodologia rivoluzionaria.
In questo senso, Mazzini è il protagonista più “novecentesco” del risorgimento, il più moderno e affascinante, per un verso, ma anche il più schematico e il meno realista tra i “padri” della nazione.
Bibliografia essenziale
Il lavoro più recente e più completo su Giuseppe Mazzini è quello di G. BELARDELLI, Mazzini, Il Mulino, Bologna 2010, che costituisce un indispensabile compendio del pensiero e dell’azione mazziniani; essendo inserito nella collana “L’identità italiana”, il suo taglio coglie bene il rapporto fra il suo pensiero e il problema nazionale, nel Risorgimento e oltre.
Altre opere meno recenti sul personaggio: R. SARTI, Giuseppe Mazzini. La politica come religione civile, Laterza, Roma-Bari 2000; classici i due volumi di F. DELLA PERUTA, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il “partito d’azione” 1830-1845, Feltrinelli, Milano 1974, G. MONSAGRATI, Giuseppe Mazzini, Adelphi, Milano 1972 e S. MASTELLONE, Mazzini e la “Giovine Italia”(1831-1834), Domus Mazziniana, Pisa 1960. Si vedano inoltre A. LEVI, La filosofia politica di Giuseppe Mazzini, Morano, Napoli 1967.
Su aspetti specifici, si vedano: A. SCIROCCO, I democratici italiani da Sapri a Porta Pia, Esi, Napoli 1969; D. COFRANCESCO, Mazzini teorico della “comunità dei cittadini”, in “Quaderni di scienza politica”, aprile 2006; G.C. LACAITA, Mazzini e Cattaneo, in “Nuova Antologia”, ottobre-dicembre 2006.
Per uno sguardo interpretativo generale sul periodo si vedano, tra gli altri, R. ROMEO, Cavour e il suo tempo (1854-1861), Laterza, Roma-Bari 1984 e G. CANDELORO, Italia moderna, voll. II-V, Feltrinelli, Milano 1962-1976.