L’intervento di Marco Zaganella ha esaminato gli archivi dei sindacalisti nazionali.
La Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice è l’unico ente ad aver avviato la raccolta, l’organizzazione e la valorizzazione delle carte inerenti la storia del sindacalismo nazionale e il suo contributo allo sviluppo della legislazione sul lavoro.
In questo ambito rientrano il fondo Sindacalisti fascisti – che comprende le carte di Diano Brocchi, Pietro Capoferri, Enrico Carloni, Ugo Clavenzani, Amilcare De Ambris, Mario Gradi, Francesco Grossi, Ugo Manunta, Domenico Pellegrini Giampietro – il fondo Giuseppe Landi e il fondo Riccardo Del Giudice. La documentazione citata copre un arco temporale dal 1919 al 1988. Si tratta dunque di un corposo patrimonio archivistico, cui si affianca il relativo patrimonio bibliografico, che consente di rileggere l’evoluzione della legislazione sul lavoro tra le due guerre, con particolare riguardo alla modernizzazione della contrattualistica e allo sviluppo della previdenza sociale, di esaminare l’eredità lasciata all’Italia del secondo dopoguerra e indagare il percorso dei protagonisti del sindacalismo nazionale nel passaggio dal fascismo alla Repubblica.
Sotto il profilo della modernizzazione della contrattualistica di lavoro occorre considerare che l’Italia in cui prende il potere il fascismo è un Paese che ha da poco registrato il suo decollo industriale, coincidente con il periodo che dall’età giolittiana si estende fino al termine della prima guerra mondiale. Ne consegue che all’inizio degli anni Venti la legislazione sul lavoro è agli albori. Prima del 1926 almeno il 40% dei lavoratori italiani era sprovvisto di contratto di lavoro. Ne beneficiavano le categorie dei grandi complessi industriali, come ad esempio i metalmeccanici, i siderurgici, i metallurgici, i tessili, i chimici, le categorie della carta a stampa e gli edili. Nel commercio possedevano un contratto i rappresentanti ed i commessi, oppure il personale alberghiero e delle mense. Nell’agricoltura, talvolta, i braccianti ed i mezzadri. I salari erano regolati da consuetudini locali o da riferimenti a categorie di lavoratori non omogenee.
Le carte di Maceo Carloni e Pietro Capoferri consentono di approfondire in particolare lo sviluppo della contrattualistica. Carloni aveva svolto la sua attività di sindacalista a Terni, presso le Acciaierie, occupandosi del contratto nazionale per i dipendenti delle imprese meccaniche e metallurgiche. Pietro Capoferri è stato invece una figura di primo piano del sindacalismo bergamasco, divenuto segretario della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria (Cfli), membro del Gran Consiglio e vicesegretario del Pnf tra il 1939 e il 1940.
L’attività dei sindacati fascisti fu ovviamente favorita dal Patto di Palazzo Vidoni del 1925, che li riconosceva come unici rappresentanti riconosciuto del mondo del lavoro. Essi si impegnarono per l’estensione a tutti i lavoratori dei contratti collettivi di lavoro, come previsto dalla Carta del Lavoro.
Un esempio della modernizzazione della contrattualistica di lavoro riguarda le norme che regolavano il salario degli impiegati privati. Ancora nel 1924 la legislazione non stabiliva una misura minima per gli stipendi. Inoltre richiamava per le “indennità di licenziamento” ed il tempo di preavviso il rispetto delle consuetudini locali. Nel 1931 a Milano, nel corso di una assemblea di impiegati svolta nel salone dell’Umanitaria in via Manfredo Fanti (dove avevano sede i sindacatifascisti), alla presenza del sottosegretario alle Corporazioni Dino Alfieri, furono denunciate le condizioni di inferiorità in cui si trovavano gli impiegati in mancanza di un contratto di lavoro che determinasse i minimi di stipendio, la misura delle indennità di licenziamento e la previdenza. Nel 1937 si giunse finalmente all’approvazione del Contratto collettivo nazionale di lavoro per gli impiegati dell’industria il quale stabiliva, con apposite tabelle, i minimi di stipendi, gli indennizzi ed i preavvisi. Il contratto regolava anche il diritto all’indennità di anzianità.
Nell’ambito della modernizzazione della contrattualistica di lavoro rientra il tentativo di regolamentazione del cottimo Bedeaux. Fu un tema al quale si dedicò in particolare Tullio Cianetti.
Il cottimo Bedeaux prevedeva il cronometraggio della quantità di lavoro che un operaio poteva compiere nell’arco di un minuto (il cosiddetto “60 di passo”). Nel momento in cui il “passo” era raggiunto da tutti i lavoratori, veniva sistematicamente aumentato. Chi non era in grado di rispettarlo, era però licenziato. Il cottimo Bedeuax si estese soprattutto in conseguenza della crisi del 1929. Fu allora, ad esempio, che la Fiat lo introdusse all’interno dello stabilimento del Lingotto.
Nel 1931 Tullio Cianetti fu nominato segretario della federazione nazionale dei sindacati delle industrie estrattive e cominciò a collaborare per la testata di Luigi Fontanelli “Il lavoro fascista”, dalle cui colonne criticò aspramente il “sistema Bedaux”. Lo stesso Cianetti fu uno dei promotori dell’accordo interconfederale del 20 dicembre 1937 relativo al Contratto collettivo nazionale per la disciplina del lavoro a cottimo nelle aziende industriali, artigiane e cooperative.
Tale accordo aveva l’obiettivo di regolamentare l’applicazione del sistema di cottimo, individuando delle tariffe minime, consentendo al lavoratore di avere certezza circa la sua retribuzione, lo standard di lavoro richiesto e regolamentando anche il passaggio a standard produttivi maggiori. Inoltre, intendeva difendere gli operai da una riduzione eccessiva di guadagno, sottraendo l’applicazione del cottimo all’arbitrio dell’imprenditore. Ad esempio, l’art. 2 stabiliva che «ogni tariffa di cottimo deve garantire al lavoratore il conseguimento di un guadagno non inferiore alla paga ad economia, maggiorata del percentuale di cottimo, stabilita dai singoli contratti collettivi di lavoro». L’art. 4 specificava che agli operai interessati dovranno essere comunicate per iscritto, all’inizio del lavoro, le indicazioni del lavoro da eseguire e del compenso unitario (tariffa di cottimo) corrispondente. Dovrà poi essere comunicato agli operai, per ogni singolo cottimo, la quantità del lavoro eseguito e il tempo impiegato. Tali comunicazioni dovranno rimanere in possesso degli operai perché essi possano sempre computare con facilità ed esattezza la propria retribuzione.
Le tariffe così stabilite, una volta superato il periodo di assestamento, non potranno essere variate.
Solo quando siano attuate modifiche nelle condizioni di esecuzione del lavoro, si potrà procedere alla variazione delle tariffe di cottimo, in proporzione delle variazioni di tempo che le modifiche stesse avranno determinato. La variazione delle tariffe in tal caso dovrà intervenire entro un periodo di assestamento uguale a quello stabilito nel seguente articolo.
L’art. 5 difendeva poi gli operai contro riduzioni eccessive di guadagno, stabilendo che qualora gli operai interessati nell’ambito di una tariffa di cottimo subiscano, nel complesso dei guadagno medio orario di due quindicine, una diminuzione in confronto del guadagno medio orario realizzato nel quadrimestre precedente, l’Organizzazione dei lavoratori ha facoltà di intervenire presso l’Organizzazione dei datori di lavoro per accertarne le cause.
Se risulterà – in base agli accertamenti che saranno compiuti dalle due Organizzazioni – che la discesa del guadagno sia stata determinata, in tutto o in parte, da cause non imputabili agli operai, le Organizzazioni determineranno la quota di guadagno che dovrà venire reintegrata e la ditta dovrà attuare gli opportuni provvedimenti per eliminare successivamente la discesa verificatasi.
Nelle carte dei sindacalisti emerge comunque lo scontento per il mancato rispetto dell’accordo da parte datoriale, dal momento che il 90% degli operai continuò ad essere impiegato con contratti a cottimo.
Confrontandosi con gli effetti della crisi del 1929, i sindacati fascisti oltre a condurre la battaglia contro il cottimo, si interrogarono sull’opportunità di favorire una riduzione dell’orario di lavoro settimanale per salvaguardare i posti di lavoro. Nella documentazione archivistica e bibliografica di Pietro Capoferri si rintraccia un interessante convergenza su questo tema con i sindacalisti francesi nell’ambito del Bureau International du Travail.
Mentre in Italia il Consiglio Nazionale delle Corporazioni discuteva e approvava, il 15 giugno 1931, la riduzione della settimana lavorativa a 40 ore, Giuseppe De Michelis, rappresentante del governo italiano presso il BIT, chiedeva, su invito dell’Organizzazione Operaria Italiana, l’estensione del medesimo provvedimento a livello internazionale. Presso il BIT fu così creata una Commissione per le 40 ore in cui fu designato come rappresentante italiano Pietro Capoferri, che all’epoca dirigeva i sindacati dell’industria nella provincia di Milano. Si giunse alla discussione di un apposita convenzione, che fu osteggiata da parte inglese. La proposta italiana incontrò invece il supporto dalla delegazione francese, tra i cui rappresentanti spiccava Léon Jouhaux.
Un accordo fu raggiunto nel 1935 con la stipula della convenzione n. 47 del BIT concernente la riduzione della durata del lavoro a 40 ore settimanali. Nel frattempo anche a livello italiano si procedette in tale direzione. L’11 ottobre 1934 fu firmato un accordo tra la Confindustria guidata da Giorgio Pirelli e la CFLI diretta da Tullio Cianetti, in base al quale si prevedeva la riduzione della settimana lavorativa a 40 ore, l’eliminazione dello straordinario per contrastare la disoccupazione e l’istituzione della Cassa per gli assegni familiari. Quest’ultima disposizione prevedeva un assegno fisso integrativo dei salari da corrispondere ai lavoratori capi-famiglia per compensare la riduzione dell’orario di lavoro.
Vi è da dire che i sindacalisti fascisti, mentre chiedevano la riduzione dell’orario di lavoro, sottolineavano anche il pericolo di una distorta interpretazione del provvedimento da parte degli imprenditori. Sia Tullio Cianetti che Ugo Clavenzani, il quale aveva preceduto lo stesso Cianetti alla guida della CFLI, si erano battuti per una riduzione delle ore a parità di salario, intuendo che da parte datoriale si sarebbe colta l’occasione per una riduzione dei costi del lavoro. Proprio Tullio Cianetti, in una relazione al Ministro delle Corporazioni Ferruccio Lantini del 9 aprile 1937, notava come nella realtà il provvedimento stentasse a favorire il riassorbimento della disoccupazione, mentre si stava traducendo in una misura che decurtava il salario medio degli operai di circa il 17%, mentre gli imprenditori, grazie ai nuovi metodi di intensificazione del lavoro, riuscivano lo stesso ad aumentare la produttività.
L’Archivio Landi consente di approfondire sia lo sviluppo della previdenza sociale tra le due guerre, sia l’eredità e la riorganizzazione del sindacalismo nazionale nell’Italia repubblicana.
Invalido della prima guerra mondiale, Landi iniziò la sua carriera professionale come impiegato della Cassa nazionale infortuni. Assunse poi la direzione dei sindacati fascisti del commercio e dell’associazione fascista del pubblico impiego. Fu in seguito segretario della CFLI e dalla fine degli anni Trenta intraprese la carriera accademica come libero docente di legislazione del lavoro presso l’Università di Genova. Nel 1950 fu tra i fondatori della Confederazione Italiana Sindacati Nazionali dei Lavoratori (Cisnal), di cui divenne il primo segretario.
Come ricordava lo stesso Landi, all’inizio degli anni Venti uno dei campi totalmente aperti all’azione dei sindacati fascisti era l’assistenza in caso di malattia dei lavoratori. All’epoca l’Italia era sprovvista di leggi sulle assicurazioni obbligatorie contro le malattie, tranne che per i lavoratori delle province redente, dove si era mantenuta la legislazione austriaca, o per alcune categorie come i ferrotranvieri e i marittimi. Il contratto di impiego privato stabilito dal rdl del 13 novembre 1924 n. 1825 copriva contro la malattia e gli infortuni gli impiegati privati. I sindacati fascistidenunciarono tuttavia l’inadeguatezza della legislazione. Nel 1925 costituirono il Patronato Nazionale per l’Assistenza Sociale (PNAS) per offrire assistenza medico-legale ai lavoratori. Successivamente si impegnarono per garantire l’efficacia delle norme XXVI e XXVII della Carta del Lavoro, che prevedevano lo sviluppo della previdenza sociale sulla base dell’uguale ripartizione degli oneri tra datori di lavoro e lavoratori. Fu questo uno dei principali aspetti dei contratti collettivi di lavoro, che prevedevano l’istituzione delle Casse Mutue Malattia, alimentate proprio con il contributo paritetico di datori di lavoro e lavoratori, secondo i principi del corporativismo.
Obiettivo della mutua era garantire ad ogni lavoratore un indennizzo per la malattia e l’assistenza medica. Attraverso il sistema della Mutua il sindacato accrebbe notevolmente il suo peso nel corso degli anni Trenta. Basti pensare che nel 1939 la Mutualità contava 200 organismi con 1.477.533 iscritti. Nel 1939, la nomina di Tullio Cianetti a sottosegretario di Stato al ministero delle Corporazioni rifletteva il peso politico raggiunto dal sindacalismo.
Le carte di Giuseppe Landi, e in misura minore quelle di Diano Brocchi, ci consentono di leggere il percorso seguito dai sindacalisti nazionali dopo la caduta del regime. Si trattava di un patrimonio di competenze notevole, che aveva potuto formarsi sia sul campo delle battaglie sindacali, sia grazie alle scuole di formazione per i quadri sindacali che erano state create a partire dalla fine degli anni Venti.
Nel secondo dopoguerra il loro recupero fu dunque fondamentale. Molti confluirono nella Cgil di Giuseppe Di Vittorio. Altri seguirono invece il percorso di Giuseppe Landi e Diano Brocchi, dando vita alla Cisnal, attraverso la quale garantirono la trasmissione dei principi del sindacalismo nazionale all’Italia repubblicana.
In “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX, pp. 193-198, atti del convegno sui fondi archivistici della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice