La Sala del Pappagallo
(Archivio Fotografico Polo Museale
Roma – Fondo Hermanin)
di Gianni Scipione Rossi
//In Rosso e Nero Renzo De Felice definì “romanzo di Benito” l’insieme delle ricostruzioni – vere, verosimili, palesemente false – che per decenni hanno alimentato una corposa letteratura intorno alla morte di Mussolini. Di questo “romanzo” – o se si vuole di un altro “romanzo di Benito” – può essere considerata parte l’altrettanto ampia letteratura relativa al crollo del regime fascista, cioè alla preparazione e allo svolgimento della seduta del Gran Consiglio che ebbe luogo nella sala del Pappagallo di Palazzo Venezia tra il pomeriggio del 24 e la notte del 25 luglio 1943, con l’appendice dell’incontro di Mussolini con Re Vittorio Emanuele III, la nomina di Badoglio a Capo del Governo e l’arresto dello stesso Mussolini.
Di “romanzo” si può in qualche modo parlare perché gli storici si sono dovuti confrontare con due ostacoli insormontabili. Come è noto della seduta del Gran Consiglio non fu redatto verbale, che comunque era sempre stato molto stringato. D’altro canto il colloquio tra Mussolini e il Re a Villa Savoia avvenne senza testimoni, salvo l’aiutante di Campo di Vittorio Emanuele generale Puntoni, che tuttavia si limitò ad ascoltare con difficoltà da dietro una porta. Origliando, si potrebbe dire. <Il colloquio è breve, ma non sarà mai possibile ricostruirlo nei suoi termini esatti>, ammetteva Domenico Bartoli nella sua biografia del Re fin dall’aprile 1946. E così è stato.
Tutto ciò che è stato scritto su quelle 24 ore cruciali per la storia d’Italia si basa non su resoconti oggettivi, bensì sulle memorie divulgate a posteriori, in tempi diversi, dai protagonisti – Mussolini compreso –, da comprimari o da persone in qualche modo a loro legate, spesso sulla base di vere o presunte testimonianze prive di riscontri documentali. Per quanto concerne il Gran Consiglio, come ha confermato Emilio Gentile in una preziosa ma fatalmente non conclusiva indagine comparativa, <cosa veramente accadde in quelle dieci ore, prima della votazione finale, è tutt’ora avvolto nell’incertezza di testimonianze contraddittorie>.
Rimane dunque insuperata la ricostruzione di Renzo De Felice dei fatti accertati e del quadro politico d’insieme in cui maturò il crollo del regime fascista. Approssimativi restano i dettagli. Il che può apparire un paradosso storiografico se si ha presente come gli accadimenti del 25 luglio abbiano suscitato un comprensibile immediato e generale interesse negli italiani, e di conseguenza abbiano prodotto un fiorire incontenibile di pubblicistica. <I primi resoconti abbastanza ampi sulla seduta del Gran Consiglio – sottolinea De Felice – apparvero nella “Nueu Zürcher Zeitung” del 16 agosto 1943, successivamente pubblicato in Italiano col titolo 25 luglio 1943. L’ultima seduta del Gran Consiglio del Fascismo (s.l. e d.), e nella “Gazzetta Ticinese” del 9 settembre 1943>. Testi semplicemente rimaneggiati apparvero in contributi posteriori. Per quanto concerne la produzione italiana, De Felice segnalava <una pubblicistica coeva in genere poco o per nulla attendibile>. Ma tuttavia assai numerosa e capace di circolare ampiamente tra un pubblico affamato di notizie e retroscena. <Così come quella straniera, alla quale talvolta si rifà, questa pubblicistica – avverte De Felice – è quasi sempre caratterizzata da un tono generale e da particolari drammatico-granguignoleschi del tutto fantastici: Mussolini che avviandosi alla riunione dice a Scorza “andiamo nella trappola” e che a un certo punto della seduta sussurra al segretario del partito “forse dovrò darvi l’ordine di arrestare questi messeri; e, ancora, Mussolini che cerca di scagliarsi contro Grandi ma è trattenuto da Scorza e Galbiati; Bottai che lo chiama “pagliaccio” e fa pesanti allusioni alle “sorelle Petacci” e a Magda Fontanges; Mussolini e De Bono (che a un certo punto estrae la pistola) che si scambiano reciprocamente accuse di tradimento; Marinelli che rinfaccia a Mussolini l’uccisione di Matteotti; Grandi che si è portato due bombe a mano e ne passa una a De Vecchi (che proclama di aver preveduto nel 1934 la rovina alla quale Mussolini avrebbe portato l’Italia); Pareschi che agli attacchi contro Mussolini sviene; Farinacci che a un certo punto della seduta fugge; Grandi e Federzoni che appena finita la riunione si recano dal re; ecc.>.
D’altronde le fonti erano – come si è detto – poche e scarsamente affidabili. Si pensi che nel notissimo discorso che il maresciallo Badoglio tenne agli ufficiali a San Giorgio Jonico il 18 ottobre 1943, lo stesso neo presidente del Consiglio sostiene che <La mattina del 25 luglio Mussolini si presentò a Villa Savoia a S. M. il Re e comunicò la mozione del Gran Consiglio>. Nella mattina, dunque, e non nel pomeriggio come fu nella realtà. Nella prima ricostruzione svizzera si afferma che il ministro della Real Casa Acquarone chiamò tre volte Mussolini, dalla mattina del 25, per chiedergli di andare a conferire con il Re. Un particolare che non ha mai avuto riscontri.
Solo nel giugno-luglio 1944 Mussolini pubblica la sua “verità” – la Storia di un anno – sul “Corriere della Sera”: una serie di articoli poi raccolti in un supplemento al quotidiano in agosto e, a novembre, nella prima edizione Mondadori. Mentre il primo memoriale Grandi – sei articoli scritti a Lisbona – apparve in Italia in una edizione Documenti nel gennaio 1945.
Tra i fascicoli coevi citati da Renzo De Felice, il più elaborato –ma non per questo attendibile – è forse quello intitolato Dal 25 luglio al 10 settembre. Nuove testimonianze, privo di autore e di editore, ma che risulta stampato in Roma il 31 agosto 1944 nella tipografia S.A.I.G. Una prima edizione risulta curiosamente e forse solo formalmente stampata il 1° gennaio 1944. Entrambe hanno una copertina e un frontespizio interno. Nella prima edizione la copertina reca il titolo dal 25 luglio al 10 settembre. Nella seconda il titolo è semplicemente dal 25 luglio. In entrambi i casi il sottotitolo esterno recita: un organico complesso di documenti editi ed inediti sulla seduta del Gran Consiglio, l’arresto e il “prelievo” di Mussolini, e l’abbandono di Roma.
Misterioso resta l’autore. Una breve prefazione (non aggiornata tra gennaio e agosto) è firmata con le iniziali G. M. L’ignoto prefatore avverte correttamente e lucidamente che <gli avvenimenti italiani che vanno dal 25 luglio all’8 settembre 1943 sono tanto vicini a noi, e non ancora per così dire “scontati”, che difficile riuscirebbe volerli inquadrare nella storia. È per questo che le pagine che seguono altro fine non hanno se non quello di una cronaca pura e semplice, una cronistoria degli avvenimenti secondo le fonti sin’ora apparse, fonti per lo più incrinate da preconcetti di parte o sfasate da interessi di singoli>. Le identità di autore e prefatore restano per ora ignote. Potrebbero essere la stessa persona, ma non vi è alcun indizio in questo senso. G. M. potrebbero essere le iniziali di tale Giulio Mariotti, che ha firmato un fascicolo Verità sugli avvenimenti del 25 luglio e 8 settembre 1943, stampato nel 1946 nella tipografia Pozzolini di Livorno. Ma si tratta di una semplice congettura.
D’altronde, in quei mesi, e per qualche anno, prodotti editoriali di questo tipo – sempre presentati come una più vera verità – spesso sono non firmati o firmati con pseudonimi. Gli autori sono altrettanto spesso giornalisti che, nel trapasso di regime, hanno difficoltà a conservare il posto di lavoro o a trovarne uno nuovo. E si dedicano a questi lavori per integrare o garantirsi un reddito. Utilizzando lo stile dell’indagine scandalistica che caratterizzerà per anni, su questi temi, i diffusissimi rotocalchi.
Talvolta – e riguarda non solo la pubblicistica minore – vi sono anche ragioni di opportunità politico-editoriale. Si pensi al caso del volume agiografico Io difendo la monarchia, pubblicato nel marzo 1946 a firma di Pietro Silva (Parma, 1887 – Bologna, 1954), in vista del referendum istituzionale, ma in realtà commissionato da Alberto Bergamini e Mario Missiroli e scritto – come ha scoperto e spiegato Francesco Perfetti – non dallo storico Silva, bensì dal giornalista Ugo D’Andrea (L’Aquila, 1893 –Roma, 1979), che già nel 1945 aveva utilizzato uno pseudonimo – Filippo Giolli – per firmare Come fummo ridotti alla catastrofe.
Una curiosità ulteriore riguarda l’editore del volume“monarchico”, stampato nella tipografia Novissima per “df de Fonseca Editore in Roma”, cioè da Giorgio de Fonseca. Figlio dell’intellettuale anglo-italiano Edoardo de Fonseca, profeta del modernismo d’inizio secolo con le riviste “Novissima” e “La Casa”, era sposato con la marchesa Angela d’Albertas, cugina dei Calvi di Bergolo. Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, marito di Iolanda di Savoia, era il genero di Vittorio Emanuele III. Un editore di estrema fiducia, dunque. E questo non sorprende. Ma Giorgio de Fonseca, fino al crollo del regime, con la sua Novissima, pubblicava i discorsi di Mussolini. Poi, nel febbraio 1945 dà vita alle Nuove Edizioni Italiane con Enrico Falqui, che dirige i trimestrali letterari “Poesia” e “Prosa”. Nel maggio 1945 pubblica il fascicolo anonimo L’ultima ora di Mussolini, sulla cui fine si scrive che è stata <orrenda ma… meritata>. Nello stesso periodo la sorella di Giorgio, Alice de Fonseca, è ancora rifugiata a Lezzeno, sul lago di Como, dopo aver raggiungo Mussolini nella Repubblica Sociale. Alice de Fonseca era stata fin dal 1923 amante del duce – forse padre di due dei suoi tre figli – e non aveva mai interrotto il rapporto. Grazie al quale, dopo vari rovesci di fortuna, riusciva anche a garantire al fratello la committenza pubblica per Novissima.
Vite e storie che si intrecciano. E che spiegano e giustificano gli pseudonimi. Come un Lorenzo Barbaro, citato dall’ignoto autore di dal 25 luglio al 10 settembre come fonte autorevole, poiché <cela la personalità di un giornalista molto noto>. Il riferimento è all’articolo “La giornata degli inganni”, apparso sul quotidiano“Risorgimento Liberale” il 25 luglio 1944. Che tuttavia contiene almeno un errore, perché indica in 45 minuti la durata del colloquio tra Mussolini e il Re a villa Savoia, piuttosto che in soli 20 minuti, come sembra accertato da successive convergenti testimonianze.
Siamo ancora nel campo delle congetture. Ma non è improprio immaginare che la citazione del <giornalista molto noto> sia una civetteria destinata a chi – e non era difficile per i contemporanei – ben conosceva l’identità celata: una sorta di compiaciuta autocitazione. Lorenzo Barbaro non era che lo pseudonimo del giovane Domenico Bartoli (Torino, 1912 – Roma, 1989), da tempo collaboratore del “Corriere della Sera” e tra i fondatori di “Risorgimento Liberale”. Il futuro direttore del “Resto del Carlino” e de “La Nazione” scriveva corrispondenze per il “Corriere” dall’Italia occupata. Ma fu tra i primi a tentare di chiarire i misteri del 25 luglio, come ebbe a ricordare Enzo Forcella: <Un giorno sulla prima pagina del Corriere della Sera appare una particolareggiata ricostruzione di come erano andate effettivamente le cose nella famosa riunione del Gran Consiglio. […] Quali che fossero le sue fonti, comunque, per noi giovani nutriti sino ad allora con le veline del regime fu una grande lezione di giornalismo>. Il pezzo era uscito il 18 settembre 1943 con il titolo “Il 25 luglio a Villa Savoia”. Con lo pseudonimo Lorenzo Barbaro, svelato da Gerardo Nicolosi, Bartoli firmò nel luglio dell’anno successivo su “Risorgimento Liberale” l’articolo citato nel fascicolo anonimo. Tra il primo e il 19 agosto dedicò sullo stesso quotidiano quattro puntate al tema “Come si giunse al 25 luglio”. Materiali ancora grezzi, poi affinati nella sua biografia di Vittorio Emanuele uscita per Mondadori nell’aprile del 1946.
La diffusione degli anonimi e degli pseudonimi – e anche delle rifusioni da una sede all’altra di presunte scoperte giornalistiche – non consente, almeno per ora, di attribuire la paternità del fascicolo prefato da M.C. a Domenico Bartoli. Sarebbe, peraltro, solo una curiosità storiografica, anche se ulteriormente rivelatrice di come fosse in ebollizione e in perpetuo movimento l’ambiente giornalistico italiano nel lungo passaggio dal regime fascista alla Repubblica. Un mondo, come si è detto, che tentava con gli strumenti a disposizione di costruire una narrazione capace di rispondere alle domande che si poneva la gente comune.
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Testo completo di riferimenti bibliografici e documento allegato in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX, pp. 201-218.