Presentato in Fondazione il libro di Guido Pescosolido su Rosario Romeo

Martedì 8 marzo è stato presentato, in presenza e in modalità streaming sulla pagina Facebook e sul canale YouTube della Fondazione, il volume Rosario Romeo. Uno storico liberaldemocratico nell’Italia Repubblicana di Guido Pescosolido (Laterza, Roma-Bari 2021). Con l’autore ne ha discusso Giuseppe Parlato, professore ordinario di Storia contemporanea nella UNINT di Roma e presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.

Il libro

A oltre trent’anni dalla scomparsa di Rosario Romeo, questo libro intende riportare l’attenzione sull’attività storiografica e sull’impegno politico di uno dei maggiori esponenti della liberaldemocrazia italiana del secondo dopoguerra. Sul versante storiografico si intende verificare la tenuta scientifica delle sue opere più note e rilevanti ma anche porre in luce l’importanza che hanno assunto, nella recente critica storica, i suoi lavori medievistici e modernistici. Sul versante politico si richiama l’attenzione sul carattere progressista del suo liberalismo democratico ed europeista e sul concreto impegno come giornalista e parlamentare europeo in difesa della democrazia occidentale, del Mezzogiorno e nel contrasto al decadimento post-sessantottesco della vita universitaria italiana. Il libro si basa su un’attenta lettura della bibliografia esistente, nonché su numerosi documenti inediti in parte conservati dalla famiglia Romeo, in parte reperiti presso l’Archivio Centrale dello Stato, gli Archivi Storici delle Università di Catania e Roma La Sapienza e dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano.

L’autore

Guido Pescosolido ha insegnato Storia moderna nelle Università di Messina, della Tuscia, di Napoli Federico II, Roma Tre, Luiss e Sapienza di Roma. Tra le sue pubblicazioni sulla storia economica, sociale e politica dell’Italia dal secolo XVII ai nostri giorni, ricordiamo Terra e nobiltà. I Borghese. Secoli XVIII e XIX (Jouvence 1979), Agricoltura e industria nell’Italia unita (Laterza 1996), Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in Italia (Rubbettino 2017) e La questione meridionale in breve. Centocinquant’anni di storia (Donzelli 2017).

Disponibile su YouTube la registrazione integrale dell’incontro.

Presentato in Fondazione “Un paese in movimento”, il volume di Simona Colarizi sull’Italia negli anni Sessanta e Settanta

Mercoledì 26 febbraio 2020, nella Sala della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice (Piazza delle Muse, 25), è stato presentato il volume Un paese in movimento. L’Italia negli anni Sessanta e Settanta di Simona Colarizi (Laterza, Roma-Bari 2019).

Un periodo di modernizzazione

Simona Colarizi ha affrontato il tema della modernizzazione del Paese studiando i due decenni cruciali degli anni Sessanta e Settanta. Anni contraddittori – il terrorismo d’ogni matrice insanguinò le strade del paese – ma densi di speranze e desideri che, tradotti in normative, comportamenti, ideali, portarono effettivamente l’Italia a un grado di modernizzazione pressoché sconosciuto fino ad allora. Divorzio, maggiore età a 18 anni, con il correlativo diritto di voto, statuto dei lavoratori, nazionalizzazione dell’energia elettrica, servizio sanitario nazionale, per citare alla rinfusa, furono provvedimenti di grande importanza che un po’ anticiparono, un po’ presero atto della maturazione democratica di larghi settori della società civile. L’Italia divenne protagonista anche sul piano internazionale, con l’adesione ai primi passi di comunità tra Stati europei.

Le conquiste sociali, dei diritti, l’apertura al mondo stavano conferendo al nostro paese caratteri di modernità pur nelle ombre dovute a un sistema partitico talvolta incapace di afferrare le spinte in avanti che dalla società sorgevano e si diffondevano.

Proprio per questo Simona Colarizi, ospite della Fondazione per la presentazione del suo libro, ha voluto dedicare a quegli anni il suo ultimo studio, accorgendosi della sottovalutazione storiografica del periodo 1960-1979, quando “i lasciti di un’Italia contadina sono spezzati” e si fa avanti una modalità antiautoritaria di affrontare le sfide imposte dalle nuove circostanze.

Le tante novità, la crescita oggettiva – economica, culturale – furono poi in parte vanificate nel decennio successivo, quando i grandi partiti, la Dc e il Pci, dopo aver teorizzato nel 1976 la “società debole”, che necessita dei partiti perché non in grado di creare soggetti politici autonomi, divennero invadenti e tutta una serie di aperture furono depotenziate, passando quindi a una società iperindividualista, lontana dalle suggestioni comunitarie che la stagione precedente aveva fatto immaginare come possibile scenario per il nostro paese.

Fiume, la “città di passione” e la sua storia complessa

Raoul Pupo, Fiume città di passioneLaterza, Bari-Roma 2018

// È dedicata a Fiume l’ultima fatica di Raoul Pupo. Il volume ricostruisce nel centenario dell’omonima impresa la storia di una città-simbolo del Novecento, che nel primo dopoguerra Gabriele D’Annunzio definì “Città di passione”, emblema cioè della “vittoria mutilata” da imporre all’attenzione internazionale affinché, dopo la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, Fiume diventasse a tutti gli effetti italiana, in risposta alle decisioni prese con il Patto di Londra e poi con idiktat di Versailles.

Pupo, che in passato ha descritto il dramma delle foibe, dell’esodo degli italiani del limes nord-orientale e di Trieste, questa volta volge il suo sguardo alla città di confine vittima della sua posizione geografica, come tante altre nel corso dei secoli, da Salonicco, a Smirne fino a Königsberg, dopo gli stravolgimenti provocati dalla disgregazione degli Imperi Centrali.

Lo studioso tratteggia con acume e capacità comunicativa l’iter storico della città che, dalla fine del Settecento (23 aprile 1779) con la politica di Maria Teresa, attribuisce a Fiume il ruolo di corpo separato annesso alla sacra corona del regno d’Ungheria, passando poi per la Grande Guerra, allo squadrismo e alla violenza del fascismo di confine, al secondo conflitto mondiale fino all’avvento della repressione operata dal comunismo titino e agli anni della Guerra Fredda.

         L’autore analizza la vita della città di confine nell’Ottocento, dopo i moti del Quarantotto i fiumani raggiungono l’idillio con il mondo magiaro, mettendo a disposizione del nuovo governo alcune delle loro navi da guerra, affinché si possano gettare le basi per la creazione di una marina ungherese, che avrebbe dovuto difenderli dalle presunte minacce dei croati, soltanto immaginate all’epoca, ma che diverranno realtà alla fine del secolo. I timori in quel momento, ovvero al termine dei moti del 1848, scompaiono quando il nuovo governatore di origine croata si mostra molto disponibile e rispettoso dell’autonomia cittadina.

Nel corso del XIX secolo i rapporti fra le due comunità fiumana e magiara si mantengono sostanzialmente buoni, i primi segni della crisi e dei primi sintomi di insofferenza frutto del nazionalismo strisciante in tutta Europa e di conseguenza anche nella regione emergono solo attorno al 1895, con le posizioni assunte dal governatore magiaro che si mostra intenzionato ad agire senza ascoltare i voleri della comunità cittadina, dotata di una forte autonomia. Lentamente si acuiscono le differenze tra due visioni nazionalistiche contrapposte. I fiumani ritengono che il conflitto non è etnico, perché popolazione e classe dirigente sono di origine composita: italica, mediterranea, slava, ungherese. È un conflitto politico, perché i fiumani difendono la loro volontà di autogoverno; ed è un conflitto identitario, perché i fiumani parlano fin dal medioevo una lingua italica, la veneta, e si riconoscono nella cultura italiana e nell’idea di nazione su base volontaristica, più simile al modello francese che a quello tedesco. La loro è una nazionalità culturale, che può convivere a lungo con un vivace patriottismo istituzionale ungherese. Viceversa, i croati e i movimenti nazionali slavi perseguono una visione etnicista e naturalistica della nazione, poiché rifiuta qualsiasi forma di assimilazione ritenendo impossibile rifiutare il destino nazionale. È evidente che per gli slavi del sud, la pretesa dei fiumani di essere italiani sembra un atto contro natura.

I fiumani quindi sono ben lieti della protezione ungherese, ma agli inizi del XX secolo il governo di Budapest cerca di avviare una politica di “magiarizzazione”, che riguarda la scuola e l’estensione delle leggi ungheresi senza il preventivo consenso del Comune. Per reazione, nasce a Fiume un partito autonomista, che si batte per la difesa dei privilegi tradizionali e dell’identità italiana, senza però mettere in discussione l’appartenenza all’Ungheria. Tale prospettiva realistica e legalitaria non basterà però ad un piccolo gruppo di giovani, che negli anni successivi darà vita ad un movimento irredentista, avente cioè come obiettivo l’annessione al regno d’Italia.

Dagli inizi del Novecento e fino alla Grande Guerra, il confronto fra etnie nella città di confine si acuisce e radicalizza. A Fiume lo scontro fra autonomisti e irredentisti aumenta, nonostante i rapporti idilliaci del passato. Degenera lo scontro con i croati, anche se il confronto serrato non sfocia in atti di violenza, mentre cresce la violenza operaia con manifestazioni e scioperi nel 1906 a sostegno delle rivendicazioni dei marinai della Società ungaro-croata che paralizzano la città tanto da provocare la morte di un operaio fiumano Pietro Kobek, durante le manifestazioni di protesta di 20.000 lavoratori, giunto lì soltanto per curiosare. Il decesso di Kobek originario della Stiria è provocato dai gendarmi croati del borgo satellite di Sušak, i sindacati trasformano la morte casuale dell’operaio in un simbolo e in un martire del socialismo fiumano. Sempre a Sušak, divenuta ormai un borgo tanto forse da rappresentare la seconda città croata dopo Zagabria, a far corso dagli inizi del Novecento si inizia a creare un movimento politico-comunicativo che mira a ottenere dei forti risultati elettorali per il popolo croato. A guidarlo è un giovane croato Franjo Supilo, brillante giornalista di Ragusa/Dubrovnik, che vuole trasformare Fiume nel centro di una coalizione fra gli slavi del sud viventi nell’Impero austro-ungarico, ai danni della monarchia asburgica. I risultati non si fanno attendere, quando con la dichiarazione di Fiume (Riječka rezolucija) del 1905, stilata da Ante Trumbić alcuni esponenti del mondo politico croato e serbo s’impegnano per agire in vista della difesa dei comuni interessi nazionali. La risoluzione sostiene apertamente i fautori del distacco dell’Ungheria dall’Austria, chiedendo in cambio l’unificazione tra Croazia-Slavonia e Dalmazia. Dopo Fiume è la volta di Zara (Zadarska rezolucija) che sostiene l’equiparazione fra la nazione serba e la nazione croata in seno a una Croazia unita e indipendente all’interno di un’Ungheria totalmente sovrana. Infine, nel dicembre del 1905, Supilo e il leader serbo SvetozarPribičević danno vita alla Coalizione serbo-croata (Hrvatsko-srpska koalicija). Nonostante i contrasti personali e politici e la crisi il processo rappresenterà una tappa storica per la nascita dello jugoslavismo.

Nel 1906, avvengono i primi scontri fra croati e italiani proprio a Sušak, appena oltre la Fiumara.Quando i croati, di ritorno da Zagabria, dopo una delle grandi manifestazioni del movimento dei Sokol (falco), che da Praga si era diffuso in tutte le regioni dell’Impero, organizzando le comunità slave in vista di una mobilitazione nazionale, infiammati dal loro patriottismo decidono di scendere dal treno, poiché Sušak non è collegata dalla rete ferroviaria, per marciare lungo le strade di Fiume cantando slogan contro gli italiani e a sostegno di Fiume croata. Gli incidenti tra le due comunità si verificheranno a Fiume, a Sušak e a Tersatto con una serie di manifestazioni e contro-manifestazioni in un clima di acceso patriottismo. Gli irredentisti italiani una volta cresciuti e approdati allo squadrismo fascista ricorderanno quei giorni di guerriglia urbana con nostalgia, come inizio della loro battaglia contro lo slavismo.

Nel 1909, inizia l’attacco alla Rappresentanza municipale da parte del governatore di Fiume, IstvánWickenburg, che prospetta la magiarizzazione dell’istruzione, l’introduzione della polizia di stato, lo scioglimento della Giovine Fiume, l’espulsione dalla città dell’irredentista Icilio Baccich, l’introduzione di una legge sugli stranieri che rappresenta una spada di Damocle e consente l’eventuale allontanamento dei 10.000 residenti italiani. A questo punto il consiglio comunale reagisce e viene immediatamente sciolto. Inizia così la stagione delle bombe contro il palazzo del governatore. Ma ciò che sta accadendo a Fiume alla vigilia dell’intervento militare italiano nella Grande Guerra non preoccupa l’Italia, più attenta ai problemi di Trento, Trieste e della Dalmazia. Se ne parlerà alla fine del conflitto, ma sarà troppo tardi per le trattative fra i governi. Il Patto di Londra stipulato in gran segreto nel 1915 non prevedeva l’assegnazione di Fiume all’Italia. Del resto, la città-porto non era stata inserita nel Trattato. In tal modo l’Austria, seppur fosse uscita perdente dal conflitto mondiale, avrebbe avuto un porto come garanzia per lo sbocco sull’Adriatico.Nessuno si aspettava che Vienna una volta sconfitta avrebbe perso per sempre il suo impero. Intanto croati, serbi e sloveni, si erano organizzati e reclamavano la nascita di un regno, con il sostegno di Francia e Gran Bretagna.

L’Italia si sente tradita dopo aver compreso che le due maggiori potenze europee, di fronte alla disgregazione dell’impero austro-ungarico, non intendono lasciare mano libera all’Italia nel Mar Adriatico, rinnegando così le clausole del Patto di Londra. Il sostegno accordato agli slavi del sudda parte di Francia e Gran Bretagna, trova d’accordo anche il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson che, rifiutando gli accordi di Londra firmati prima dell’entrata in guerra dell’esercito statunitense, sogna la realizzazione di un nuovo ordine internazionale fondato sull’autodeterminazione delle nazionalità e non vi è posto per un’Italia che abbia mano libera nell’Adriatico.

In Italia, la posizione assunta dagli Stati Uniti e dalle grandi potenze europee, risulta particolarmente sgradita agli ambienti del nazionalismo, che criticano apertamente la politica estera dei governi liberali italiani. D’Annunzio rifiuta la linea adottata da Francesco Saverio Nitti nei confronti delle scelte operate dalle grandi potenze e predispone un colpo di mano con i suoi legionari, occupando Fiume. Il poeta-soldato entra nella città nel settembre 1919, chiamato dai fiumani, perché alla conferenza della pace le potenze vincitrici non riescono a trovare un accordo sulle sorti della città. L’evento attira l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, per il coraggio mostrato da D’Annunzio e dai suoi seguaci nello sfidare le decisioni di Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Il Natale di sangue del 1920, sancisce però la cacciata a colpi di cannone di D’Annunzio e dei legionari da parte del governo italiano.

I fiumani sperano che la città non venga annessa alla Jugoslavia, preferiscono l’Italia, perché necondividono la nazionalità e per la quale alcuni giovani volontari irredentisti hanno combattuto. Si spera nell’annessione, ma forse sarebbe meglio la creazione di una piccola città-Stato libera, che permetterebbe di salvare identità e affari.

Nel frattempo, i fiumani apprezzano la creazione di uno Stato cuscinetto decisa dal Trattato italo-jugoslavo di Rapallo e, nel 1921, sostengono alle votazioni il partito autonomista guidato daRiccardo Zanella, che viene nominato presidente dello Stato libero.

Ma la situazione politica della città assume sempre più toni di stampo nazionalistico e antidemocratico. A Fiume gli autonomisti sono la maggioranza nelle urne, ma nelle piazze sono più forti gli ex legionari dannunziani e i fascisti. Il governo di Roma non interviene per garantire l’ordine, mentre quello di Belgrado, incapace nel frenare i contrasti fra serbi e croati, è impotente nel vedere Fiume che diventa italiana. Nel marzo 1922, i fascisti compiono un colpo di stato e mettono in fuga Zanella. Per due anni lo Stato libero è retto da un commissario italiano, finché un nuovo accordo italo-jugoslavo, firmato a Roma nel gennaio 1924, sancisce la definitiva annessione di Fiume all’Italia. 

L’avvento del regime fascista e la particolare connotazione del fascismo di confine peserà sul futuro della città. […]

Andrea Perrone

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 1, n. 1, 2019, nuova serie (a. XXXI)