“D’Annunzio torna a Pescara”: convegni, musica, teatro dal 7 al 15 settembre

Nel centenario dell’impresa fiumana, dal 7 al 15 settembre 2019, la città natale di Gabriele D’Annunzio ospita la manifestazione “D’Annunzio torna a Pescara – La Festa della Rivoluzione”. In programma concerti, recital, mostre e convegni per ricordare e riflettere a 360 gradi sull’opera del poeta.

La Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice sarà presente con il presidente Giuseppe Parlato, che domenica 15 settembre parteciperà al convegno “100 anni dall’Impresa di Fiume”, con Giordano Bruno Guerri, Claudia Salaris e Stefano Trinchese (Aurum, ore 17.3O).

Martedì 10 settembre il Florian Metateatro Centro di Produzione Teatrale di Pescara, presenterà il recital  Tutto fu ambito e tutto fu tentato”, di Giulia Basel, con la consulenza del vicepresidente della Fondazione, Gianni Scipione Rossi (Aurum, ore 21.00).

Il programma completo in www.dannunzioweek.it

La Destra, gli anni di piombo e l’illusione di Democrazia Nazionale

Giuseppe Parlato, La Fiamma dimezzata. Almirante e la scissione di Democrazia Nazionale, Luni, Milano 2017

// Nella ormai vasta e articolata offerta storiografica sulla destra politica post-fascista mancava una ricostruzione della vicenda di Democrazia Nazionale, il partito nato nel dicembre del 1976 per scissione dal Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale ed esauritosi nel 1979, dopo l’infausta partecipazione delle sue liste alle elezioni politiche di quell’anno, nelle quali raccolse appena lo 0,6% dei suffragi.
Non che siano mancati riferimenti nei volumi dedicati al Msi. Ma in quei contesti Democrazia Nazionale è stata trattata alla stregua di una semplice e velleitaria parentesi, appena più rilevante delle numerose altre micro-scissioni che hanno segnato il partito di estrema destra sin dalla fondazione.
Per dimensioni, caratteristiche, ambizioni Democrazia Nazionale fu in realtà molto di più e – per quanto breve – non può essere sminuita a episodio, ma è invece opportuno analizzarla come parte integrante della storia del postfascismo italiano. Giuseppe Parlato lo fa – si può dire finalmente – sulla base di un’accurata ricerca delle fonti, memorialistiche e archivistiche, ormai disponibili, collocando la vicenda nel fluire della storia del postfascismo e nel contesto degli avvenimenti politici italiani della seconda metà degli anni Settanta, essenzialmente caratterizzati dall’esperienza della “solidarietà nazionale”, che vide la collaborazione tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. I due partiti che insieme raccoglievano circa l’80% dei voti espressi, mentre si manifestava il clima degli “anni di piombo”, segnati dal terrorismo e dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro.
Un periodo particolarmente critico della storia repubblicana, che matura dopo la crisi della formula politica del centro sinistra, esauritasi con le elezioni politiche del 1972 dopo anni di fibrillazioni e incertezze. Anni in cui emerse la concreta opportunità per il Msi di tornare a svolgere – come negli anni Cinquanta – un ruolo politico non puramente testimoniale. La lunga leadership di Arturo Michelini era stata caratterizzata dal fallimento del progetto della “grande destra”, accettato dal Pdium di Alfredo Covelli ma rifiutato dal Pli di Giovanni Malagodi. Le elezioni politiche del 1968 per il Msi furono insoddisfacenti e ne certificarono l’isolamento. Con la morte prematura del segretario, l’anno successivo, la guida del partito fu affidata – e Parlato nel ricostruisce le ragioni – a Giorgio Almirante, che riuscì, grazie alla crisi del centro sinistra e alla battaglia parlamentare contro l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario, a imprimere una svolta movimentista, sia pure con elementi di ambiguità culturale e programmatica che costituirono il brodo di coltura degli avvenimenti successivi.
Nelle vicende interne al Msi, Almirante rappresentava le suggestioni identitarie del neofascismo, opposte alla prospettiva di una storicizzazione del regime messa in campo – pur con accenti diversi – da esponenti del partito quali Ernesto De Marzio, Nino Tripodi, Pino Romualdi. Con il ritorno alla segreteria, Almirante tentò di gestire le diverse componenti proponendo da un lato il Msi come “alternativa al sistema” partitocratico; dall’altro come fulcro di una alleanza dei moderati anticomunisti, sulla scia della “grande destra” micheliniana. Da qui la nascita della Destra Nazionale, aperta a personalita’ estranee al neofascismo, che tuttavia nelle elezioni politiche del 1972 – a causa della capacità della Democrazia Cristiana di recuperare il “voto utile” in senso anticomunista – non riuscì a conquistare un consenso tale da renderla politicamente indispensabile.
In fondo da quella vittoria “dimezzata” – in un’Italia spazzata dal terrorismo – nasce la crisi interna del partito che porterà alla scissione del 1976, paradossalmente grazie all’intuizione di Almirante di ampliare il progetto della Destra Nazionale accelerandolo con la più ambiziosa Costituente di Destra, che servì agli scissionisti come strumento regolamentare per la costituzione di gruppi parlamentari autonomi.
Una scissione di vertice, certamente, della quale Parlato ricostruisce efficacemente genesi, passaggi, particolari e motivazioni. L’unica scissione partitica della storia repubblicana caratterizzata dall’abbandono della maggioranza degli eletti in Parlamento, che consentì di attribuire alla nuova formazione una quota rilevante del finanziamento pubblico sul quale, all’epoca, si reggeva l’attività dei partiti. La reazione di Almirante – che rimase alla guida del partito con l’appoggio di Romualdi e Rauti – fu incentrata sul concetto etico di “tradimento”, mentre nella vulgata cominciò immediatamente a circolare il sospetto di una manovra ordita e finanziata dalla Democrazia Cristiana. Parlato dimostra come tale sospetto fosse infondato sul piano fattuale e politico, mentre sottolinea l’abilità di Almirante – a costo di un’inversione rispetto alle prospettive di moderatismo da lui stesso alimentate – nel suscitare lo sdegno e la relativa mobilitazione della base del partito, che solo in misura esigua aderisce alla scissione in sede locale. Lo stesso Andreotti, nel suo diario, alla data della scissione scrive: «Qualcuno si congratula con me: non so se ci sia da congratularsi, ma sta di fatto che io l’ho appreso soltanto dopo e nessuno mi aveva chiesto un parere in proposito». D’altra parte – come rileva Parlato – per la Dc «era preferibile avere un Msi nostalgico ed estremista piuttosto che una destra moderna e compatibile con il sistema». Non c’erano, in sostanza, le condizioni politiche perché l’avventura di Democrazia Nazionale – formazione peraltro molto litigiosa al suo interno e priva di una indiscussa leadership – potesse evolvere in un progetto stabile e aggregante sul versante politico della destra. Per certi versi, gli esponenti di Democrazia Nazionale – additati di “tradimento” – furono a loro volta “traditi” dalla Dc. O, meglio, tradite furono le loro velleitarie aspettative, frutto di una errata lettura politica del momento storico e del tenore dei loro rapporti con esponenti democristiani.
«Il vero problema degli scissionisti – rileva Parlato – fu proprio la mancanza di veri rapporti istituzionali con il potere: se a livello di singoli gli esponenti del mondo moderato avevano contatti e amicizie in campo democristiano (Tedeschi con Piccoli, Delfino con Andreotti, De Marzio con Moro, Nencioni con Fanfani, solo per fare qualche esempio), nessuno di tali rapporti si trasformò in rapporto politico; e ciò basterebbe per smentire la strategia Dc su Democrazia Nazionale: in altre parole, se la Dc avesse voluto la scissione, l’avrebbe fatta meglio. Al dunque, solo Fanfani si spese a favore di Democrazia Nazionale in occasione della costituzione del gruppo al Senato e ciò non dipese dai contatti e dai rapporti con gli scissionisti ma da riflessioni autonome del Presidente del Senato in ordine alla evoluzione della politica Dc». Gli scissionisti, dunque, furono utilizzati per ragioni di tattica interna al partito democristiano, non nel quadro di una prospettiva politica neo moderata di lungo respiro.
Il fallimento di Democrazia Nazionale era sostanzialmente già scritto in nuce. Fu un’operazione inattuale e ingenua che – al di là del destino personale dei singoli scissionisti, in larga parte consapevoli dell’errore commesso – determinò un rallentamento di quel processo di costruzione – come lo definisce Parlato – di un «collettore di un elettorato moderato e anticomunista che spesso si trovava in difficoltà a votare per la Dc». Per ragioni ben comprensibili, avendo riguardo alla natura culturalmente plurale di quello che è stato definito “arcipelago democristiano”, destinato col tempo ad esaurire la sua stessa esperienza.

Gianni Scipione Rossi

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX

Note e riferimenti bibliografici nella versione cartacea.

 

Giorno del Ricordo: al Quirinale la prolusione di Giuseppe Parlato

Il 9 febbraio 2019 il presidente della Fondazione Giuseppe Parlato ha tenuto una prolusione alla cerimonia ufficiale per il Giorno del Ricordo al Quirinale.

 

Il testo della prolusione

La celebrazione del Giorno del Ricordo non è soltanto un fatto rituale: infatti esso ha avuto diversi aspetti positivi. Il più importante fra tutti è una prima conoscenza del dramma delle foibe e dell’esodo nelle scuole e nelle università. Se ciò succede il merito va tutto al ruolo istituzionale  che da tre lustri il Giorno del Ricordo ha avuto, il quale non ha nulla – checché i suoi detrattori affermino – di rivendicativo, di nostalgico, di rancorosamente divisivo.
Visto nella sua giusta luce e nella ratio che vide convergere allora il voto favorevole della stragrande maggioranza delle forze politiche, esso si qualifica come un evento fondato su due momenti.
Il primo è il ricordo, la considerazione delle vittime e degli esuli, di coloro i quali scelsero di restare italiani; una vicenda ancor più pesante nella memoria di ciascuno e di tutti perché negata per ben oltre mezzo secolo e quindi ferita aperta e dolorante nella storia della comunità nazionale.
Il secondo momento è quello della storia e quindi la necessità della conoscenza, dell’approfondimento, della ricerca della verità a tutti i livelli.
Per molto tempo, foibe ed esodo, nella migliore delle ipotesi, sono state confinate a storia locale, drammatica, forse, ma pur sempre di confine e, come tale, confinata tra le vicende tristi ma non così rilevanti per la storia nazionale o europea.
Invece occorre spiegare ai giovani che si tratta di una storia che ha provocato una grave ferita a tutto il tessuto nazionale, a una comunità già sofferente per la guerra, che ha avuto diverse migliaia di morti quando già l’Italia era uscita dal conflitto, proiettando un’ombra lunga sul dopo che in realtà si è chiamato esodo. E l’esodo, a dimostrazione che si trattava di una storia italiana e non locale, si è esteso, nelle sue conseguenze a tutta Italia, e anche oltre Oceano. Ne sono testimonianza gli oltre cento campi profughi sparsi da Torino ad Alghero, da Taranto a Trieste, da Latina e da Roma fino alla Sicilia. E in tutte le regioni, altri italiani hanno conosciuto famiglie italiane di profughi. E spesso, questi profughi, che erano fuggiti dalla dittatura jugoslava inseguiti dall’epiteto di “fascisti”, in Italia venivano additati talvolta come “slavi”, come stranieri, più spesso come fascisti.
Una storia italiana, quindi, fatta di solidarietà umana– tanti sono i racconti che lo testimoniano – ma anche di odio politico, e anche in questo caso vi sono tante pagine a ricordarcelo, da parte di chi non  tollerava che qualcuno fosse fuggito dal presunto paradiso del popolo.
Ma questa è anche una storia di lungo periodo. E’ abitudine contestualizzare le vicende accadute nell’Adriatico Orientale collocandone le origini nel periodo successivo alla fine della prima guerra mondiale. Certo, lo scontro fra nazionalismi da un lato e l’ideologia e la prassi del comunismo titino dall’altro hanno determinato questa tragedia.
Ma per ben comprenderla occorre ricordare che queste vicende affondano le loro radici nell’Ottocento, nello scontro tra nazionalità che un impero multinazionale favoriva. Non solo. La secolare presenza italiana in Istria, in Dalmazia, a Fiume e nella Venezia Giulia testimonia come la nazionalità italiana  fosse presente anche senza bisogno di uno Stato. Per secoli gli abitanti di quelle terre, così come chi abitava la Penisola, si sono sentiti italiani ben prima che esistesse l’Italia.
Per costoro Italia significava potere parlare la lingua dei padri, potere riconoscere le proprie radici nella fede, nella cultura, nei monumenti. Italia, in altri termini voleva dire autonomia culturale, identità e appartenenza che non si trasformavano in nazionalismo ma rappresentavano il diritto di esprimersi in una lingua che da Dante in poi aveva caratterizzato questa parte di mondo.
Ecco perché questa vicenda è paradigmatica per comprendere anche la natura della identità culturale italiana, formatasi nel Risorgimento mazziniano, nel rispetto delle identità altrui, senza venire meno alla propria ma senza pensare che la propria debba schiacciare le altre.
La storia deve diventare la protagonista di questa tragedia per contribuire a fare luce sulle tante pagine strappate. Si è prima accennato alla strage di Vergarolla. Siamo nell’estate del 1946, l’Italia è da due mesi Repubblica e questa spiaggia vicino a Pola era ancora, formalmente, territorio italiano. Le vittime accertate di questa tragedia nella tragedia sono “solo” 64 o 65. Ma pare che a causa dei corpi straziati e irriconoscibili il numero possa arrivare a cento. Forse di più. Ci sono ipotesi sulle cause della strage ma la verità è che finché non vedremo bene le carte della ex Jugoslavia non sapremo molto di più. Finora l’evento è stato tramandato dai superstiti e dai loro figli che ne hanno parlato in libri, documenti, testimonianze. Ma la storia ha bisogno di altro. Ha bisogno che gli archivi si aprano anche all’estero, che i documenti raccontino, che gli strumenti della metodologia della ricerca storica si mettano a disposizione di questa enorme tragedia che deve diventare storia anche grazie alle istituzioni dello Stato, che possano favorire la consultazione dei documenti a livello internazionale. Affinché queste vicende trovino spazio nei manuali scolastici, siano oggetto di dibattiti scientifici, senza pregiudizi ideologici, senza barriere e senza demonizzazioni.
Credo che questo noi dobbiamo alle vittime. Quando, fra cento anni, anche i discendenti degli esuli saranno scomparsi e con loro quel pathos che fortunatamente ci hanno tramandato, che cosa resterà della memoria se la storia non avrà fatto la sua parte?