Archivio delle Destre. Piccola storia di una copertina mai nata

Bozza cianografica
della copertina mai nata

di Gianni Scipione Rossi

//Quando si tenta, sempre con scarso successo, di riordinare le carte di una vita, talvolta si riannodano i fili di piccole storie. Come la genesi di una copertina mai nata [foto a sinistra], che forse merita di essere raccontata, pur se mi costringe a una sorta di – parziale – autobiografia. Anche un modesto, marginale documento può testimoniare il clima di un’epoca. Dunque la racconto, questa storia, mentre affido questo e altri documenti all’Archivio delle Destre che tanti anni fa decidemmo di creare con Giuseppe Parlato e Giovanni Tassani, come costola tematica dell’Archivio della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.

Destre, al plurale, non destra. Perché – al di là della nota considerazione di Giuseppe Prezzolini sulla pluralità delle destre – la carenza di documenti su monarchici, missini, cattolici e liberali conservatori, qualunquisti, gruppi del neofascismo extraparlamentare, rendeva difficile studiare in modo scientifico queste aree della politica italiana.

Era un problema che mi aveva riguardato direttamente. Più di quarant’anni fa, tra il 1977 e il 1978, mentre facevo il giornalista precario e studiavo Scienze politiche alla Sapienza di Roma, mi si pose inevitabilmente il problema della tesi di laurea. Chiesi ad Augusto Del Noce di poter lavorare sui pensatori controrivoluzionari dell’Ottocento. Non fu garbato. Altra passione, la storia economica. Avrei voluto studiare la chiusura delle terre nel Mezzogiorno e le sue conseguenze. Non andò: il docente cambiò facoltà. Solo in terza battuta mi indirizzai alla Storia dei partiti e dei movimenti politici. Carlo Vallauri – solido socialista – generosamente assentì, pur avendogli spiegato che lavoravo e dunque avevo qualche difficoltà a impegnarmi a tempo pieno. D’altra parte per i giornalisti della mia generazione la laurea non era – purtroppo – richiesta né ambita. Il giornalismo era nato come professione da “irregolari”, spesso autodidatti, ed era ancora così.

Cominciai a frequentare i seminari di Sandro Setta e Lamberto Mercuri. Con loro – grazie a loro – scoprii la stampa clandestina antifascista e il museo di via Tasso. Con Sandro Setta, che aveva lavorato sull’Uomo Qualunque, individuammo come argomento la storia del Msi nel periodo – 1968/1973 – che aveva visto il partito uscire dal declino e riemergere tra i protagonisti della politica italiana. Il tema era storiograficamente quasi vergine, per così dire. E per il neofascismo in generale si poteva solo contare su pochi vecchi testi militanti, pro e contro, più contro che pro. Il nuovo fascismo da Salò ad Almirante. Storia del Msi, di Petra Rosenbaum, era uscito per Feltrinelli nel 1975, prefato da un Carlo Rossella che mai avresti immaginato, vent’anni dopo, alla guida del Tg1 “berlusconiano”.

La tesi fu discussa il 17 novembre del 1979 nell’impegnativa aula magna della Sapienza. Un “acuto” membro della commissione di cui ho rimosso il nomemi chiese quale a mio parere fosse stato il ruolo di Pino Rauti nella strage di Piazza Fontana. Perplessorisposi che non facevo il poliziotto, né il magistrato. Non mi venne da precisare che non ero neppure un cartomante. Questo per dire del clima… La tesi poi rimase lì, rilegata. Il mio tesserino da pubblicista, nuovo di zecca, mi sembrava decisamente più importante. Dopo varie e precarie esperienze di lavoro – ricordo sempre, con piacere e sconforto, quella nella redazione di OP di Mino Pecorelli – piuttosto casualmente approdai nel 1980 al “Secolo d’Italia” e in quell’ambiente conobbi Gaetano Rasi, che a metà degli anni Ottanta mi chiese di curare il bimestrale dell’Istituto di Studi Corporativi, la costola culturale dell’antica sinistra missina, che Rasi aveva fondato all’inizio degli anni Settanta.

Gaetano, uomo di partito, ma contestualmente di azienda e di studi, cercava con fatica di promuovere e diffondere una nuova e moderna cultura per la destra politica. Non per caso nel 1981 era riuscito a creare la Fondazione Ugo Spirito intorno all’archivio e alla biblioteca del filosofo. Ci univa il gusto dell’analisi e della ricerca. Ci divideva il suo legame sentimentale con i pochi mesi che aveva vissuto da ragazzino come “fiamma bianca”, nel tramonto della Rsi. Mio padre Stefano, poco più anziano di lui, aveva cercato di unirsi all’esercito del Re. Ci divideva, altresì, il mio dubbio sull’utilità di insistere con il termine corporativismo, che nella scienza economica internazionale aveva assunto un significato opposto a quello che intendeva lui. 

In questo contesto Rasi ebbe l’idea di creare con l’Istituto una collana di libri, che volle chiamare “Contributi per la storia del Movimento Sociale Italiano”. Una storia nella quale era immerso, ma che intendeva proporre in modo oggettivo, non “di parte”. Si trattava di uscire dalle secche della memorialistica e, nel contempo, di fornire strumenti diversi dalla facile demonizzazione corrente. L’esigenza era sentita. Così fu pubblicata, nel 1986, la tesi sulle origini del Msi di Giuliana de Medici. Io mi offrii di curare gli scritti politici del geo-economista Ernesto Massi, protagonista della sinistra missina del dopoguerra. Uscirono nel 1990, con il titolo Nazione sociale [foto a destra] e una fascetta problematica: MSI: destra o sinistra? La tipica problematicità di quel micro-mondo.

Già nel 1988 si ragionò sulla mia tesi. Perché Piero Ignazi più volte era venuto all’Istituto a cercare documentazione e testimonianze per Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, primo lavoro scientifico scritto sine ira et studio sul Msi, che uscì per il Mulino nel maggio del 1989. Un libro onesto, ben fatto, serio, pur se gravato da qualche errore interpretativo sulle radici culturali dell’area rautiana. Un lavoro frutto di un arduo lavoro di ricerca, che ben conoscevo. In dieci anni poco o niente era cambiato. Rasi decise che l’Istituto non poteva limitarsi a guardare e mi spinse a riprendere in mano la tesi, nonostante io fossi oberato di lavoro. La tesi era troppo tesi, in verità. Nuove ricerche, dunque. Riscrittura completa. Dubbi se allargare o meno il periodo a tutti gli anni Settanta. Gli impegni professionali non me lo permisero. Ne uscì, nel gennaio del 1992, Alternativa e doppiopetto. Il Movimento Sociale Italiano dalla contestazione alla destra nazionale (1968-1973) [foto a sinistra]. Il primo libro di taglio scientifico – almeno nelle intenzioni – che, in qualche modo, poteva essere considerato scritto dall’interno, anche se la mia giovanile, reale, militanza politica, prima nel liberale Movimento Studentesco Democratico guidato da Alfredo Bastianelli e Teodoro Katte Klitsche de la Grange [nella foto sotto “Contropelo”, il primo giornale ciclostilato del MSD, a.I, n. 1, s.d., ma autunno 1968], e poi nell’organizzazione giovanile missina – di anticomunisti militanti non è che se ne trovassero in giro… – risaliva alla fine degli anni Sessanta e alla prima metà degli anni Settanta, con episodiche puntate successive. Fare politica non era nelle mie corde.

Non ho niente da rinnegare delle mie esperienze, ma le regole interne dell’attività politica – identiche in tutti i partiti strutturati di allora – non mi hanno appassionato, se non come osservatore attento. Ero uno spirito difficilmente inquadrabile, eterodosso per vocazione. La destra missina è stata in quegli anni la mia casa, il fascismo-neofascismo no. Nel 1973 – avevo 19 anni – scrissi <Non siamo fascisti. [] Non siamo [] restauratori>, sul mensile artigianalmente stampato ad offset “Giovani Contro”, che compilavamo con gli amici Antonio Laudati, studente come me, e Vincenzo Tortoriello, battagliero operaio metalmeccanico della Maina. (a. II, n. 5, marzo 1973 [foto a sinistra]). Voleva essere la voce del Fronte della Gioventù di Asti, dove ho trascorso – da pendolare con Roma – qualche mese della mia vita. Forse lo scrissi – con pseudonimo, per non inguaiare mio padre – soprattutto per me stesso. Ma, in quella provincia che al Msi garantiva percentuali elettorali risibili, nessuno se la prese.

Per la precisione che merita la microstoria, debbo ammettere che la testata di quel giornaletto non la inventai, ma semplicemente la copiai da quello – di tre anni prima, 1970 – della mia sezione missina romana. Questo sì, poveramente ciclostilato. [foto a sinistra]


Qualche anno dopo, nel
giugno del 1978, Gianfranco Fini pubblicò sul periodico del Fronte – “Dissenso” – una mia lettera che voleva essere di provocazione e stimolo, che intitolò “Camerata si. Camerata no. Un problema da approfondire”.

Scrivevo dunque: < [] l’uso del termine “camerata” sottintende l’accettazione di una qualificazione politica come fascista? Se no, qual è il mio caso []. Se invece la risposta è positiva; se cioè ci si chiama camerati perché si assume di essere fascisti, nel senso pieno della parola, questo può forse riguardare qualche vecchio non troppo intelligente, ma scusabile, ed un numero ancor meno rilevante di giovani, anch’essi poco intelligenti e neppure scusabili. Ma, se così fosse, non sarei il solo a chiamarmi fuori da un’accolita siffatta> (Dissenso”, a. II, n. 8, 5 giugno 1978 [foto a destra]). Ingenuo? Non credo. Anche se la mia provocazione non ottenne allora grandi risultati. La scissione di Democrazia Nazionale stava determinando una involuzione del “polo escluso”. Ma questa lettera – stiamo parlando di micro-cronaca, s’intende – non mi impedì due anni dopo di essere assunto e di lavorare per otto piacevoli anni al quotidiano del Msi-Dn, che ho lasciato nel settembre del 1988 per scelta professionale, quando ero a capo del servizio politico. Può sembrare un paradosso. Invece era normale. La destra missina era un litigioso, magmatico mondo plurale. Nel quale “gentiliani” ed “evoliani”, corporativisti e socializzatori, monarchici e repubblicani, europeisti e nazionalisti, occidentalisti e terzaforzisti, liberali e organicisti, cattolici e anticlericali, filo-israeliani e filo-arabi, conservatori e rivoluzionari, a stento si davano la mano.

La premessa è stata lunga – perdoni il lettore – ma necessaria. La notizia – come si comprende dalla foto di apertura – è questa: Alternativa e doppiopetto – citato forse migliaia di volte – non era il titolo originario del mio libro. Il titolo, scelto da me e approvato da Gaetano Rasi, era L’enigma Almirante. Il MSI tra alternativa e doppiopetto (1968-1973). Lo testimonia appunto la cianografica ingiallita della prova di copertina che ho ritrovato nel mio disordinato archivio privato. A tanti anni di distanza credo ancora che L’enigma Almirante fosse il titolo migliore. Perché in effetti Giorgio Almirante – verso il quale nutrivo grande rispetto, apprezzandone il tentativo di far uscire il partito dall’inutile recinto del neofascismo identitario, nostalgico e catacombale – è stato politicamente un enigma. E in fondo di questo enigma – la scelta non scelta – rimase prigioniero. Perché quel titolo fu cambiato in extremis? Avvenne, sia chiaro, con il mio consenso.

Accadde che Gaetano Rasi [foto a sinistra] fece leggere le bozze a due dirigenti del Msi con i quali abitualmente dialogava, e dei quali, peraltro, avevo raccolto le testimonianze. EntrambiRaffaele Valensise, gran signore meridionale, e Franco Servello, ruvido ma amabile milanese d’adozione – apprezzarono il mio testo riconoscendo anche – ne sono diretto testimone che avrebbe potuto innescare – come fu – un’utile riflessione politica. Sembrò invece loro che enigma potesse risultare un termine irrispettoso per la memoria di un leader politico con il quale per decenni avevano collaborato in vario modo, tra alti e bassi, e la cui figura – a pochi anni dalla scomparsa – era circondata dall’affetto profondo di militanti ed elettori. L’editore Rasi avrebbe lasciato tutto com’era. L’uomo di partito Rasi capì il ragionamento degli amici. Io, pragmaticamente, assecondai l’editore: si cambiava il titolo, mica il testo. Far leggere le bozze non era stata peraltro la ricerca di un imprimatur, del quale non c’era alcuna necessità. Era stato un semplice, condiviso, atto di cortesia, giustificato proprio dalle testimonianze che io avevo deciso di raccogliere nella riscrittura ex novo della tesi di laurea. Che si basava solo su documenti e pubblicistica. Pochi documenti, in realtà. Ricordo bene il giorno del 1978 in cui chiesi un appuntamento a Cesare Pozzo, mitico responsabile stampa e propaganda nella vecchia sede centrale missina di Palazzo del Drago. Gli chiesi se cortesemente si potesse consultare l’archivio del partito. Mi rispose: “Non c’è, è andato perduto”. Mi dovetti accontentare di alcuni faldoni di atti congressuali. Quell’archivio è ancora disperso. Distrutto? Bruciato? Perché? Su questo si è favoleggiato molto. Inutilmente. Non è il solo archivio di partito non disponibile, in verità. Comunque, per quando riguarda quella e altre destre, sia pure frammentari e non esaustivi, i documenti disponibili oggi sono decisamente più numerosi. Compresa la marginale cianografica oggetto di questa piccola storia.

Per la presentazione romana – il 20 febbraio del 1992 – la sala del Residence di Ripetta era stracolma e attenta agli interventi di Carlo Vallauri, Paolo Liguori, Ernesto Massi, Marcello Veneziani, oltre al mio, naturalmente. Si respirava un clima, se non di tensione, certo di attesa curiosa. Molti mi strinsero la mano. Qualcuno uscì perplesso. Altri mi tolsero il saluto. È ricapitato molte volte, negli anni. Ma tant’è. Ci si abitua.

Ps. Per evitare equivoci chiarisco che i miei articoli e i miei libri, fino al 1991, sono tutti sempre firmati con il mio nome familiare e d’affezione, cioè Gianni. Fu proprio nel gennaio del 1992 che, a causa di una insuperabile omonimia professionale, dovetti aggiungere il mio vero nome anagrafico, cioè Scipione.

Un geografo sul campo di battaglia

Ernesto Massi

di Lorenzo Salimbeni

//Già docente di Geografia economica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (quasi in continuità con la sua frequentazione universitaria della Fuci dell’ateneo triestino) e presso la Regia Università di Pavia, nonché fondatore assieme al collega Giorgio Roletto di Geopolitica. Rassegna mensile di geografia politica, economica, sociale, coloniale (1939-1942), Ernesto Massi partì comunque volontario nella Seconda guerra mondiale. Rientrato nei ranghi del Regio esercito come Tenente di complemento di fanteria (specialità Bersaglieri), svolse soprattutto un apprezzato lavoro informativo nell’ambito degli uffici “I”, distaccati presso lo Stato maggiore delle grandi unità, mettendo a disposizione la sua vasta cultura, le sue competenze linguistiche (nato nel 1909 nelle terre irredente asburgiche da padre croato, svolse le scuole elementari a Graz in Austria) e le conoscenze affinate nell’ambito di specifici corsi di formazione per i militari afferenti al Servizio informazioni militare (Sim).
Il suo primo ambito di impiego nel 1941 fu lo Stato indipendente croato, assurto all’indipendenza sotto l’egida del Poglavnik degli Ustaša Ante Pavelić, ma ben presto diventato teatro di immani carneficine perpetrate dalle milizie ultranazionaliste croate a danno di serbi, zingari ed ebrei. I resoconti settimanali ed alcune schede specifiche custoditi nell’archivio della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice all’interno del Fondo Massi mettono in evidenza la sua conoscenza del territorio, della lingua e delle caratteristiche delle popolazioni autoctone, nonché la sua capacità di analizzare la difficile situazione politica locale. In effetti l’esercito italiano in Jugoslavia aveva schierato numerosi soldati ed ufficiali bilingui, spesso con cognomi di chiara origine slava, croati e sloveni del confine orientale (correndo il rischio che disertassero) oppure totalmente italianizzati anche da molte generazioni (quasi in analogia con le elite croate austriacizzate): le autorità di Zagabria chiesero l’allontanamento di alcuni di questi ufficiali, arruolati nella divisione Sassari, per manifesto anticroatismo1.
Nel frattempo la rivista Geopolitica cominciava ad affrontare con frequenza tematiche attinenti i Balcani, la Croazia e le possibilità di sviluppo italiano nell’Europa orientale. Meno corposo risulta il materiale inerente le successive destinazioni del fondatore della geopolitica italiana, vale a dire il fronte russo e siciliano, ambiti nei quali alle attività di ufficio accostò un maggiore impegno in prima linea, come si può anche evincere dalle decorazioni militari conseguite.

[…]

Il saggio completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX, pp. 115-142.

La centralità geopolitica di Trieste negli studi di Giorgio Roletto ed Ernesto Massi

di Michele Pigliucci

//La regione geografica dell’Adriatico settentrionale è una delle zone maggiormente interessanti per quanto riguarda lo studio del territorio e della distribuzione dei popoli. Essa, infatti, nella storia dell’uomo è sempre stata attraversata da diversi confini politici, il cui mutamento nei secoli ha raccontato, e condizionato, l’alterna evoluzione delle dinamiche umane, facendone il terreno di un confronto più o meno aspro fra popolazioni differenti per lingua, cultura e provenienza, che la storia nei secoli ha spinto fino a questo crocevia, facendo di esso uno snodo di primaria importanza in quanto limite orientale della diffusione dei popoli latini, confine meridionale dell’espansione dei popoli germanici e occidentale per i popoli slavi. Queste tre espansioni hanno scelto per differenti motivi queste direzioni: a un’antica presenza latina nella direttrice orientale si è andata sommando una penetrazione germanica in cerca di uno sbocco sul Mediterraneo, a cui si è aggiunta la manodopera agricola slava che, diffusa sul territorio, ha assunto nel tempo consapevolezza nazionale.
La diffusione dei tre ceppi etnici su questo territorio non è mai riuscita a risolversi in maniera definitiva: se la penetrazione germanica è stata discontinua e periodica, l’elemento latino ha privilegiato l’occupazione delle città della costa mentre gli slavi, prevalentemente contadini, si sono sparpagliati nell’agro (Bonetti, 1964). Questa differente distribuzione dipende in ultima analisi da un diverso approccio culturale che avrebbe poi condizionato le tensioni per il controllo della regione: se gli italiani sono portati a ritenere che la campagna segua il destino della città, viceversa gli slavi e i germanici tendono a considerare l’agro il vero centro del territorio.

La situazione di Trieste, inoltre, è complicata dalla netta separazione fra l’entroterra e il litorale, causata dall’aspra conformazione orografica del Carso immediatamente alle spalle della città. Questa particolarità fu ad un tempo la causa e l’effetto dell’incapacità di affermazione, per un periodo significativo, da parte di un potere centrale in grado di imporre unità culturale e territoriale alla regione e di condizionare così sostanzialmente e definitivamente lo sviluppo umano. Al contrario l’assenza di una barriera naturale ben riconoscibile permise il continuo spostamento delle frontiere secondo le contingenze storiche. In particolare durante le invasioni barbariche dell’alto medioevo questa regione si rivelò sostanzialmente inadatta a ricoprire il ruolo di limes militare che la geografia politica le attribuiva: fortificata con alti valli, fu violata ripetutamente fino a costringere i Longobardi a porre la propria linea difensiva su quello che diverrà il limes longobardicus, il limitare cioè fra la pianura friulana e le Prealpi Giulie. Questa linea amministrativa e militare è di grande significato perché rappresenterà da allora, almeno nella sua parte settentrionale, un confine etnico abbastanza netto fra i popoli di diritto latino e gli sloveni e croati, i primi penetrati nella zona delle Prealpi Giulie al seguito dei Longobardi, i secondi importati nella penisola istriana dai bizantini come coloni. Questa sostanziale chiusura del confine agevolò lo sviluppo di una centralità della zona costiera giuliana, che mantenne nei secoli la propria funzione di collegamento fra mondo germanico e mare Adriatico.

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Il saggio completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX, pp. 45-69.

La rivista “Geopolitica” e la questione delle terre irredente tra ambizioni scientifiche, politiche e territoriali

di Arrigo Bonifacio

//Nel gennaio del 1939 uscì il primo numero di “Geopolitica. Rassegna mensile di geografia politica, economica, sociale, coloniale”, rivista fondata dai geografi Ernesto Massi e Giorgio Roletto grazie all’appoggio politico e materiale del ministro per l’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai. Il principale obbiettivo scientifico di “Geopolitica” era quello di strutturare un approccio italiano all’omonima disciplina – la geopolitica – affermandone lo status scientifico come disciplina geografica. La rivista aveva però anche degli obbiettivi di natura politica, ed in particolar modo ambiva a fare della geopolitica «una base dottrinaria della politica estera fascista». Svariati studi hanno evidenziato come globalmente “Geopolitica” fosse principalmente espressione della peculiare realtà politico-culturale della città di Trieste, presso il cui Ateneo era inserito quell’Istituto di Geografia, sede della Direzione della rivista, dove insegnava il piemontese Giorgio Roletto e dove si era formato accademicamente l’altro condirettore di “Geopolitica”, Ernesto Massi, geografo triestino che per primo aveva “importato” in Italia la geopolitica, disciplina che fino a quel momento si era sviluppata soprattutto in Germania.

Presso il medesimo Istituto erano poi attivi numerosi altri redattori e collaboratori della rivista, quali Eliseo Bonetti, Livio Chersi, Renata Pess, Carlo Schiffrer e Dante Lunder. Ad ogni modo collaborarono con “Geopolitica” «tutti i geografi [italiani] dell’epoca»: la creatura di Roletto e Massi era dunque dotata di una rete ben ramificata anche al di fuori dell’Istituto di Geografia dell’Università di Trieste e si estendeva un po’ a tutto il Regno, per farsi però particolarmente fitta a Milano e a Pavia, dove Ernesto Massi era docente di Geografia Politica presso l’Università Cattolica di Milano e la Regia Università di Pavia.
La rete di “Geopolitica” non era tuttavia di natura esclusivamente accademica: Massi e Roletto erano infatti vicini sia all’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (d’ora in avanti ISPI), istituzione notoriamente vicina agli ambienti del Ministero degli Affari Esteri, sia alla Scuola di Mistica Fascista Sandro Italico Mussolini. Per comprendere la vicinanza di Massi e Roletto a questi due enti, entrambi nati negli ambienti dei Gruppi Universitari Fascisti (d’ora in avanti GUF) milanesi e pavesi, basti ricordare che entrambi i direttori di “Geopolitica” erano anche collaboratori di “Dottrina Fascista”, la rivista della Scuola, mentre per quello che riguarda l’ISPI i rapporti furono così stretti che per anni si vagliò l’ipotesi di creare presso l’Istituto di Geografia dell’Ateneo giuliano una sede distaccata dell’ente milanese.

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Il testo completo del saggio in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX, pp. 9-43.

La cultura dell’irredentismo nel Fondo archivistico Ernesto Massi

Ernesto Massi rappresenta uno degli esempi migliori di quello che gli storici e i geografi hanno attribuito alla città di Trieste e alla sua cultura mitteleuropea, ovvero il crocevia di tre diverse tradizioni culturali e politiche: la cultura italiana o latina, la cultura slava e la cultura tedesca.

Ciò emerge con forza non soltanto dalla biografia del geografo e politico triestino, ma anche dalla visione del mondo che animò lo studioso nel corso di tutta la sua esistenza. Elementi questi che troviamo presenti nell’Archivio e nella biblioteca dello studioso triestino, conservati presso la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.

Nel corso della sua esistenza, Massi riuscì infatti a conciliare il cattolicesimo (con la sua giovanile iscrizione alla FUCI) con l’idea di nazione; il corporativismo cattolico e fascista; l’adesione alle idee di Romolo Murri fondatore della Democrazia Cristiana; la visione monarchica e repubblicana; l’adesione all’idea millenaria di Roma che giungeva attraverso il Cristianesimo sino al fascismo; nonché la capacità di conciliare la visione del mondo dello Stato etico di origine gentiliana con quella spirituale della tradizione cattolica (ovvero sintesi fra idealismo e cattolicesimo); e ancora una visione di sintesi della tradizione risorgimentale (che contempla tutti i “padri della patria” da Gian Domenico Romagnosi, a Melchiorre Gioia e Carlo Cattaneo, fino a comprendere Giuseppe Mazzini e il socialismo nazionale Carlo Pisacane) che muove dalla Sinistra storica (con le sue componenti: irredentismo; socialismo nazionale; nazionalitarismo dell’anarcosocialista Andrea Costa) e che si salda con la visione soreliana dei sindacalisti rivoluzionari fautori dell’intervento militare nella Grande Guerra, i quali riscoprono l’idea di nazione avvicinandosi alla “religione della patria” nel corso del primo conflitto mondiale e poi confluiscono nel movimento fascista attraverso il sindacalismo nazionale, a partire dal dopoguerra.

È evidente che nel “pantheon ideologico” di Massi tutti i movimenti politici erano ben accetti, purché facessero propria l’idea di nazione e si riconoscessero nella visione dell’Italia generalmente condivisa. La stessa idea di nazione però – nel pensiero di Massi – non poteva esistere senza una visione sociale che rendesse tutti i ceti partecipi del benessere generale.

Ma partiamo dalle origini. Alla base della nazione sociale del geografo triestino vi è l’irredentismo, che è stato un grosso fattore di nazionalismo, come hanno sottolineato alcuni storici come Giovanni Sabbatucci. Una delle condizioni necessarie per lo sviluppo della componente irredentista è stata la presenza nella fase risorgimentale di un nazionalismo d’ispirazione democratica e mazziniana.

Nel corso dell’Ottocento, la presenza dei valori del nazionalismo democratico e mazziniano è servita a tener desto un sentimento patriottico che si è tradotto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, in un nazionalismo antidemocratico ed imperialista.

Massi nacque a Trieste nel 1909, quando ancora la città era parte integrante dell’impero austro-ungarico. Il suo vero nome era Ernesto Maček, ereditato dal padre di origine croata o slovena e alto ufficiale della Marina austriaca. La madre invece di origine italiana, si chiamava Enrica Codaglio. L’infanzia e le elementari le trascorse nella città di Graz dove frequentò le scuole elementari del posto, imparando a parlare e a scrivere correttamente la lingua tedesca. Viceversa, frequentò le scuole medie inferiori e superiori a Trieste nella fase in cui terminata la Grande Guerra la città venne annessa al Regno d’Italia. Nel 1926, dopo l’avvenuta iscrizione all’Università di Trieste, cambiò il cognome da Maček in Massi, in linea con il Regio Decreto promulgato in quell’anno.

Nel corso della sua frequenza presso la facoltà di Economia e Commercio, Massi ebbe modo di sostenere anche un paio di annualità di Lingua e Letteratura serbo-croata. A dimostrazione del suo rapporto con la cultura del mondo slavo, per tradizione familiare (il padre era di origine croata).

Durante il suo percorso universitario conobbe Giorgio Roletto, docente all’epoca di Geografia economica all’Istituto di Studi superiori di Trieste, che gli propose di collaborare con lui nella realizzazione di una corrente tutta italiana di geopolitica, traducendo le opere in tedesco del fondatore della geopolitica tedesca Karl Haushofer, che aveva iniziato nel 1924, a Monaco, la pubblicazione della rivista Zeitschrift für Geopolitik, con l’apporto di una serie di allievi e studiosi. Ma la figura di studioso eclettico e multiforme, frutto del suo rapporto con la città di Trieste, emerge anche durante gli anni Trenta, per l’esattezza nel 1934, quando giunto a Milano iniziò a collaborare in qualità di assistente volontario con la cattedra di Libertade Nangeroni all’epoca docente di Geografia presso la facoltà di Lettere della Università Cattolica del Sacro Cuore. Nangeroni aveva chiesto al rettore dell’Università Cattolica Padre Gemelli di poter contare su un assistente per poter affrontare il numero crescente di studenti che sostenevano l’esame con la sua cattedra e aveva segnalato il giovane Massi affermando che era un giovane geografo molto promettente. Gemelli aveva dato il suo assenso sottolineando che però non era in quel momento possibile pagarlo e che forse avrebbe potuto ambire ad uno stipendio solo negli anni a venire.

Due anni dopo, siamo nel 1936, Massi divenne ordinario, ottenendo la cattedra di Geografia economica alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica. Negli stessi anni, lo studioso triestino iniziò a collaborare con l’Istituto Coloniale Fascista di Milano e con i suoi colleghi della Cattolica, soprattutto con Amintore Fanfani e Francesco Vito per la comune adesione al corporativismo cattolico e per un aperto sostegno al colonialismo italiano all’interno dell’ICF lombardo.

Nel 1936 guidò l’ICF milanese in un lungo tour nella Germania nazionalsocialista per celebrare i centocinquanta anni della Società geografica di Francoforte e l’anno dopo (1937) di nuovo per un incontro con il Ministero delle Colonie della Germania nazionalsocialista dove tenne due discorsi in tedesco. Al contempo, nel 1937, iniziò ad insegnare Geografia politica ed economica presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia, entrando in contatto con Nicolò Giani presidente della Scuola di Mistica Fascista di Milano e docente di Sindacalismo e cultura corporativa presso lo stesso Ateneo e il Politecnico di Milano. Sempre nel 1937, divenne presidente dell’INCF (Istituto Nazionale di Cultura Fascista) di Pavia.

Con Fanfani e Vito frequentò l’Istituto coloniale fascista di Milano, tenendo conferenze sulle colonie e il colonialismo italiano e a partire dal 1935 assumendo la carica di direttore culturale dello stesso. Allo stesso tempo tenne una serie di relazioni sempre nel capoluogo lombardo e in altre città della Lombardia per la Scuola di Mistica Fascista, collaborando e intrattenendo relazioni politico-culturali con Giani, che rinsaldò dopo l’avvenuta nomina di quest’ultimo alla direzione del quotidiano “La Cronaca Prealpina” di Varese nel novembre del 1937.

Nel frattempo, Massi proseguì a collaborare con il suo mentore Roletto tenendo conferenze presso l’Università di Trieste, dove per un breve periodo di tempo insegnò presso la facoltà di Giurisprudenza, ancora con l’Istituto Coloniale Fascista della stessa città e in altre città dell’Italia del Nord, come Trento, Gorizia ecc. Nel 1940, partecipò al Convegno della Mistica Fascista in qualità di collaboratore della rivista della Mistica “Dottrina Fascista” e di rappresentante della rivista “Geopolitica”, fondata nel gennaio 1939 insieme a Roletto, dopo aver ottenuto il sostegno di Padre Gemelli che lo aveva inviato con una breve lettera di presentazione dall’allora ministro dell’Educazione nazionale, Giuseppe Bottai, che diede il placet alla pubblicazione del periodico. Partito volontario nel marzo del 1941 per partecipare alla Seconda guerra mondiale, venne inviato prima in Jugoslavia, come tenente dei bersaglieri e dove lavorò con l’intelligence italiana per favorire i rapporti fra italiani, tedeschi e croati, grazie alla sua perfetta conoscenza del tedesco e del serbo-croato. Nella Jugoslavia dell’epoca intrattenne rapporti con gli ustascia visitando anche il quartier generale di Ante Pavelic. Successivamente venne inviato sul fronte russo per favorire le relazioni con il comando tedesco della Wehrmacht. Dopo essersi distinto per coraggio e disciplina sul fronte orientale e nello scacchiere della Sicilia occidentale ricevendo tre medaglie al valor militare, nel 1943 aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Nel secondo dopoguerra venne epurato per aver aderito alla RSI, perdendo la possibilità di insegnare all’Università e iniziando a lavorare per l’imprenditore Pernigotti. Solo nella seconda metà degli anni Cinquanta, grazie all’interessamento di Ardito Desio, geologo e alpinista italiano, ottenne di nuovo la possibilità di insegnare presso l’Università Statale di Milano.

Nel 1946 partecipò alla fondazione del Movimento sociale italiano, soprattutto mettendo insieme le forze rimaste a Milano e in tutta la Lombardia, venendo nominato vice segretario nazionale. Negli anni successivi diede il suo apporto alla formazione dei giovani militanti e aderenti al Msi, partecipando ai campi estivi che si tenevano annualmente in Italia settentrionale (San Genesio).

Durante la sua militanza prima nel Msi, poi nel Partito nazionale del lavoro e infine in Nazione sociale, proseguì a supportare le sue tesi politiche connotate da un deciso eclettismo e da una componente culturale multiforme, che sosteneva lo sviluppo dei Nuclei Aziendali di Azione Sociale (Nadas), costituiti all’interno delle imprese dal Msi, subito dopo la nascita del partito, avvenuta il 26 dicembre 1946. Tali organismi dovevano riunire imprenditori e maestranze in un rapporto di collaborazione reciproca, in funzione del bene superiore della nazione, con evidenti analogie con la forma di governance della compartecipazione (Mitbestimmung), applicata con successo in Germania a partire dal secondo dopoguerra.

Andrea Perrone 

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX, pp. 173-177.

Per approfondire:

a Ernesto Massi è dedicata la sezione monografica Ernesto Massi tra geografia e politica in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX, pp. 9-183, con contributi di Arrigo Bonifacio, Michele Pigliucci, Andrà Perrone, Lorenzo Salimbeni, Gianni Scipione Rossi, Rodolfo Sideri, Gaetano Rasi.