Le guerre viste da un ospedale da campo: dalla Libia a Caporetto

Filippo Petroselli, Ospedale da campo. Memorie di un medico cattolico, dalla guerra di Libia a Caporetto, a cura di Gianni Scipione Rossi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017

// La personalità di Filippo Petroselli è stimolante, complessa. Si articola attraverso diversi livelli identitari. È infatti un medico, un cattolico, è originario di Viterbo, la Città dei Papi. È un patriota che ama l’Italia, il suo paese, e che vive i turbolenti primi decenni del 900 dai quali è coinvolto in prima per- sona, come medico militare e come attivista politico, prima nel Partito Popolare Italiano e poi nella Democrazia Cristiana. È anche uno scrittore, un romanziere stimato. I suoi pensieri, le sue riflessioni, i suoi sentimenti sono, ovviamente, il riflesso del tempo che vive. La sua è la storia di un singolo, la storia di un individuo, ma proprio le sue varie sfaccettature identitarie ci consentono di tratteggiare un esempio, un “idealtipo” più completo. Attraverso la sua figura e il suo sguardo sugli avvenimenti, è possibile seguire da vicino, e meglio, le vicende di allora e come si svilupparono, i cambiamenti che originarono e le mentalità che produssero. È possibile comprendere il percorso esistenziale di un uomo, la maturazione delle sue idee a seguito delle atrocità della guerra.
Petroselli fu medico militare prima in Libia e poi nella Prima Guerra Mondiale. Prende appunti di quelle esperienze. Appunti che rielabora suc- cessivamente, tra il 1920 e il 1921, inediti, praticamente, fino ad oggi. Quello di Petroselli non è un caso singolare: la grande guerra, in particolare, aveva provocato una notevole mole di lettere e diari. Anche per l’armata italiana, se pur in grandissima parte analfabeta, il primo conflitto mondiale si rivelò un’esperienza tanto straordinaria e sconvolgente da sentire il bisogno di raccontarla attraverso epistole, appunti e note.
Fra i due conflitti mondiali è sorta una vera e propria letteratura di guerra, anche se i testi destinati a circolare furono pochi, per il perdurare delle forti limitazioni imposte alla stampa anche dopo la fine della guerra e per la censura messa poi in atto dal regime fascista. Forse è per questo che Petroselli non ha voluto pubblicare il suo diario, dove non ci sono pagine edulcorate o inneggianti il conflitto. La sua scrittura è il riflesso caleidoscopico delle immagini e delle sensazioni a cui hanno dato luogo le sue diverse sensibilità. Non solo: la scrittura si rivela strumento particolarmente efficace proprio per seguire le evoluzioni del suo pensiero sul tema della guerra, che emergono tra l’impresa coloniale e il trauma inferto dall’inutile strage che allontana definitivamente i ricordi esotici di Tripoli.
Quando parte per la Libia, come medico militare, Petroselli ha ventisette anni. La politica italiana coloniale non è mai stata una grande politica, ispirata a chiare e ben determinate direttive, mossa da un grande, o anche piccolo, principio generale coerente con gli ideali, o le ideologie, dei gruppi o partiti al potere. Non ci fu alcun disegno ispiratore, dunque. Ci fu, invece, un fenomeno emotivo prima ancora che politico e strategico. Nasceva allora la così detta “opinione pubblica”, fenomeno incoraggiato dalla campagna di stampa organizzata dai grandi quotidiani. Da qualche anno ormai i nazionalisti italiani auspicavano una guerra. Una guerra a qualunque costo e di qualunque tipo, che servisse a demolire il pacifismo, l’umanitarismo, il democraticismo, l’internazionalismo e tutti quegli ismi, insomma, che, ai loro occhi, stavano avvelenando la vita del paese, succube e depresso da anni da governi considerati deboli, “molli”, senza spina dorsale. Anche gli intellettuali non furono immuni da queste velleità. Si pensi solo a Corradini e a Marinetti (che due anni prima dell’impresa coloniale in Libia aveva pubblicato il suo manifesto futurista), i nomi più illustri, ma anche al Pascoli, che si esprimevano soprattutto attraverso riviste come “Il Regno”.


Il movimento nazionalista andò alla ricerca della “sua” guerra, di una guerra che svegliasse le addormentate energie nazionali. Il movimento era diviso tra la concezione nazionale-irredentista, che mirava alla difesa e al riscatto delle nazionalità italiane soggette ancora all’Austria, e la tendenza imperialistica, abbracciata da Corradini, che vedeva nell’espansionismo coloniale e nella guerra di conquista un “ordine morale” ed un “metodo di redenzione nazionale”. Il 1910 segna la nascita ufficiale del movimento sul piano organizzativo. Si comincia a vedere il prevalere della corrente corradiniana e, da questo momento, possiamo dire, prende le mosse la campagna nazionalista a favore della conquista della Libia, con una martellante azione di stampa condotta per influenzare l’opinione pubblica e fiancheggiata da importanti giornali come “La Stampa”, “Il Messaggero”, “Il Resto del Carlino” e poi, da ultimo, anche “Il Corriere della Sera”. Si potrebbe quasi dire che l’impresa coloniale e, in particolare, la Prima Guerra Mondiale siano sta- te volute e preparate anzitutto dai grandi organi di informazione o, almeno, da una parte di essi. Come disse Gaetano Salvemini, senza il contributo del “Corriere della Sera”, diretto allora da Luigi Albertini, l’intervento dell’Italia nel primo conflitto non sarebbe stato possibile. Era la fase, come si espresse con molta lucidità un altro contemporaneo di allora, Giovanni Amendola, della formazione dell’opinione pubblica, ossia della creazione dei motivi determinanti di una decisione.
La propaganda nazionalista cercò di infiltrarsi in ogni manifestazione della vita pubblica nazionale, ove fosse possibile inserire in qualche modo la questione tripolina. Sia in D’Annunzio che in Pascoli ci troviamo di fronte ad una stessa matrice di ispirazione nazionalistica, che in Pascoli si colorava di un vago umanitarismo, ma che, in concreto, offriva argomenti alla predicazione nazionalista. Il soldato italiano, il soldatino come lo chiamava Pascoli, fu al centro di questo grande battage che venne creato attorno all’impresa giolittiana, fra letteratura, giornalismo, pubblicistica e perfino cinematografica alle sue prime esperienze. Il soldato fu oggetto di storie mitiche ed eroiche, drammatiche e romantiche. Il paese si trovò, insomma, allo scoppio della grande guerra con un apparato di slogans e di temi già sperimentato e collaudato ampiamente.
Come s’è detto, Petroselli era un cattolico e un patriota. Non era, però, un nazionalista. Amava la sua patria e, coinvolto nel clima culturale dell’epoca, non fu estraneo ai richiami alle crociate che l’impresa libica suggeriva. Come non era estranea in lui la commozione a sentir parlare degli alpini, tra romanticismo e retorica dell’epoca:
<Fu allora che conobbi gli alpini. Italiani! Inchiniamoci a questo nome. Suona così grande! Vuol dire: valore, sacrificio, generosità, lavoro, bontà, tenacia, amore di patria. Grandi e buoni alpini, ben piantati sui polpacci gonfi dell’acciaio.>
Sono sentimenti che forse, se presi singolarmente, perdono di efficacia, ma che, se valutati assieme come un tutto, ci rendono più facile il compito della comprensione. C’era la patria con la sua retorica e il suo romanticismo, appunto, e poi c’erano la fede e la religione. Richiami sacri e profani convi- vevano e accanto al ricordo delle crociate affiorava quello della grandezza della Roma imperiale:
<Le lagrime mi velarono gli occhi quando, a sera, la fanfara intonò da prua e dominò le deserte vastità del mare e del cielo. L’inno si svolse lento, maestoso come la cadenza del vostro (degli alpini) passo potente e ferrato… (il piroscafo) avanzava sovrano nell’Ave-Maria cantata dalla fanfara: canto fermo nella Cattedrale che aveva per cupola il cielo e per lampade le prime stelle. A prua era la santa immagine della Patria.>
C’era l’entusiasmo per i propri soldati quando riuscivano vittoriosi nelle battaglie, come in quella di Ettangi, alla fine di maggio del 1913:
<Come i Crociati in vista di Gerusalemme, ognuno ha le ali al cuore, ali ai piedi. L’entusiasmo serpeggia tra le file. Gli ascari son frenati a stento dagli ufficiali.>
Ma subito dopo, Petroselli annotava:
<Il velo misterioso s’è alzato. Ettangi è solo un nome ed un pianoro rossiccio. Desolazione e deserto a perdita di vista.>

E, ovviamente, c’era l’orrore che riportava alla realtà:
<è il primo morto… altro ferito… è una ferita di striscio. Lo disinfet- tiamo con la tintura di iodio, il sanguigno disinfettante della guerra moderna. Ne ho a tracolla una fiasca. Tintura d’odio. Così spesso la chiamano i soldati analfabeti; ma fabbri inconsapevoli di una più veritiera parola…>
Un lavoro febbrile è cominciato. Il medico in battaglia non è infuocato dall’ardore del combattente… «Qui no, qui si vedono i tristi effetti del furore dell’uomo divenuto bestia. Occorre freddezza, calma, umanità per amici e nemici. Non è fascino di gloria o di morte, non c’è impeto di sangue». E ancora, più avanti nel diario, Petroselli ricorda la cattura e la tortura di un soldato turco:
<Brutta roba la guerra! La scena divenne ripugnante. Urlai, minacciai, cercai di convincerli che dopo tutto quel disgraziato difendeva la sua patria. Gli alpini, tra brontolii e sordi bestemmioni, mollarono. Gli ascari, inferociti per la morte del compagno, non volevano sapere di clemenza.>
Quel disgraziato difendeva la sua patria: un’espressione carica di significato. Indica le ragioni degli uni e degli altri, la validità, per chi le fece, di quelle scelte, a fianco della propria patria. Indica anche, forse, una maturazione ancora da venire: si vuole riscattare il compagno morto per orgoglio e il soldato turco è, appunto, considerato un soldato, non una persona. Il fattore umano deve ancora emergere. Ci penserà il primo conflitto mondiale e, ancor di più, il secondo, con i suoi cinquanta milioni di morti, a far cadere definitivamente la distinzione, adottata dalla Chiesa, tra belligeranti e civili. Ma già la Prima Guerra Mondiale, come poi riconobbe anche Sturzo, che pure ne era stato un sostenitore, così come aveva sostenuto l’impresa coloniale libica, dimostrò l’impraticabilità della dottrina della guerra giusta, tesa a moralizzare il ricorso alla forza armata. La Prima Guerra Mondiale fu una guerra secolare non riconducibile ad alcun riferimento religioso e la Chiesa non fece alcun ricorso a tale dottrina. I cattolici, infatti, vi aderirono per le ragioni patriottiche dei propri paesi. Anzi, con Benedetto XV, e con la sua nota definizione del conflitto come inutile strage, iniziava ad incrinarsi il concetto di guerra giusta. Si avviava, così, all’interno della cultura cattolica, il difficile cammino che avrebbe trovato esito nell’inammissibilità del ricorso alla religione per giustificare l’impiego delle armi (ricorso che aveva consentito di ricondurre i conflitti all’interno della morale cattolica) e poi nel riconoscimento della prassi della non violenza come criterio su cui costruire l’ordine giuridico della società. Con Benedetto XV era stato compiuto un decisivo passo avanti per sottolineare quel nesso inscindibile tra religione e pace che inevitabilmente finiva per gettare interrogativi sulla possibilità di una legittimazione della guerra da parte della Chiesa. Già durante il primo conflitto, tra l’altro, era in discussione la legalizzazione dell’obiezione di coscienza. I soldati di ritorno dalla Libia, come annota Petroselli, erano guardati con rispetto e devozione, circondati da un’aurea di sacralità, complici, anche, i reportages della stampa assolutamente lontani dalla realtà. Non fu così per i soldati di ritorno dalla Prima Guerra Mondiale. Il primo conflitto segna una cesura. Il registro stilistico della scrittura di Petroselli cambia, come si può osservare sin dalle prime frasi del suo diario. Non si lasciò prendere dall’entusiasmo irrazionale e, con una consapevolezza che non tutti i contemporanei seppero dimostrare, scriveva:
<Nessun canto… C’è la guerra che guarda… C’è molto artifizio. Entusiasmo non c’è… Leggiamo sui giornali, che Giolitti a Roma, perché dice d’andar cauti, di veder chiaro prima di giocar la carta e forse dannar l’Italia, è vilipeso, sputacchiato, accaneggiato… Lontano già brontola il cannone… C’è della gente in buonissima fede che crede la durata della guerra appena di due mesi… è moneta corrente. Guai a contraddirli! Chi osa, timidamente, osservare qualcosa che logica ed onestà suggeriscono, è jettatore, gufo, vigliacco e nemico della patria… E poi, a chi giova? Ormai il freno è spezzato, siamo sulla china.
Ancora si trovano i toni aulici e retorici, ancora si rammentano Sparta e Roma:
Da una fenestrella ammiro i fanti che salgono all’attacco. È uno spettacolo sublime. Ogni fibra mi trema d’orgoglio. È una visione di Sparta e di Roma. Ma il trauma inferto dalla grande guerra è diverso.>

All’entusiasmo, si affianca la pietas cristiana e il termine famiglia, ad indicare il rapporto coi soldati e col reparto, ritorna più volte in questa parte del racconto, a differenza della prima, sulla Libia, dove il termine non compare. Più che entusiasmo, c’è partecipazione umana.
E poi c’è Caporetto che diventa un simbolo. La disfatta di Caporetto non lascia indifferente nessuno, a prescindere dagli orientamenti politici. Per ognuno diviene simbolo di qualcosa. Per molti, sicuramente, diviene il simbolo del risveglio. Per Malaparte, ad esempio, fu il risveglio del proletariato. Per i nazionalisti e gli irredentisti fu il risveglio del sentimento patriottico.
Apparentemente e temporaneamente la guerra aveva creato un più forte sodalizio e sentimento di fratellanza. Come s’è detto, Petroselli non era un nazionalista. Era un patriota. Quale fu la sua reazione? È interessante leggerla e, quindi, “osservarla dall’esterno”: si avverte un climax, in termini di crescita personale.
Dopo Caporetto, i suoi toni e le sue emozioni sono riconducibili alla patria “offesa e calpestata” e, non a caso, il ricordo va al grande spirito di Garibaldi di fronte al quale Petroselli si commuove. E pure, la ferita di Caporetto è il salasso, che apre gli occhi ed infiamma il cuore d’Italia. A proposito di un alpino che esclama “Resistere dovemo e anca forse copar par l’Italia, no se pol tirarse in drio!” commenta:
<Segni dei tempi. È la prima volta che sentiamo parlar così. È il primo benefico effetto della disfatta… Caporetto ha stappato il cerume a molti orecchi, ha sollevato le cataratte a parecchi occhi, ha forse sve- gliato qualche cuore…
Il soldato non è più soltanto la bestia da soma e da sangue…
Timidi e valorosi, audaci e spavaldi, malaticci o feriti. Sentono la Patria che li chiama a gran voce. In ogni sguardo brilla una nota della Mar- sigliese. È la prima volta che la loro fronte è lucente. C’è la volontà di vincere o di morire. C’è l’offerta del corpo e dell’anima, c’è l’orgoglio, c’è la fede, c’è la sicurezza nello sguardo e nel cuore. Sentono premere sul petto il tallone straniero che, al di là del fiume, calpesta la patria.>
Ma poi, con toni feroci che erano stati assenti dopo l’esperienza in Libia, scriveva:
<La guerra non purifica. È una menzogna! La guerra è una melma che tutto copre e tutto imputridisce.>
E concludeva:
<Ma ora che il bavaglio è stato tolto, vorrà l’Italia una buona volta, udire la verità, la verità vera, quella che noi italiani non vogliamo mai udire.>

Caporetto è il contesto drammatico che, più di altri, porta alla luce quel caleidoscopio di sentimenti e ragioni di cui s’è detto: la patria, la fede, l’orgoglio, le atrocità del conflitto, e che porta altresì ad una lenta maturazione, in Petroselli come in tanti altri cattolici, tra i quali il già citato Sturzo, dal con- cetto di guerra come castigo di Dio al concetto di guerra come evento frutto del libero arbitrio dell’uomo che costringe, perché elemento imprescindibile, ad una decisa valorizzazione del concetto di persona, come soggetto morale con una propria dignità, anzitutto, come individuo responsabile dei propri atti e come luogo di conciliazione fra l’uomo e il patriota. Avrebbe scritto Sturzo nel ‘41: «Sento tutta la ripugnanza spirituale dell’olocausto di milioni di giovani… Anche se essi siano tutti convinti nazisti e comunisti, il che è assai dubbio, essi sono uomini come noi, hanno un’anima come la nostra; la loro morte ci deve contristare e perché uomini e perché cristiani… Non potremmo mai renderci conto delle vie della Provvidenza se non partiamo da un principio indiscusso che Dio, permettendo il male, perché rispetta la nostra libertà di agire, ne fa motivo di bene per coloro che ascoltano la voce e adempiono la sua volontà» (Le vie della Provvidenza, in “Commonweal”, New York, 21 novembre 1941). Il male, allora, non è più un castigo divino, e può diventare occasione di riflessione e di miglioramento.
La guerra è finita. «Il reparto si scioglie. Quattro anni di pene comuni, quattro anni di famiglia… Abbiamo trovato il mondo sconvolto, la parola coscienza cancellata dal vocabolario». Il diario di Petroselli si inserisce nel filone letterario della letteratura di guerra, che conta circa 1.500 opere pub- blicate. A cosa può servire questa ulteriore testimonianza? Ci sono momen- ti della storia particolarmente difficili da comprendere, perché complessi e perché molto lontani dal nostro presente. Qui si sono accennati solo pochi aspetti dei tanti che caratterizzarono quei primi decenni del ‘900, decenni così intensi in cui nacquero le grandi idee e la loro circolazione coinvolse un numero sempre maggiore di individui. Le grandi sintesi in questi casi non ci vengono incontro nel nostro sforzo di comprensione. Al contrario, è la cronaca minuta, la storia del singolo, di ogni singolo, a darci tutte le sfumature necessarie a comporre il contesto in cui si svolsero gli eventi e in cui uomini e donne si trovarono ad agire. Ecco, allora, che anche la storia di Filippo Petroselli è l’utile tassello di questa composizione.

Maria Chiara Mattesini

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX