Il fallimento dei «101». Il Pci, l’Ungheria e gli intellettuali italiani.

Alla fine dello scorso ottobre è stato pubblicato per i tipi della casa editrice Liberal un volume di Valentina Meliadò che ripercorre brevemente ma rigorosamente, nell’anno del loro cinquantesimo anniversario, i drammatici eventi della rivoluzione ungherese e la situazione internazionale in quel lungo autunno del 1956. L’autrice si sofferma poi approfonditamente su come quei fatti vennero recepiti dalla sinistra italiana, dall’allora dirigenza del Pci guidata da Togliatti, e soprattutto dal mondo intellettuale vicino al Partito Comunista italiano. Dal dopoguerra il Pci aveva lavorato duramente per raccogliere intorno a sé tutte le energie e le risorse intellettuali del Paese. Gli intellettuali, dal canto loro, nelle incertezze di quello stesso periodo, intravidero l’opportunità di poter lavorare per una causa giusta quale quella del proletariato, i giovani, mentre i più maturi, quanti magari avevano militato addirittura tra le fila dell’intellighenzia del fascismo, avrebbero avuto modo di riscattarsi dal loro passato, convertirsi alla causa socialista e mettere a disposizione di quest’ultima le loro potenzialità. Avvenne così che una cospicua moltitudine di intellettuali – registi, giornalisti, storici, poeti, scrittori, professori – si avvicinò al Pci; molti ne divennero militanti a tutti gli effetti, con regolare tesseramento. Approdati nel Pci, gli intellettuali si adattarono presto alla rigida, severa e puntuale osservanza della linea del Partito, nella più fedele obbedienza ai dettami gramsciani. Gli intellettuali che dunque erano stati allevati dal Pci secondo il principio che l’Unione Sovietica era la terra della libertà, che l’Occidente capitalista era l’oppressore delle masse e dei popoli, che l’Urss era infallibile, che il Pci era infallibile, ricevettero almeno tre pugni allo stomaco durante il convulso 1956. Dapprima il XX Congresso del Pcus, con la condanna dello stalinismo da parte di Kruscev, quindi la rivolta di Poznan nel giugno e la rivoluzione ungherese a cavallo fra ottobre e novembre, con la sanguinosa repressione armata per mano sovietica, ed infine l’atteggiamento, la posizione, il ruolo assunti dalla dirigenza del Pci e quindi dal Pci stesso.

Quando Togliatti appoggiò l’intervento armato sovietico in Ungheria, tutte le illusioni, le utopie, i sogni degli intellettuali comunisti andarono in frantumi. Fu a quel punto che alcuni fra i nomi più altisonanti della cultura italiana comunista si svegliarono dal sonno dogmatico in cui avevano vissuto fino a quel momento; molti si riebbero dal torpore ideologico in cui il Partito li aveva accuditi e cresciuti; molti compresero ciò che davvero era il comunismo, ciò che davvero era l’Unione Sovietica, ciò che davvero era il Pci. Fu redatto il «Manifesto dei 101», la cui storia è magistralmente narrata dalla Meliadò con ampi brani di interviste ai personaggi che allora vi presero parte.

Intellettuali del calibro di Renzo De Felice, Piero Melograni, Natalino Sapegno, Lucio Colletti, Luciano Cafagna, Antonio Maccanico, Alberto Asor Rosa, Paolo Spriano, solo per citare alcuni fra i più rinomati, si opposero alla linea togliattiana aderendo al «Manifesto dei 101». La crisi fra il Partito e le sue stesse creature era ufficialmente aperta. Alla fine molti intellettuali lasciarono il Pci; con il passare del tempo, non militando più nei ranghi del Partito, vennero screditati proprio per la loro attività intellettuale non più sottomessa alle logiche ed ai dettami del Pci; il caso di Renzo De Felice ne rappresenta una nota e triste riprova. Gli intellettuali si erano sciolti dal vincolo gramsciano e dunque avevano perduto a un tempo la loro appartenenza alla lotta socialista e la legittimazione all’attività intellettuale. Se ci si distacca dalla linea del Partito si perdono tutte le prerogative, le libertà, le legittimazioni, così come era avvenuto nei rapporti fra lo stesso Antonimo Gramsci e Palmiro Togliatti decenni addietro, quando il Migliore era a Mosca alla corte di Stalin e Gramsci in carcere.

Il volume della Meliadò ripercorre i fatti di quei drammatici giorni, le conseguenze che da essi discesero e le alterne vicende di un mondo culturale, soggiogato al dispotismo ideologico del socialismo reale italiano, altalenante fra la spinta di indipendenza, la condivisione ideologica e la ricerca di un assetto che potesse davvero qualificarlo come meno organico e più autenticamente intellettuale.

ALDO VITALE
su “www.ragionpolitica.it”, 23 novembre 2006.