Le ragioni di un “cattivo maestro”.

In occasione dello storico viaggio in Israele, Gianfranco Fini lo ha ufficialmente espunto dal Pantheon degli intellettuali di riferimento della destra italiana che si riconosce in Alleanza Nazionale. Eppure Giulio Cesare Andrea “Julius” Evola (1898-1974) ha rappresentato per anni una sorta di icona del radicalismo interno o contiguo al Msi. E ancor oggi, probabilmente, conserva una certa influenza nei circoli politico-culturali del radicalismo di destra. Erudito eclettico e un po’ criptico, Evola ha legato il proprio nome al mito e alla fascinazione di un “razzismo spirituale”, di un razzismo “mite”, distinto da quello nazista e in fin dei conti quasi “accettabile”. Una vulgata che ha interessato non solo ambienti fortemente ideologizzati ma che ha sfiorato anche storici come De Felice. Nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, parlando di Evola, lo studioso reatino appare “eccessivamente benevolo”, riconoscendogli di aver respinto “ogni teorizzazione del razzismo in chiave esclusivamente biologica”. Un giudizio morbido e tutto sommato assolutorio – poi assente nella successiva biografia di Mussolini – che conferma la confusione ingenerata dalla teoria spiritualistica evoliana.

Sulla leggenda evoliana delle “razze dell’anima” interviene ora un interessante saggio – denso d’informazioni ma al contempo di agile lettura – di Gianni Scipione Rossi (Il razzista totalitario. Evola e la leggenda dell’antisemitismo spirituale, Rubbettino, pp. 126, € 9). Con accuratezza, l’autore mette in evidenza i limiti, la dissimulazione e la contraddittorietà – a volte palese, ma spesso occultata da luoghi comuni d’origine ideologica – del pensiero evoliano. Viene offerta, in sostanza, un’utile guida all’esegesi di Evola. Uno strumento che aiuta a leggere le opere di un “cattivo maestro” consapevolmente, distinguendo “il grano dal loglio”. Sgombrando il campo da suggestioni e “fumogeni lessicali”, il saggio ha dunque anche un valore pedagogico oltre che propriamente euristico.

Con buona pace degli “evolomani”, Rossi smaschera, innanzitutto, la pretestuosa e perversa distinzione tra razzismo tout court e antisemitismo, separazione capziosa ancora piuttosto diffusa tra le estreme, tanto a destra quanto a sinistra. “La posizione radicalmente razzista/antisemita di Evola – scrive – appare una costante della sua dottrina. Anzi, (…) può essere definita come uno dei cardini fondamentali del suo pensiero”. Quella evoliana non è, pertanto, “solamente” una “parentesi razzista”. È, al contrario, una costruzione teorica originale, autonoma, almeno inizialmente, dal razzismo fascista. Per Evola, spiritualista pagano e antimoderno, la storia è una sequenza involutiva di cadute successive: in origine sarebbe esistita una razza “superiore e anteriore a tutte le altre”, una “superrazza” ario-nordica in rapporto paritario col divino e “naturalmente predestinata al comando”. Solo alla fine degli anni Trenta, “desideroso di protagonismo e di integrazione nell’ufficialità del fascismo”, Evola – non iscritto al Pnf e sostanzialmente estraneo al regime – interviene nel dibattito razzista iniziando a collaborare a La difesa della razza. Nel 1941, Evola auspica che il fascismo possa determinare la nascita di una razza “nuova e antica a un tempo – che ben si potrebbe chiamare razza dell’uomo fascista o razza dell’uomo Mussolini”. Quello di Evola è un razzismo “totalitario” ed “esigente”. Curatore della traduzione italiana de I Protocolli dei Savi Anziani di Sion (1937) – di cui sostiene se non la veridicità almeno la “verosimiglianza” – Evola definisce l’ebreo “una specie di pericoloso paria etnico”, “l’antirazza per eccellenza”. Una posizione, quella razzista/antisemita, salda e priva del ben che minimo segno di resipiscenza.

Ancora nel dopoguerra, dopo essersi avvicinato al nazismo e alle SS, il pensatore romano sostiene l’apartheid, arrivando a proporre agli USA di “sgombrare dai bianchi uno degli Stati minori dell’Unione per mettervi tutti i negri statunitensi a che si godano la loro négritude”. Pur esercitando una grande attrazione culturale, Evola rimane ai margini del Msi. E la breve collaborazione a Il Secolo d’Italia (tra il 1952 e il 1953, e nel 1964) non modifica questa condizione. Il “frequentatore dei Castelli delle SS” arriva perfino a scontrarsi con Almirante, “reo” di aver rinnegato il razzismo fascista nel corso di una Tribuna politica televisiva.

Prendendo le mosse sempre da Evola, Gianni Scipione Rossi conclude il proprio saggio con un Post Scriptum decisamente godibile, nel quale affronta la questione dell’inclusivismo e dell’inclusività della destra, un tema all’ordine del giorno, attorno al quale – spesso – non mancano banalità. Se il pensiero evoliano continua ad affascinare e a “persistere”, conclude in sostanza l’autore, lo si deve tanto all’“ipertrofia della sindrome da ghetto procurato”, consustanziale alla destra italiana, quanto al timore di artisti ed intellettuali di dichiarare le proprie simpatie politiche (di destra). Se anche Mogol e Buzzanca fanno del “nicodemismo”, Evola continuerà immancabilmente ad avere i propri estimatori.

LEONARDO VARASANO
su «Il Giornale dell’Umbria», 8 aprile 2007