La verità infoibata.

In un libro di Marino Micich e Augusto Sinagra tornano alla luce le responsabilità del Pci nei crimini compiuti nelle province orientali italiane nell’immediato dopoguerra. Dai fatti del’45 all’abiura di Tito nel’48.

Tre campioni incrollabili dell’anticomunismo, Amleto Ballarmi, presidente della Società di Studi fiumani, Marino Micich, direttore dell’Archivio Museo storico di Fiume, e Augusto Sinagra, professore di diritto dell’Unione Europea all’Università “La Sapienza” di Roma, hanno unito le proprie capacità, le proprie documentazioni e le molte carte scovate in anni e anni di ricerche per dare alle stampe un libro che fa luce completa sulle complicità del Pci nei crimini compiuti nelle province orientali italiane nell’immediato dopoguerra, il libro, che s’intitola La rivoluzione mancata (Koinè, www. edizionikoine. it, 160 pagine, 12 euro), inchioda alle proprie responsabilità il Partito comunista italiano dalle stragi del 1945 all’abiura di Tito nel 1948. Significativamente, in copertina campeggiano ì ritratti dei due massimi protagonisti dì una vicenda che ha causato tanto dolore e ha fatto versare tanto sangue innocente: Iosif Broz, “Tito” e Palmiro Togliatti, “il Migliore”.

Tutto parte da un documento inoppugnabile: le istruzioni scritte consegnate da Togliatti il 19 ottobre 1944 al suo rappresentante presso Tito, Vincenzo Bianco. Vi si poteva leggere tra l’altro: «Noi consideriamo come un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci, e che in tutti i modi dobbiamo favorire, l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito, Questo significa che in questa regione non vi sarà né un’occupazione inglese, né una restaurazione dell’amministrazione reazionaria italiana (così Togliatti definiva il governo Bonomi, di cui pure faceva parte! n. d. r.), ma una situazione profondamente diversa da quella che esiste nella parte . libera dell’Italia». E così proseguiva: «Questo vuoi dire che i comunisti devono prendere posizione contro tutti quegli elementi italiani che agiscono in favore del nazionalismo italiano».

Un documento allucinante. Da condanna a morte alto tradimento in base alle leggi allora vigenti. Subito dopo Eduard Kardelj, il braccio destro di Tito, in piena sintonia con Togliatti, inviava la seguente comunicazione allo stesso Vincenzo Bianco: «Bisogna fare un repulisti di.tutti gli elementi imperialisti e fascisti che si possono nascondere nelle unità partigiane».

Ecco da dove ebbero origine le efferate stragi di partigiani monarchici compiute in Veneto dai boia col fazzoletto rosso al collo, a cominciare da quella di Porzus, immortalata nel boicottatissimo film di Renzo Martinelli, Ed ecco perché.- come scrivono gli autori del libro – «a guerra finita, i fascisti e i nazisti che finirono nelle foibe istriane furono una esigua minoranza. Subirono quella sorte cattolici contrari all’ateismo comunista, democratici che non intendevano tradire la propria italianità, possidenti che non volevano farsi spogliare dei loro beni senza fiatare, operai che credevano di poter scegliere con il voto il proprio destino».

Ma c’erano solo elementi iugoslavi fra i promotori di quell’orgia di sangue? No, purtroppo. A volte – come documenta il lavoro di Ballarini, Micich e Sinagra – gli italiani comunisti superarono i maestri. A Trieste, una banda, detta “del Gobbo”, dopo arresti, perquisizioni, furti e violenze di ogni genere, il 23 maggio 1945 caricò su un camion 18 detenuti e li infoibò nell’abisso Plutone, a Basovizza.

«Nel gennaio del ’48, la magistratura italiana stabilì che tale Nerino Gobbo era il capobanda che aveva diretto l’operazione. Condannato all’ergastolo? Ma per carità. Diventerà presidente dell’Unione degli italiani rimasti in Istrìa e a Fiume, nonché deputato al Parlamento di Lubia na. Non sconterà mai alcuna pena. I reati da lui commessi, grazie all’amnistia Togliatti, verranno cancellati. La stessa amnistia di cui si avvarrà, oltre mezzo secolo dopo, la Corte d’assise di Roma per non comminare alcuna pena a Oskar Piskulic, uno dei capi dell’Ozna di Fiume. La stessa amnistia che lascerà a piede libero gli autori degli orrendi delitti del triangolo della morte».

E poi, ancora oggi,,si continua a leggere che quell’amnistia fu voluta,in nome del perdono verso i fascisti. Che pena! Dal libro si ricava anche che gli assassini comunisti fuggiti dall’Italia e divenuti cittadini Iugoslavi furono 70 a Fiume, 200 a Zagabrja, 145 a Sarajevo e un numero imprecisato di altri sparsi in località diverse.

Ma una tragica beffa era in agguato per molti di questi criminali. Troppo a lungo persuasi dell’infallibilità.di Stalin, e fermi in questa convinzione, ritenevano che il Partito comunista Iugoslavo, che nel’48 aveva preso le distanze dall’Urss, fosse in errore. Ben presto arrivarono le retate dell’Ozna. Bastava una mezza frase detta ad un vicino di casa per far scattare le manette. Come ricostruiscono gli autori del libro, prima che si arrivasse al processo, nel 1952, furono ufficialmente arrestate a Fiume 24 persone per sospetta cospirazione “cominformista”. Quante poi siano state segretamente incarcerate o inviate nei micidiali campi di lavoro forzato e di rieducazione all’interno della Jugoslavia, non si è mai saputo. L’accusa, nel processo fiumano, fu gestita da Ivan Motika, noto in Istria e a Fiume per lo zelo antitaliano e la sua attività persecutrice, con e senza processi, in un regime che alternava aule di tribunale zeppe di attivisti a foibe piene di cadaveri e campi di lavoro che ricordavano i campi di sterminio delle Ss naziste.

Impossibile non citare quanto scrive, nel capitolo da lui curato, il noto giurista e già consigliere di Corte d’Appello Augusto Sinagra.;’«È qui documentata la conoscenza, da parte di Togliatti e.-degli altri dirigenti del Pci, delle sistematiche e pianificate atrocità poste in essere dalle bande agli ordini del Maresciallo. Tito in danno della popolazione italiana senza distinzione alcuna tra civili e militari, tra uomini e donne, tra bambini e adulti, tra laici e religiosi, e senza distinzione alcuna di ceto sociale o di appartenenza politica o ideologica. Furono uccisi operai e possidenti, cattolici e liberali, comunisti, socialisti, e autonomisti.

Tutti però uniti da un comune denominatore: erano italiani. Ed ecco perché, sotto tale prospettiva e per come quei fatti, quegli eccidi, furono consumati, la complessiva vicenda, voluta e promossa da un ben preciso e preordinato disegno politico, anche in ragione dell’enorme numero delle vittime, non può non trovare qualificazione e collocazione nella fattispecie normativa del genocidio».

A questo punto, s’impone la conclusione che, con assoluta logica, ha tratto Marcello Veneziani, – nella prefazione da lui scritta al libro di Ballarini, Micich e Sinagra: «Abbiamo il diritto di sapere che fine hanno fatto i processi postumi che furono avviati contro gli infoibatori e gli altri assassini, da Piskulic in poi. Tutti arenati, dopo che fu tolta al magistrato Giuseppe Pititto l’indagine scottante. Ma non solo. Migliaia di pensioni vengono ancora versate dallo Stato italiano agli infoibatori, grazie non solo al vergognoso trattato di Osimo del 1975, ma grazie soprattutto ad una circolare emanata dalla ex partigiana ed ex ministro Tina Anselmi. Viceversa, le famiglie degli infoibati e dei profughi aspettano ancora giustizia e spesso non hanno ricevuto un soldo da nessuno, slavi o italiani. Esempio atroce, 630 bersaglieri della Rsi, arresisi con la garanzia della loro incolumità, ma barbaramente uccisi. E, in quanto militari della Rsi, i superstiti e i familiari dei morti non ebbero mai alcuna pensione. Gli infoibatori sì, gli infoibati no. Una vergogna».

LUCIANO GARIBALDI
in «Secolo d’Italia», 21 dicembre 2006