Evola, i due volti dell’antisemitismo all’italiana.
Durante il fascismo furono molti gli uomini di cultura che accettarono la politica del regime contro gli ebrei, spesso vedendo in essa, come ha scritto Renzo De Felice, un’occasione «per mettersi in mostra, fare carriera, fare danaro, per sfogare i loro rancori contro questo o quel loro collega». Furono pochi, però, gli intellettuali che condivisero davvero l’ideologia antisemita, come Julius Evola che, vissuto fino al 1938 abbastanza ai margini del regime, cercò di fondare una «dottrina della razza» diversa, a suo dire, da quella di Hitler perché basata non su elementi «biologici» ma «spirituali».
Eppure nonostante ciò, nonostante Evola sia stato uno dei più convinti antisemiti italiani, proprio a lui ha continuato a guardare dopo il 1945 una parte, minoritaria ma significativa, dell’estrema destra italiana, affascinata dal suo pensiero radicalmente antimoderno, guazzabuglio teorico a base di decadenza dell’Occidente, Tradizione (con la maiuscola), esoterismo, religioni orientali.
Ciò è potuto avvenire appunto attraverso la preliminare minimizzazione dell’antisemitismo evoliano, considerato per un verso come una esperienza terminata con il 1945, per l’altro come una teorizzazione che poco o nulla avrebbe avuto a che fare con l’antisemitismo di Mussolini e di Hitler. Entrambi questi assunti sono efficacemente criticati da Gianni Scipione Rossi, in un saggio dedicato appunto all’antisemitismo di Evola (Il razzista totalitario, Rubbettino editore). Sulla prima questione, l’autore documenta come Evola non abbia mai preso le distanze, dopo il 1945, dai propri scritti antiebraici, continuando a rimanere fedele a posizioni razziste: ancora nel 1969, in un articolo sul Borghese formulava l’incredibile proposta che gli americani risolvessero il problema razziale sgomberando «dai bianchi uno degli Stati minori dell’Unione per mettervi tutti i negri statunitensi». Quanto alla seconda questione, cioè alla pretesa evoliana di avere elaborato un antisemitismo solo o essenzialmente «spirituale», e perciò si sostiene meno infamante, Rossi la definisce puramente e semplicemente una leggenda, alimentata ad arte dai seguaci, ma priva di qualunque effettiva consistenza.
È indicativa, al riguardo, la stessa parabola percorsa da Evola che, partito da un atteggiamento di superiorità nei confronti dell’antisemitismo nazista (non perché antisemitismo, si badi, ma perché fondato su basi teoriche a suo avviso troppo «banali »), avrebbe poi visto nelle SS «una nuova nobiltà politica razzialmente, moralmente e spiritualmente selezionata», destinata a fondare una nuova civiltà.
Per Evola, non esistendo più razze pure, si trattava di valutare gli «incroci» per la percentuale di «arianità» che contenevano; senza alcuna possibilità che gli appartenenti a una razza «inferiore» potessero elevarsi fino a una razza «superiore». Un razzismo dunque, il suo, non meno determinista di quello a sfondo biologico. Del resto, si può ben dire che ogni corrente e ogni tipo di antisemitismo ha sempre preteso di fondarsi anche su elementi «spirituali», sostenendo di colpire gli ebrei sulla base dei valori negativi dei quali li riteneva portatori. Fino al punto, messo di recente in luce da Francesco Germinario in un saggio dedicato all’immaginario antiebraico (sull’ultimo numero della rivista Il presente e la storia), che tanti antisemiti di fine Ottocento mostravano di odiare gli inglesi quanto e più degli ebrei, perché li consideravano appunto la personificazione di quei valori l’ideologia del profitto, il liberalismo individuati come la quintessenza «spirituale» dell’ebraismo. Visto in questa luce, confrontato con le tante citazioni di antisemiti che avevano giudicato gli inglesi «più ebrei degli ebrei stessi», appare evidente come l’antisemitismo cosiddetto spirituale di Evola non avesse alcuna particolare originalità.
Del resto, fu Evola che scrisse nel 1937 la prefazione a un concentrato dei principali luoghi comuni antisemiti come i Protocolli dei savi anziani di Sion, il famigerato testo fabbricato anni prima dalla polizia zarista per mostrare l’esistenza di una cospirazione ebraica volta alla conquista del mondo. Vi scriveva tra l’altro: «Fosse pur falso il documento (cioè i Protocolli), non esistesse pur quella congiura metodicamente organizzata di cui esso parla, resta purtuttavia che essa è come se fosse davvero esistita». All’epoca era già stato accertato che si trattava di un falso, ma questo evidentemente per Evola come per ogni antisemita non aveva alcuna importanza.
GIOVANNI BELARDELLI
Su «Corriere della Sera», 28 marzo 2007