Constant, la maledizione d’essere un profeta.
Proviamo solo per un momento a immaginare che Tocqueville, dopo avere scritto un’opera fondamentale come La democrazia in America, decidesse di lasciarla nel cassetto, e che questa venisse poi pubblicata, invece che tra il 1835 e il 1840 (come effettivamente fu), oltre un secolo e mezzo dopo. Ebbene, è precisamente un fatto del genere che si è verificato nel caso di Benjamin Constant, il quale terminò nel 1806 un grande trattato politico senza darlo mai alle stampe. Questa circostanza, a prima vista sorprendente, una sua spiegazione ce l’ha, come racconta Stefano De Luca nell’introduzione all’edizione italiana dell’opera fino a poco tempo fa ignota, i Principi di politica (Rubbettino, pagine 570, euro 38). Nel 1806 il testo era ovviamente impubblicabile per i suoi riferimenti al regime bonapartista; anche dopo la caduta di Napoleone, però, Constant preferì dare invece alle stampe testi di più immediato intervento politico, per i quali attingeva regolarmente al grande trattato inedito: si è calcolato che il 45% dei Principi di politica venisse riciclato, per così dire, proprio in questo modo, compreso il celebre discorso del 1819 sulla libertà degli antichi e dei moderni che stava appunto già tutto nell’opera del 1806. Nel 1815, è vero, pubblicò dei Principi di politica, che però non avevano quasi nulla a che fare con il grande trattato inedito dallo stesso titolo.
Così, anche a causa di questo singolare modo di fare, Constant ha finito con l’essere considerato soprattutto come autore di scritti politici di circostanza oltre che di un celebre romanzo, Adolphe, e dunque un pensatore tutto sommato di secondo piano. Ma la sua scarsa fortuna è dipesa anche da altro: in Francia la storiografia marxista, che ha dominato a lungo la storiografia sulla rivoluzione francese, lo trovava decisamente troppo moderato, troppo «termidoriano». In Italia, analogamente, gli è stata spesso affibbiata l’etichetta di liberale conservatore o peggio: negli anni Settanta, la casa editrice del Pci stampava un testo di Constant, avvisando però – nell’introduzione di Umberto Cerroni – che l’autore difendeva la libertà politica solo come «un privilegio posto a scudo della proprietà privata».
Tzvetan Todorov, presentando l’edizione francese dell’opera, ha osservato come si sia avuta a lungo l’impressione che il pensiero politico europeo dopo la rivoluzione dell’89 vivesse una stagione minore, poiché sembrava non esservi stato alcun testo politico fondamentale dopo i grandi autori settecenteschi (anzitutto Montesquieu e Rousseau) e prima di Tocqueville. Ma, ha aggiunto, proprio con i Principi di politica di Constant è stato finalmente ritrovato l’«anello mancante», che dà un senso nuovo all’intera riflessione politica postrivoluzionaria. Effettivamente, come nota Stefano De Luca, proprio il grande trattato che esce ora in Italia consente di considerare appieno Constant come un autore chiave della modernità politica, colui che per primo aveva capito cosa era andato storto con la rivoluzione dell’89. L’errore decisivo, quello dal quale era poi nato il Terrore, aveva per lui anzitutto un nome: Jean-Jacques Rousseau. E contro Rousseau Constant ingaggiava in quest’opera una delle più straordinarie battaglie teoriche dell’intera storia del pensiero politico.
Per Rousseau l’autorità doveva basarsi sulla volontà generale. E su questo Constant è sostanzialmente d’accordo. Senonché, obietta, fondare il potere sulla sovranità popolare è del tutto insufficiente se, contemporaneamente, a quel potere non vengono fissati dei precisi limiti, se non si definisce cioè una sfera di libertà individuale che nessun potere, neanche il potere che si fonda sulla sovranità popolare, ha il diritto di oltrepassare. Montesquieu, scrivendo cinquant’anni prima della rivoluzione, aveva definito la libertà come «il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono». Ma Constant obietta che anche questo principio appare ormai insufficiente e perfino pericoloso: infatti le leggi potrebbero proibire così tante cose da annullare del tutto la libertà individuale. Può formulare questa obiezione decisiva, che fonda la libertà moderna, appunto perché ha visto all’opera, durante il Terrore giacobino, precisamente un potere democratico senza limiti.
Constant è dunque il primo a capire che il pericolo vero non veniva dai profeti del passato, dai reazionari alla De Maistre, ma dagli apostoli del futuro, dai sostenitori di una democrazia totalitaria e antiliberale, che era stata messa in atto dai giacobini e avrebbe poi avuto parecchi continuatori, non esclusi nel ‘900 i partiti e i regimi comunisti. La via per salvare la rivoluzione, per evitare che sfociasse nella dittatura, consisteva dunque nel separare l’89 dal ’93, ponendo al potere dei limiti invalicabili. Argomentando così, due secoli fa Constant delineava dunque i fondamenti della democrazia moderna, di quella democrazia liberale che – pur senza varcare l’Atlantico come farà Tocqueville – riconosceva all’opera negli Stati Uniti d’America. Scriveva infatti che le riflessioni contenute nei suoi Principi di politica corrispondevano pienamente alla linea di condotta del governo americano quale era stata annunciata dal presidente Jefferson al momento del suo insediamento, il 4 marzo 1801.
GIOVANNI BELARDELLI
In «Corriere della Sera», giovedì 1° marzo 2007