Il fascismo “umano” dei rotocalchi tutto baci e lacrime.

Ancora nel 1958 un rotocalco diffusissimo come «Oggi» poteva intitolare una sua rievocazione della conquista dell’Etiopia così: Faccetta nera è ancora innamorata del soldato italiano di vent’anni fa. Ma a quell’epoca poteva anche dedicare pagine e pagine a ricordare positivamente le trasvolate atlantiche di Italo Balbo, oppure a tracciare la biografia di questo o quel gerarca (magari definendolo pudicamente «uomo politico del tempo fascista»). Quanto a Mussolini, a rievocarne la figura in termini non proprio negativi pensarono soprattutto le memorie (a puntate) di donna Rachele, che mostravano fin dal titolo – Benito il mio uomo – l’intenzione di presentare il dittatore in una chiave privata e «umana». A rivelare quanto ampiamente e a lungo abbia circolato in Italia, dopo il 1945, una simile immagine, indulgente e benevola, della dittatura fascista è ora il bel libro di una giovane studiosa, Cristina Baldassini, non a caso intitolato L’ombra di Mussolini (Rubbettino, pp. 343, euro 18).

Attraverso lo spoglio di riviste a larga diffusione come «Oggi» e «Gente» ma anche di un settimanale d’élite come «Il Borghese» di Longanesi, di quotidiani come «Il Tempo» ma anche dell’«Uomo Qualunque» di Giannini, l’autrice riesce a delineare i contorni e i caratteri di un’opinione pubblica moderata che ha lasciato scarse tracce nella cultura «alta» del Paese, ma che presumibilmente coincideva con una porzione cospicua di quanti, tra gli anni ’40 e ’50, votavano per la Dc e per i partiti alla sua destra. Questa parte di opinione pubblica – si noti – non rimpiangeva il fascismo, come facevano invece i nostalgici di Salò, ma ne dava tuttavia un’immagine edulcorata. Lo considerava una dittatura, sì, ma di un tipo del tutto particolare, perché fondata soprattutto sul consenso degli italiani e assai poco sull’impiego della violenza, distinguendosi in questo dai regimi di Hitler e di Stalin. Scriveva Montanelli sul «Borghese» che il dramma del fascismo non era consistito nell’aver praticato il terrore ma semmai, paradossalmente, nel non averlo fatto abbastanza, limitandosi a mandare qualche oppositore «in vacanza balneare» (cioè al confino). Erano stati, si sosteneva spesso su queste testate, proprio i difetti del nostro carattere nazionale – la tendenza degli italiani «a ridurre ogni cosa a burletta e a melodramma», la «capacità di aggirare leggi e proclami» e così via – a favorire la (relativa) mitezza della dittatura.

Come osserva giustamente l’autrice, gli articoli che le riviste e i giornali da lei esaminati dedicarono al fascismo dal 1945 al 1960 contenevano anche osservazioni fondate, che poi la storiografia avrebbe confermato (il «consenso» degli italiani a Mussolini, ad esempio, o il carattere solo «imperfettamente totalitario» del suo regime); ma queste osservazioni confluivano «in una narrazione del fascismo piena di racconti fantasiosi, carteggi d’amore, lacrime delle vedove, colloqui d’oltretomba [con Mussolini], fotografie delle amanti del duce, episodi dubbi e in ogni caso irrilevanti ai fini di una seria valutazione del periodo fascista».

All’immagine indulgente del fascismo che traspariva dagli articoli di Montanelli e di Malaparte, di Giannini e di Longanesi, oltre che dai tanti servizi di «Oggi» e di «Gente», si accompagnava una forte ostilità nei confronti della politica dell’epurazione attuata a partire dal 1944. Era una politica del tutto sbagliata – si sosteneva – perché appariva assurdo colpire quanti si erano compromessi con il regime, visto che fascisti erano stati più o meno tutti gli italiani. Certo, su questo come su altri argomenti, non tutti sostenevano le stesse cose: la violenta polemica di Giannini contro l’epurazione non era la stessa di chi era disposto, almeno in linea di principio, ad accettare che si perseguissero (ma sulla base del diritto comune, non di «leggi speciali») i reati compiuti durante il fascismo.

Fu soprattutto a causa dell’epurazione che si sviluppò, in quell’opinione pubblica moderata della quale Cristina Baldassini fissa efficacemente i contorni, un atteggiamento di sospetto e spesso di avversione nei confronti della nuova Italia democratica e antifascista. Riguardo alla Resistenza, se venivano celebrati gli episodi riconducibili all’esercito regolare – da Cefalonia, nel settembre 1943, alla partecipazione del ricostituito esercito italiano alla battaglia di Monte Lungo a fianco degli Alleati – si ometteva completamente di ricordare l’azione dei partigiani, inficiata irrimediabilmente, per i giornali di cui stiamo parlando e per i loro lettori, dalla partecipazione dei comunisti. Era una critica, comunque, che non tutti svolgevano nello stesso modo. Se il direttore di «Oggi» Edilio Rusconi era un critico della democrazia solo o soprattutto nella misura in cui la giudicava troppo debole di fronte al comunismo, Leo Longanesi confessava che la parola stessa «democrazia» aveva destato in lui fin dall’inizio «un’insofferenza fisica, come l’odore stantio dei vecchi cassetti», mescolandosi a «un odore di muffa, di umida miseria, di cavoli lessi».

GIOVANNI BELARDELLI
in «Corriere della sera», 7 aprile 2008