Giacomo Marinelli Andreoli, Nel segno dei padri. La storia di Guglielmina e Peter, Marsilio, Venezia 2017
// Quando è uscito il libro mi sono chiesto che cosa Giacomo Marinelli Andreoli potesse mai aver aggiunto al già noto. Noto, sicuramente, agli eugubini e a chi come me frequenta Gubbio da alcuni lustri. Perché l’eccidio dei Quaranta Martiri – compiuto per rappresaglia dalle forze tedesche in ritirata nel giugno nel 1944 – aleggia sulla città, sia pure spesso tra il detto e il non detto.
D’altra parte la vicenda è stata perfettamente ricostruita con rigore storiografico – né poteva essere altrimenti – da Luciana Brunelli e Giancarlo Pellegrini nel libro Una strage archiviata, uscito per il Mulino ormai dodici anni fa.
Da qui anche la mia immediata curiosità e l’altrettanto immediata lettura di questo Nel segno dei padri. Un libro che aggiunge molto. Non alla ricostruzione della vicenda in sé: alcuni partigiani, veri o presunti, sparano in un bar del centro a due militari tedeschi, un assistente medico e un sottotenente, uccidendone uno e ferendo l’altro. Il libro aggiunge tuttavia molto alla ben più ampia vicenda dell’Italia di allora, con le sue tragedie e le sue contraddizioni, in fondo con la sua complessità.
Non amo il reducismo. Ho conosciuto molti reduci, da una parte e dall’altra, e li rispetto. Ma in qualche modo li ho sempre guardati con sospetto. I reduci di qualunque tipo e colore. Anche di eventi decisamente meno drammatici. Tremo al pensiero della valanga di memorie che ci assalirà nel cinquantesimo anniversario del Sessantotto. Salvo rare eccezioni, i reduci non riescono a porsi con il necessario distacco nei confronti degli eventi che hanno vissuto, da protagonisti, comprimari, semplici spettatori. I reduci fermano il tempo. La loro narrazione è enfatica fino a sfiorare il mito. Dunque non aiuta che parzialmente a restituirci una verità.
In qualche modo – nella comune condizione di vittime incolpevoli – Guglielmina e Peter sono reduci. Ma la grande e importante novità di questo libro è costituita dal loro non porsi come tali, e dalla conseguente capacità di guardare ai fatti con un certo distacco, pur nel dolore che li accomuna.
Per questo in fondo questa piccola storia rappresenta un tassello utile, necessario, per continuare a scrivere – non dico riscrivere – la grande storia. Prescindendo dalla sindrome del reduce, per il quale il mondo è bianco o nero e non esiste il grigio; un mondo che si divide in buoni e cattivi. E naturalmente i buoni sono i tuoi e i cattivi sempre gli altri. La storia è più complessa.
Quando ho letto il libro, mi è tornata alla mente una memoria familiare.
Io sono nato a Viterbo. In quel mese di giugno del 1944 anche Viterbo era attraversata dai reparti tedeschi in ritirata. Era un momento atteso. Si sperava che finalmente la città fosse risparmiata dai bombardamenti alleati. Erano cominciati nel luglio del 1943 e ancora continuavano, fino al 9 giugno 1944. Alla fine le vittime furono più di 1000, in una cittadina di 30mila abitanti. La famiglia di mio nonno, dopo la distruzione del palazzo accanto al suo, sfollò nella tenuta di campagna. La famiglia, i contadini, qualche amico. Una mattina, aprendo la finestra, mia nonna scoprì che nel piazzale antistante era accampato un reparto tedesco. Mio nonno uscì e cercò di capire che cosa volessero. Un tenente chiese se fosse possibile avere qualcosa da mangiare. Le provviste furono consegnate, il tenente ringraziò e il reparto ripresa la sua strada.
Mi sono sempre chiesto che cosa sarebbe avvenuto se qualcuno, magari da una finestra, avesse sparato a quei tedeschi, ridotti nelle condizioni miserrime che Kurt Staudacher, il padre di Peter, descrive in una lettera alla famiglia. Probabilmente mia madre non avrebbe sposato qualche anno dopo mio padre, che a diciott’anni stava tendando di attraversare le linee verso sud, e io non sarei qui.
È una piccola storia a lieto fine. Mentre a Gubbio si scatenò l’inferno.
So bene che la memoria di quell’inferno è stata a lungo divisiva. Ed è comprensibile. Perché, al contrario di tante altre terribili stragi di quel periodo, quella dei Quaranta Martiri fu conseguenza di un atto difficilmente spiegabile, se non con l’ansia di un gruppetto di presunti partigiani di mettersi in luce agli occhi degli Alleati che stavano per entrare in città. E anche questo è un tassello della nostra storia. Una piccola storia che ha provocato dolori immensi.
Una storia che sembra essere il sunto della complessità del tempo, attraverso le vite. Quelle di Guglielmina e Peter, orfani a un anno.
Quelle delle vittime, 39 delle quali senza alcuna responsabilità, scelte nel mucchio per una rappresaglia peraltro ormai senza senso dal punto di vista militare. Senza senso anche se il sottotenente che accompagnava Kurt non fosse solo rimasto ferito. Ma in quel frangente drammatico emergono altre figure, anch’esse caratteristiche dell’Italia di allora.
Il delatore. Vittorio Roncigli – padre di Guglielmina – ha paura del delatore. Una figura che torna spesso nelle memorie. Un conoscente, un concittadino, forse persino un amico che, magari per salvarsi, fa un nome. Mi viene in mente Celeste Di Porto, la ragazza ebrea che a Roma denunciava ai tedeschi i suoi fratelli di fede.
Il responsabile, che fugge e non si consegna lasciando morire parenti e amici.
Il Vescovo, che tenta senza riuscirci di sostituirsi ai rastrellati. Il ruolo dei religiosi in quel periodo è molto importante. In alcune occasioni arriva al sacrificio di sé. Mi piace segnalare la vicenda di due sacerdoti raccontata da Chiara Genisio nel suo Martiri per amore (Paoline, Alba 2015)
Lo stesso Vittorio, che non è un partigiano combattente. Si sentiva – scrive Marinelli Andreoli – «né rosso né nero». Non è fascista. Ha lavorato in Germania. In fondo quella guerra non gli appartiene. Partigiano diventerà solo da morto, a sua insaputa, sol perché alla vedova sia garantita una pensione. Lo stesso Kurt, che non è certo un nazista, ma solo un medico aggregato alla Wehrmacht, che da tedesco deve partecipare a una guerra scatenata dal suo paese. E che non lascerà neppure una pensione perché la sua famiglia finisce nella Germania Est, una prigione dalla quale non può fuggire per trent’anni.
La complessità della storia…
Il senso del tragico non può che incombere nelle pagine di questo libro, nella storia di Guglielmina e Peter. E tuttavia, pagina dopo pagina, al senso del tragico si sostituisce la speranza. La speranza che viene dalla riconciliazione.
A riconciliarsi non sono, non possono essere, le vittime parallele della tragedia. Ma la riconciliazione tra i loro figli – uniti dal dolore – anch’essi vittime, non è solo commovente, edificante.
Ci spinge, o dovrebbe spingerci, a guardare al passato con maggiore senso della prospettiva. Per non trasmettere di generazione in generazione una memoria divisiva. Per mettere al centro l’uomo.
Giacomo Marinelli Andreoli ha chiesto a Guglielmina se avesse mai odiato. Guglielmina ha risposto:
«Se ho odiato? Sì che ho odiato. Ho odiato la guerra. Le sue uniformi. I suoi fragori. I morti, le croci, le lacrime. Il freddo dell’assenza. Il colore del vuoto. Ho odiato i tedeschi. Fin quando non ho scoperto che anche loro erano padri, mariti, figli. Fin quando ho capito che come me un altro bimbo aveva dovuto accettare di non avere un padre. Senza un perché. […] Ho odiato il silenzio che ha coperto questa storia per decenni. Come se non si dovesse parlare di quanto accaduto, come se non si volesse aprire la porta sui retroscena, sui motivi, sulle circostanze che avevano provocato tutto”. […] Ho odiato la mia incapacità di guardare oltre, di scavalcare il muro, di mettermi alle spalle la sensazione cupa del lutto. E la tentazione della rivalsa».
Credo che dobbiamo essere grati a Guglielmina per queste parole. E all’autore che ce le ha fatte conoscere. Forse esistono altre testimonianze di questo tipo, anche se io non le conosco. Sarebbe importante trovarle e diffonderle.
Gianni Scipione Rossi
Intervento alla presentazione presso la Biblioteca della Camera dei Deputati, Roma, 30 novembre 2017.
Da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX