A Todi la Giornata della Memoria

Il 27 gennaio 1945 furono aperti i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz. È la data simbolica scelta dall’Onu per ricordare l’Olocausto del popolo ebraico durante la seconda Guerra Mondiale. Nella Giornata della Memoria 2019 la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, con il patrocinio e il sostegno del Comune e la collaborazione e della Associazione Italia-Israele di Perugia, ha organizzato a Todi una giornata di riflessione dedicata alla cittadinanza e in particolare agli studenti. Nel gennaio del 1939 gli italiani di religione israelitica e di origine ebraica cominciarono a subire le conseguenze delle “leggi razziali” varate tra il novembre e il dicembre 1938, dopo l’espulsione ragazzi e degli insegnati ebrei dalle scuole, disposta nel settembre precedente. Per questo l’incontro è stato intitolato “Dalla discriminazione alla persecuzione”. L’iniziativa si è svolta sabato 26 gennaio 2019 nella Sala del Consiglio dei Palazzi Comunali di Todi. I lavori sono stati introdotti dal Sindaco Antonino Ruggiano e dall’Assessore alla Cultura Claudio Ranchicchio. Hanno tenuto relazioni la storica Ester Capuzzo, ordinario di Storia contemporanea nella Sapienza Università di Roma, sul tema “Gli ebrei italiani dall’emancipazione alle leggi razziali”; l’antropologa Maria Luciana Buseghin, presidente della Associazione Italia-Israele di Perugia, sul tema “L’Umbria ebraica, storie e personaggi verso la discriminazione”; il giornalista e storico Gianni Scipione Rossi, vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice e direttore del Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo, sul tema “Gli intellettuali italiani tra l’indifferenza e mobilitazione razzista”.

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L’intervento introduttivo di Gianni Scipione Rossi

La Giornata della Memoria, che cade domani 27 gennaio, è la data simbolica scelta a livello internazionale perché in quel giorno del 1945 furono aperti i cancelli del campo di concentramento e sterminio nazista di Auschwitz, in Polonia.

Abbiamo scelto come titolo di questo “Dalla discriminazione alla persecuzione” perché non possiamo dimenticare o sottacere che ottanta anni fa, in Italia, cominciarono ad essere applicate nel concreto le cosiddette leggi razziali varate tra il novembre e il dicembre del 1938. Nelle scuole si era cominciato prima, a settembre, quando studenti e professori ebrei furono espulsi. Per gli italiani ebrei cominciò la fase della discriminazione. Nell’ottobre del 1943 si passò alla fase della persecuzione. Si pensi al 16 di quel mese, quando mille ebrei romani furono deportati in Germania.

Giornata della Memoria, dunque, della Shoah, dell’Olocausto ebraico, ma che va inquadrato in un contesto più generale. Di fronte a quel che è accaduto – sei milioni di persone scientificamente eliminate dal regime nazista – ci si chiede sempre – o almeno io me lo chiedo – come sia potuto accadere.

So che questi discorsi stancano. C’è fatalmente qualcosa di retorico nella narrazione di questi giorni. Sui giornali, alla radio, alla televisione. Ci si è anche chiesti spesso se non abbiano un effetto contrario, se non annoino invece che fare riflettere. Spero di no, ovviamente, anche se su questo c’è stato e c’è un largo dibattito.

Nel 2014 la giornalista e scrittrice torinese Elena Loewenthal pubblicò per Einaudi un piccolo libro urticante: Contro il giorno della memoria. Una dolente provocazione intellettuale, direi. Ma non solo.

Scrisse Elena Loewenthal: <Io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica: è soltanto la avvilente consapevolezza di una distanza minima, ma insormontabile. Io che sono nata poco dopo che tutto era finito, che sono vissuta circondata da quel passato, da quei ricordi – per lo più pestati sotto il tallone del silenzio, non per rimuovere quel passato, ma perché per tornare a vivere era fondamentale non lasciarlo parlare, almeno per un po’ di tempo – so per certo un’unica cosa, di quella memoria: che non potrò mai nemmeno lontanamente sentire quello che ha sentito chi è stato dentro quel tempo, quelle cose. Malgrado la mia vicinanza estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di una distanza minima, ma insormontabile> [p. 90]. Sono le considerazioni conclusive con cui Elena Loewenthal chiude Contro il giorno della memoria, un testo di riflessione sul senso del “Giorno della memoria” (che lei chiama, come un prodotto di consumo, GdM) e sui motivi per cui quel giorno, in quella forma, con quel tipo di cerimoniale, non la riguarda, né desidera essere coinvolta.

Io capisco il punto di vista di Elena, ma per me è facile. Non sono ebreo e quella tragedia l’ho studiata senza per fortuna averla del mio bagaglio psicologico personale. Il rischio è invece quello di dimenticare.

La senatrice a vita Liliana Segre lo ha sottolineato qualche giorno fa, il 15 gennaio: <Sarà così, la Shoah si dimenticherà, la storia è sempre cosi>.

Qualche giorno dopo, il 21 gennaio, accompagnando gli studenti in Polonia, un’altra sopravvissuta, Andra Bucci, ha detto che sarebbe meglio ricordare ogni giorno piuttosto che concentrare tutto in una giornata o in una settimana, quasi per lavarsi la coscienza. Anche qui, capisco, ma è meglio una settimana di niente. Perché penso che questo accadrebbe.

C’è anche un altro rischio. Lo ha segnalato il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni in un convegno a Roma, il 18 dicembre 2018.

Questo il resoconto di “Shalom”: <Rav Di Segni ha espresso preoccupazione per un fenomeno che appare in crescita e distante anni luce da un lavoro di Memoria viva e consapevole. E cioè il radicarsi di quello che ha definito “Shoahismo”. Una religione vera e propria, con i suoi luoghi e con i suoi templi. Tappe imprescindibili per chi ha a cuore la Memoria ma che – ha osservato – non possono diventare l’ancoraggio unico della propria identità. “L’ebraismo, che è una identità viva, per alcuni è soltanto un cimitero. Tutto ciò – ha detto – è patologico”>.

È anche questo è un tema centrale, non nuovo. Spesso si è detto che a molti piacciono gli ebrei morti, non quelli vivi. E questo aprirebbe un largo dibattito sull’antisemitismo e l’antisionismo persistenti, che esistono purtroppo fra noi. Non è vero che la storia non possa ripetersi. Lo fa in maniera diversa, ma può accadere. Per questo ogni volta che sento battute antisemite o antisioniste, quando vedo certi striscioni negli stadi, quando vedo svastiche sui muri delle scuole… o leggi riferimento a quel falso storico che furono i Protocolli dei Savi di Sion– come è accaduto in questi giorni – io mi preoccupo. Molto.

Per questo penso che sia giusto ricordare, avere memoria di quel che è accaduto.

La Fondazione il 25 gennaio a Spaziolibero Tv – Rai3

Il 25 gennaio 2019 la Fondazione è stata ospite della rubrica televisiva di “Rai Parlamento” Spaziolibero (Rai Tre). In studio il presidente Giuseppe Parlato e il vicepresidente Gianni Scipione Rossi hanno illustrato le iniziative per l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali del 1938 e l’attività culturale in programma. Ha condotto in studio Annamaria Baccarelli.

 

Gubbio, immagini per il Centenario

Come da tradizione in vista delle feste natalizie si è tenuto il 14 dicembre 2018 a Gubbio (Perugia) il “Concerto sotto l’Albero”. Nel 2018 è stato dedicato al Centenario della vittoria italiana nella Grande Guerra, alla quale la città umbra ha dato un grande contributo di combattenti e di sacrificio. La Fondazione ha contribuito all’evento con la scelta e la realizzazione di un apparato iconografico d’epoca.

Italia 1938, l’invenzione di un nemico

A ottanta anni di distanza dal varo delle “leggi razziali”, la Fondazione, con il sostegno della Regione Lazio e il patrocinio di Roma Capitale, ha organizzato una giornata di studio per ricordare e riflettere su uno dei momenti più oscuri della storia italiana del Novecento. Il convegno, dal titolo Italia 1938, l’invenzione di un nemico, si è tenuto nella Sala della Fondazione giovedì 29 novembre 2018. La giornata ha rappresentato il momento conclusivo di un percorso di studio su vari aspetti del processo di formazione dell’intervento legislativo, sulle conseguenze, sulla storiografia e sulla percezione della popolazione. Di quelle leggi, scrisse Tullia Zevi, «la popolazione in un primo tempo non percepì la gravità». L’iniziativa, pensata anche per coinvolgere gli studenti delle superiori, ha visto gli interventi di Ester Capuzzo, ordinario di Storia contemporanea nella Sapienza Università di Roma, sul tema Gli ebrei dall’Unità al fascismo; di Giuseppe Parlato, ordinario di Storia contemporanea nella Unint di Roma e presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, sul tema Renzo De Felice e l’antisemistimo fascista; di Gianni Scipione Rossi, giornalista e storico, sul tema Gli intellettuali italiani, l’antisemitismo e il caso di Attilio Tamaro; di Aldo G. Ricci, storico e Sovrintendente Emerito dell’Archivio Centrale dello Stato, sul tema La Rsi e le leggi razziali. Il convegno è stato seguito con molto interesse dal pubblico, composto anche da molti studenti. Numerosi gli interventi nel dibattito.

Gli atti del convegno in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX

Todi, la Grande Guerra cento anni dopo

Con il patrocinio e la collaborazione del Comune di Todi (Perugia) la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ha organizzato una iniziativa culturale nel quadro del Centenario della Grande Guerra. L’iniziativa si è articolata – tra il 28 settembre e il 17 novembre 2018 – in una serie di conferenze -incontri di analisi e approfondimento dei temi storiografici relativi al primo conflitto mondiale, con particolare riguardo al coinvolgimento degli studenti degli istituti superiori oltre che della cittadinanza tutta.
Il primo incontro si è tenuto il 28 settembre, nella Sala del Consiglio, Palazzi Comunali della città umbra con il titolo “Nulla sarà più come prima”. Hanno introdotto il sindaco di Todi avv. Antonino Ruggiano e l’assessore alla Cultura dott. Claudio Ranchicchio. Relazioni del prof. Giuseppe Parlato, ordinario di storia contemporanea nella Università degli studi internazionali di Roma, presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, e del dott. Gianni Scipione Rossi, giornalista e storico, vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.
Il 20 ottobre l’incontro è stato sui temi “I cattolici italiani tra patriottismo e fede”, con la dott.ssa Maria Chiara Mattesini, giornalista e storica, Universita’ di Roma Tor Vergata, e “Il dopoguerra dei combattenti: divisioni e stati d’animo”, con la dott.ssa Cristina Baldassini, ricercatrice in Storia delle dot- trine politiche, Università di Perugia. Ha coordinato Gianni Scipione Rossi.
“Quando la letteratura racconta la guerra” il tema del 2 novembre, con la prof.ssa Simonetta Bartolini, docente di letteratura italiana nella Università degli studi internazionali di Roma e con Giuseppe Parlato.
Il programma si è concluso 17 novembre 2018, sul tema “Le conseguenze del conflitto tra scenario internazionale e modernizzazione”. Sono intervenuti il prof. Silvio Berardi, docente di storia contemporanea Università Niccolò Cusano Roma, il dott. Andrea Perrone della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, il prof. Marco Zaganella, docente di storia economica Università dell’Aquila, e Giuseppe Parlato.

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Todi 28/9/2018

L’intervento di Gianni Scipione Rossi

Qualcuno di voi potrebbe pensare, per certi versi legittimamente, <basta, perché ancora la Grande Guerra. Sono cinque anni che ne parliamo>.

Il problema me lo sono posto anch’io.

In effetti sono anni che se ne parla e non si può certo dire che il Centenario sia passato sotto silenzio. Sono stati pubblicate decine di libri – talvolta non all’altezza, semplici sintesi o affreschi puramente divulgativi – e il numero di articoli, di mostre, di iniziative credo sia incalcolabile.

Ne valeva la pena? Era necessario? Naturalmente penso di si e non credo che si debba smettere di parlarne dall’anno prossimo, perché i lasciti della guerra hanno condizionato, nel bene e nel male, le vicende politiche, sociali, economiche, culturali dei decenni successivi, la nostra storia di un secolo. E molto c’è ancora da chiarire e capire.

Che se lo diciamo così – un secolo – sembra un tempo lontanissimo, quasi eterno, ma in realtà copre la storia personale e familiare di appena quattro/cinque, al massimo sei generazioni. Si parla di quello che hanno fatto, subito, costruito, sofferto, pensato, i nostri nonni o bisnonni. Se ci si riflette bene non è così lontano.

Poi, naturalmente, questa iniziativa si svolge in questo autunno che, cent’anni va, segnò la fine della Grande Guerra con la Vittoria dell’Italia.

Al 4 novembre manca ormai poco più di un mese. Ne parleremo.

Il problema è come parlarne, della Grande Guerra. Al di là dei fatti d’arme, delle battaglie, dei generali, del ruolo svolto dai protagonisti politici dell’epoca, dalla Monarchia, dagli interventisti ai neutralisti, agli irredentisti. L’elenco degli attori sarebbe lungo e articolato.

La storiografia, come sapete, è sempre in divenire. Chi pretende di aver scritto la parola fine alla ricostruzione e alla interpretazione di un evento non è un bravo storico. La continua revisione è una necessità e un obbligo, sulla base dei documenti e della loro possibile diversa spiegazione.

Revisione non vuol dire revisionismo. Che pure è un vizio ricorrente. Non solo in Italia.

Qualcuno si diverte anche a riscrivere la storia degli altri.

In questi giorni mi ha colpito una notizia. Nell’Austria guidata dal giovanissimo cancelliere Sebastian Kurz, del Partito Popolare, stanno riscrivendo i libri di storia per le scuole, orwellianamente, si potrebbe dire.

Lo hanno scoperto e rivelato Rita Monaldi e Francesco Sorti, su “La Stampa” del 24 settembre, facendo diversi esempi.

Ve ne leggo uno.

In VG3 Neu (per la scuola media, ancora Lemberger editore) il capitolo sul Risorgimento si apre con un’abile premessa: «Nel XIX secolo, ambiziosi uomini di Stato capirono che l’idea nazionale si adattava in modo eccellente al raggiungimento dei loro personali obiettivi politici. Volevano espandere i loro Stati a costo degli altri, e allo scopo utilizzarono come giustificazione l’idea nazionale. In molte parti del mondo ancora oggi si fa politica in modo simile». 

Il vero obiettivo dei leader italiani sarebbe stato “dividere l’impero asburgico”.

Cavour, Garibaldi e Mazzini diventano così un piccolo club di ambiziosi, e l’unificazione d’Italia una guerra di aggressione. Proseguono gli autori: «Il Piemonte nella seconda metà del XIX secolo si sviluppò in un moderno ed efficiente Stato-modello. Appoggiò l’idea di una divisione dell’Austria». Insomma, Cavour voleva dividere l’impero asburgico, anziché unificare l’Italia… «Con un’abile politica estera, il regno di Piemonte-Sardegna si guadagnò l’alleanza di Francia, Gran Bretagna e Prussia. L’Austria invece era isolata (…). Quando nonostante ciò rischiò e scese in guerra, le truppe alleate di Francia e Piemone-Sardegna sconfissero l’esercito austriaco, male organizzato, a Magenta e Solferino». 

Un resoconto – dicono gli autori dell’articolo e io condivido– che fa a pugni con i fatti storici: a Magenta e Solferino si combatté perché l’Austria aveva imposto ai piemontesi, assai inferiori militarmente ma alleati alla Francia, di disarmarsi entro tre giorni. L’ultimatum non venne rispettato e gli austriaci attaccarono. A Solferino gli eserciti contrapposti erano pressoché equivalenti, gli Austriaci anzi avevano un’artiglieria più consistente, ma la conduzione tattica dei francesi fu vittoriosa. 

Direte, che c’entra ora il Risorgimento e come lo vedono o rivedono gli austriaci?

C’entra, perché questa rilettura del Risorgimento è molto simile a quella che in Italia appartiene a una – per la verità non qualificata ma diffusa – corrente storiografica per così dire neo-borbonica, che ha il palese obiettivo politico-culturale di suscitare un risentimento contro l’unità d’Italia, completata cento anni fa. Una corrente che ebbe un dignitoso precursore in Carlo Alianello, e che oggi vive grazie a piccoli epigoni che ricostruiscono le vicende del Regno delle Due Sicilie infarcendo i fatti con quelle che oggi si chiamano fake news.

Ricorderete che in Puglia si è tentato di istituire una <giornata della memoria delle vittime meridionali dell’unificazione italiana>. Le quali naturalmente ci furono, come ci furono i patrioti meridionali vittime della repressione dello stato borbonico.

Il problema è, come sempre, quale uso si fa della storia. Che non dovrebbe essere politico o ideologico.

Non mancano, naturalmente, i nostalgici dello Stato Pontificio. Qualche tempo fa mi è capitato di ricordare quali erano le condizioni del Regno del Papa prima dell’Unità. Lo feci citando una lettera scritta nel 1837 al fratello dal futuro cardinale segretario di stato di Pio IX, Giacomo Antonelli, che all’epoca era delegato – cioè capo della provincia – di una delegazione pontificia che è qui vicino a noi, quella di Viterbo. Dove rimase impressionato dalla <orribile miseria che regna dappertutto, specialmente nella classe povera (braccianti)>.

Tutto questo c’entra con il nostro argomento perché la lettura della Guerra Mondiale ha attraversato due fasi storiografiche.

Dopo la vittoria prevale – ed è abbastanza scontato – la lettura retorica che ne esalta il significato patriottico dell’immane sacrificio del popolo. Non solo dei combattenti delle trincee, ma anche dalle loro famiglie, dal cosiddetto fronte interno. Esalta, questa lettura, il senso di completamento del Risorgimento insito nel ritorno alla Patria unita di Trento e Trieste.

Sottace, naturalmente, gli errori militari, e anche le speculazioni che circondarono la produzione bellica, e non solo.

Non dimentichiamo che durante la guerra e nei mesi successivi vigeva la censura militare, come in ogni altro paese belligerante. Per farvi un esempio, il libroKobilek. Giornale di battagliadi Ardengo Soffici, nella prima edizione Vallecchi del 1919, è pieno di pagine bianche tagliate dalla censura.

Non furono invece censurate nel 1916 queste pagine di Renato Serra, giovane intellettuale del circolo della Voce, partito volontario e morto combattendo sul Podgora il 20 luglio 1915. Problematico, il testo di Serra, in verità, a leggerlo tutto:

La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; (…) non vi aggiunge; non vi toglie nulle. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo.  (…)

Sempre lo stesso ritornello. La guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia. (…)

Laggiù in città si parla forse ancora di partiti, di tendenze opposte; di gente che non va d’accordo; di gente che avrebbe paura, che si rifiuterebbe, che verrebbe a malincuore. Può esserci anche qualcosa di vero, finchè si resta per quelle strade, fra quelle case.

Ma io vivo in un altro luogo. In quell’Italia che mi è sembrata sora e vuota, quando la guardavo soltanto; ma adesso sento che può esser piena di uomini come son io, stretti nella mia ansia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l’uno all’altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perché se venga l’ora. Può darsi che non venga mai: tanto che l’aspettiamo e non è mai venuta!  (…) oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza.

 Siamo comunque molto lontani dalla marinettiana guerra sola igiene del mondo.

Anche se quella sortita di Marinetti va contestualizzata nel clima della Belle Époquee del suo scivolare – a parere del poeta futurista – nel decadentismo.

D’altra parte già nel 1921 usciva il famosissimo Le scarpe al soledi Paolo Monelli sulla guerra degli alpini, che non era certo – come si direbbe oggi – politicamente corretto.

E, per fare un esempio, nel 1935 l’ufficio storico dello Stato Maggiore del Ministero della Guerra poteva tranquillamente pubblicare il diario dell’infermiera volontaria della Croce Rossa Mercedes Astuto, che non nascondeva certo le difficolta:

La mia corsia s’è empita tutta: quaranta letti quaranta operati, un’altra fila di letti anche nel mezzo, quasi tutti addominali e qualcuno cranico. Il lavoro mi spaventa; non ho per aiuto che rozzi piantoni, territoriali passati in sanità, inesperti e taluni niente suscettibili.

Questo per dire che la retorica della Vittoria non impedì la circolazione di riflessioni critiche, neppure durante il governo fascista, al quale si imputa la sacralizzazione della Grande Guerra, che, tuttavia, ci fu anche nella Francia democratica. Come era normale che accadesse.

La retorica prevalse e sarebbe stupido negarlo.

Con il passare dei decenni la retorica rimase ma cambiò segno.

È la fase della rilettura per così dire dal basso della guerra. Protagonisti non sono più i generali e i politici, ma il popolo. Non il popolo dei combattenti delusi che saranno i protagonisti del successo del fascismo. Ma il popolo minuto, con i suoi problemi, le sue paure, i suoi dolori.

Una nuova lettura necessaria, ma che col tempo è sfociata in un rovesciamento della complessa verità storica.

I generali diventano tutti incapaci e felloni. Il popolo non vuole la guerra ma semplicemente la subisce e si arrangia come può. Se si arrivò alla vittoria un anno dopo Caporetto non fu per la capacità di reazione italiana sul Piave, ma per una manciata di reggimenti inglesi. E via di questo passo.

Questi sono i paradigmi prevalenti. Che vengono ammantati di strabordante retorica in un film che molti di voi ricorderanno, e si situa nel filone del cinema neo realista.

È il 1959 quando arriva nelle sale La Grande Guerradi Mario Monicelli, con protagonisti indimenticabili Vittorio Gassman, Alberto Sordi e Silvana Mangano. Un film che si divide ex aequo il Leone d’Oro al Festival di Venezia con il bellissimo Il generale Della Roveredi Roberto Rossellini.

Grande film La Grande Guerra. E grandissime le interpretazioni di Oreste e Giovanni da parte degli attori.

Ma qual è il messaggio?

Oreste e Giovanni sono due tragici soldati da operetta. Non credono in niente. Cercano solo di evitare i pericoli e la fatica. Sono due vigliacchi. Cercano di scappare vestiti con cappotti asburgici. Solo l’esatto contrario del soldato valoroso della retorica prima maniera. Sono anti eroici e si riscattano in qualche modo solo accettando la fucilazione, decidendo di non tradire dopo le offese di un ufficiale austriaco. Un finale per altro controverso. Furono le associazioni d’arma a premere perché i vigliacchi si riscattassero.

Ma fu proprio così o invece la rappresentazione deve essere più articolata?

Sentiamo una testimonianza un po’ sorprendente, quella di Rudyard Kipling, che nel 1917 inviava dal fronte trentino le sue corrispondenze ai giornali inglesi:

Oltre all’immane sforzo richiesto (…) quello che continua a colpire l’osservatore sul fronte italiano, è l’asprezza delle condizioni in cui tutti operano: dall’austerità spartana dell’ufficio del generale Cadorna (…) al più umile dei mulattieri, che bianco di polvere da capo a piedi, ma senza una goccia di sudore in fronte, arranca sugli erti sentieri montani dietro il suo animale.  Si nota un’organizzazione flessibile ed equilibrata al cui servizio tutti si prestano con fervida abnegazione.

Kipling non era al servizio dello Stato Maggiore italiano.

Da una retorica all’altra, forse solo a cento anni di distanza si riesce a dare una lettura equilibrata della Grande Guerra. Anche grazie alle memorie dei soldati. Ormai ne sono state pubblicate migliaia.

E tuttavia il mito della guerra non voluta e solo subita dagli italiani è difficile da superare.

I questi anni del centenario è anche accaduto che in Parlamento sia stata presentata una proposta di legge per la riabilitazione dei disertori.

È un capitolo dolorosissimo. Ne furono fucilati un migliaio.

Vi leggo una testimonianza, di un giovane avvocato combattente sul Carso, Tommaso Petroselli, che fu chiamato a difendere in un processo volante alcuni di loro:

Dei miei difesi, i soldati semplici, furono condannati a vent’anni di carcere, i due graduati alla fucilazione immediata. Sentii mancarmi le forze, mentre i votati alla morte mi si gettarono al collo, implorando che presentassi istanza di grazia alla Regia. Ben sapevo però che in questi casi eccezionali vana era ogni speranza di grazia.

Ci furono, dunque i disertori. Come in tutti gli eserciti. In Francia, per la verità, furono più numerosi. La pena nei loro confronti e nei confronti delle loro famiglie è scontata. Ma una riabilitazione sarebbe a mio parere un’offesa a tutti i soldati che fecero fino in fondo il loro dovere, anche morendo sul campo di battaglia.

È anche accaduto, non più tardi di un anno fa, che qualcuno abbia protestato per la decisione di attribuire a papa Giovanni – parlo di San Giovanni XXIII – il ruolo di protettore dell’Esercito Italiano. Come è possibile – si è detto – che il Papa buono protegga un esercito? Lo si è detto negando il ruolo dei cappellani militari in quella guerra, nella quale operarono per altro anche ministri del culto con le stellette ebrei e protestanti. Si è voluto dimenticare che Giovanni XXIII era stato un cappellano militare e su quella sua opera ha scritto pagine splendide.

Mi fermo qui, ma non prima di avervi letto un’altra testimonianza.

È il 4 novembre 1918. Siamo al Lago d’Ampola, in Trentino.

Alle due fulminea voce. Da soldato a soldato, da baracca a baracca, da vetta a vetta: <Armistizio! Vittoria!>. Poi ancora: <Sul Piave le armate austriache sono in rotta>. I soldati si guardano storditi. Non credono.

Poi s’abbracciano, saltano, gridano, pregano, tacciono, s’appartano, ridono. È una commozione ineffabile che ci prende, ci scuote, c’inebria ed illumina.

Queste parole sono state scritte da un pacato medico militare, non da un esaltato ardito volontario, Filippo Petroselli. Fratello dell’avvocato Tommaso.

 

 

Viterbo, immagini, letture e riflessioni nel Centenario della Vittoria

Il 4 novembre 1918 il comandante supremo del Regio Esercito Armando Diaz, dopo l’armistizio firmato a Villa Giusti, diffondeva il Bollettino della Vittoria, che sanciva la sconfitta dell’Impero austroungarico.
A cento anni esatti di distanza, nella Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, con il patrocinio e il sostegno del Comune di Viterbo, la Fondazione, con la collaborazione della la Fondazione Caffeina Culturq ha organizzano domenica 4 novembre 2018, con nel Teatro Caffeina di Viterbo un evento per ricordare quel momento fondamentale nella storia d’Italia, che ha posto fine a quattro anni di guerra, costati sacrifici e lutti che hanno consentito il completamento del Risorgimento.
Il Sindaco di Viterbo Giovanni Arena ha portato il saluto della Città. Il Florian Metateatro Centro di Produzione Teatrale di Pescara ha presentato la performance Dal Notturno a Doberdò, con testi di Gabriele D’Annunzio. Hanno collaborato Leonardo Rossi per la scelta dei brani musicali e Chiara Isabella Sanvitale per la regia e l’iconografia.
Gli attori Giulia Basel, Umberto Marchesani ed Edoardo De Piccoli hanno dato voce alle memorie di Mercedes Astuto, Carlo Emilio Gadda, Francesco Giuliani, Antonio Graziani, Rudyard Kipling, Paolo Monelli, Gioacchino Nicoletti, Filippo Petroselli, Tommaso Petroselli, Vincenzo Rabito, Angelo Giuseppe Roncalli, Carlo Salsa, Bruno Scarpocchi, Renato Serra, Ardengo Soffici, Arturo Stanghellini, Giani Stuparich, Giuseppe Ungaretti.
Luciano Osbat, direttore del Centro Diocesano di Documentazione di Viterbo, ha parlato sul tema La Grande Guerra nella memoria viterbese. Hanno coordinato Gianni Scipione Rossi, vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, e Rosa Rossi, responsabile della Libreria Caffeina.

Giornata in ricordo di Folco Quilici

Il 4 ottobre 2018 si è tenuto un incontro per ricordare la figura di Folco Quilici e presentare il fondo archivistico da lui donato alla Fondazione. Intellettuale, storico, regista, ambientalista di fama mondiale, Folco Quilici è scomparso a Roma il 24 febbraio 2018. Nel corso di una lunghissima e intensa carriera costellata di grandi successi, con i suoi prismatici interessi ha lasciato un segno indelebile nella cultura italiana della seconda metà del Novecento. Giovanissimo regista di documentari sulle bellezze naturali di tutto il mondo, già nel 1954 ottenne il Premio Speciale della Mostra del Cinema di Venezia per il film “Avventura nel Sesto Continente”.
Quilici è stato autore di libri di successo e sempre si distinto per il grande interesse per la storia. Rimane insuperata la collaborazione anche con Renzo De Felice per la Storia d’Italia del Ventesimo secolo. Tra i suoi libri: La mia Africa; Cacciatori di navi; Naufraghi; Oceano; Tobruk 1940; Umili eroi; La fenice del Bajkal.
La passione per la storia ha portato Folco Quilici a donare alla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice un fondo archivistico contenente carte familiari di grande interesse.
A sette mesi dalla scomparsa, la Fondazione, d’intesa e con la collaborazione della famiglia, ha organizzato l’incontro, che ha visto la partecipazione di amici ed estimatori. La figura di Folco Quilici è stata illustrata dai suoi amici giornalisti Pasquale Chessa, Stefano Folli e Corrado Ruggeri.
Alessandra Cavaterra ha descritto il fondo archivistico. Ha introdotto il presidente della Fondazione Giuseppe Parlato. Ha moderato il vicepresidente Gianni Scipione Rossi.

Salvatore Valitutti e la crisi dello Stato italiano

Il 22 giugno 2018, nella Sala del Refettorio della Biblioteca della Camera dei deputati, si è tenuto il convegno di studi “Salvatore Valitutti e la crisi dello Stato italiano”, organizzato dalla Fondazione, che conserva l’archivio del pensatore e uomo politico, in collaborazione con l’Istituto storico per il pensiero liberale ISPLI e con la Scuola di Liberalismo di Roma.
Il convegno è stato presieduto da Fabio Grassi Orsini e introdotti da Luigi Compagna. Hanno tenuto relazioni; Isabella Valentini (Amministrazione, politica e ceto dirigente nel percorso di Salvatore Valitutti); Gerardo Nicolosi (Va- litutti e il Pli); Tommaso Edoardo Frosini (Valitutti e la teoria dello Stato); Antonio Pileggi (Da Provveditore a Ministro); Giuseppe Parlato (Valitutti e il nodo del fascismo); Maria Sofia Corciulo (“Il Professore” della Sapienza); Luigi Ciaurro (Valitutti e Nuovi Studi Politici); Alessandra Cavaterra (Valitutti nelle sue carte alla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice). Le conclusioni sono state tratte da Teodoro Katte Klitsche de la Grange.

Tavola rotonda, Città, regione, nazione: spazi politici e dimensioni territoriali nella storia d’Italia.

 Tavola rotonda 

Città, regione, nazione: spazi politici e dimensioni territoriali nella storia d’Italia.

Hanno partecipato: Mario Ascheri (Università di Roma Tre), Dino Cofrancesco (Università di Genova), Luca Mannori (Università di Firenze) e Giuseppe Parlato (Presidente Fondazione Ugo Spirito).

Giovedì 25 febbraio 2010, la Fondazione Ugo Spirito ha organizzato una tavola rotonda dal titolo “Città, regione, nazione: spazi politici e dimensioni territoriali nella storia d’Italia“. Hanno partecipato Mario Ascheri (Università di Roma Tre), Dino Cofrancesco (Università di Genova), Luca Mannori (Università di Firenze). Per la Fondazione Spirito sono intervenuti Danilo Breschi e Giuseppe Parlato.

I lavori sono stati introdotti da Danilo Breschi, che ha sottolineato l’interdisciplinarietà dei relatori e dunque dell’approccio seguito per mettere a fuoco il ruolo dalla dimensione territoriale nella storia d’Italia.

L’intervento di Mario Ascheri si è soffermato sull’esperienza tardo medioevale delle città-stato, le cui tracce sono visibili ancora oggi. Secondo Ascheri, ciò è dovuto al fatto che i comuni sono riusciti a sopravvivere, con le loro tradizioni, anche nel periodo degli Stati regionali. Alcune dominazioni, come quella veneziana, non attuarono una politica di assimilazione di questi centri, con il risultato di rafforzare l’identità dei dominati in contrapposizione al potere centrale dominante.

Altri elementi sopravvissuti all’esperienza delle città-stato caratterizzano invece il dibattito politico. La città urbana, infatti, si è sempre caratterizzata per la ricerca di una concordia totale, che esclude il pluralismo degli orientamenti. Il linguaggio politico è così contraddistinto da messaggi universali, generalizzanti, predominanti ancora oggi.

L’intervento di Dino Cofrancesco ha evidenziato che l’esperienza delle città-stato si ricollega alla tradizione democratica, non a quella liberale, perché non ha mai previsto alcuna difesa dei diritti individuali. Si tratta di un aspetto centrale perché quando si riprende il pensiero di Cattaneo e la sua concezione del federalismo, occorre sottolineare che, da buon liberale quale era, l’esperienza a cui egli si ricollegava non era quella delle città-stato ma del Belgio e dell’Olanda. Passando al dibattito attuale, Cofrancesco ha dunque sottolineato che per il pensiero liberale il vero problema non è la localizzazione del centro di potere politico, ma i limiti di questo potere nei confronti dell’individuo.

Luca Mannori ha aperto il suo intervento concordando con Cofrancesco e sottolineando che per secoli il concetto di libertà non è stato concepito nel rapporto tra individuo e Stato, ma nel rapporto tra città-stato o comunque comunità urbana e potere centrale, confondendo il concetto di libertà con quella che in realtà era una forma di autonomia. Nella seconda parte dell’intervento si è invece focalizzato sul persistere della tradizione delle città-stato anche nell’epoca degli Stati regionali. Questo pone un problema storiografico rilevante (ed ancora inesplorato) determinato dalla necessità di comprendere il passaggio da forti identità locali alla nascita dell’identità nazionale.

Infine, Giuseppe Parlato ha confrontato l’esperienza italiana con quella europea, evidenziando che se nel resto del continente gli Stati nazionali si sono formati nel ‘300, in Italia si è cominciato a parlare di nazione solo nel 1848. Ciò è all’origine di una debolezza del sentimento nazionale in Italia, cui fanno da contraltare forti identità locali. Dal Trecento, in Italia, è esistita solo una “nazione letteraria” – nel senso della presenza di una lingua comune utilizzata nella cultura e negli scambi commerciale. La religione cattolica ha invece agito da elemento unificante ma non identitario. In sostanza, per secoli sono mancati elementi che potessero permettere la nascita di un’identità nazionale prevalente sulle identità locali rappresentate dalle città-stato. Rifacendosi agli studi di Rosario Romeo, Parlato ha dunque spiegato che la nascita di uno Stato nazionale nella seconda metà dell’Ottocento fu percepita dalla borghesia come necessaria per la crescita economica e all’avvio del processo di industrializzazione. Al momento di scegliere tra l’opzione federalista ed uno Stato nazionale centralizzato, la classe dirigente optò per quest’ultima tipologia proprio perché cosciente che la debolezza del sentimento nazionale sarebbe stata incompatibile con una strutturazione federalista.

 

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