Narcisismo e antipolitica, prognosi riservata

Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio, Venezia 2018.

La crisi della politica e la diffusione quasi egemonica dell’antipolitica che ne è derivata sono superabili? È immaginabile a breve per l’Italia, e non solo, il ritorno a una democrazia per così dire “normale”? Può tornare a prevalere almeno l’aspirazione a disegnare sistema democratico efficiente e capace di gestire una società complessa con una prospettiva di lungo termine, non condizionata da una somma disarticolata e narcisistica di cangianti bisogni individuali? Al termine di un’analisi che spazia da Huizinga a Ortega y Gasset, da De Noce a Elias Canetti, Orsina fa in qualche modo suo il rischio paventato da Alexis de Tocqueville, per il quale il mutare dei costumi nel senso di un individualismo senza limiti avrebbe trasformato il popolo in <una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo>. Una visione apocalittica che l’autore trova nel presente inverata nel prevalere di <grandi coalizioni di rabbiosi e frustrati […], agglomerati costruiti intorno a emozioni a tal punto profonde e grezze da non poter essere attaccate da una critica razionale, che svolgono egregiamente la funzione di valvola di sfogo dell’infelicità, ma che difficilmente saranno in grado di convertire queste energie negative in risorse politiche costruttive>. Ne discende una visione pessimistica delle prospettive: <Se la lista dei sintomi è chiara […] la prognosi e soprattutto la cura restano ancora, in larghissima misura, avvolte nell’oscurità>. Analisi rigorosa, impietosa ma tuttavia convincente.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. XXX, 2018

Fascisti a Londra, tra propaganda e diplomazia culturale

Tamara Colacicco, La propaganda fascista nelle università inglesi. La diplomazia culturale di Mussolini in Gran Bretagna (1921-1940)FrancoAngeli, Milano 2018

Ricercatrice alla University of London, Tamara Colacicco si prefigge con questo volume di ricostruire la diffusione della lingua e della cultura italiana in Gran Bretagna per scopi propagandistici e politici voluta dal regime fascista, impiegando i nuovi orientamenti della storiografia sul Ventennio, in linea e in continuità con le indagini condotte da Benedetta Garzarelli (2002; 2004) e Francesca Cavarocchi (2010).

Per la realizzazione del volume la Colacicco ha indagato negli archivi inglesi e italiani, fra i quali spicca la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, dove ha studiato in particolare il Fondo Camillo Pellizzi, ma ha avuto anche modo di esaminare e di utilizzare i documenti conservati presso The National Archives di Londra e dell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, impiegando fonti inesplorate. Elemento che rende il lavoro più originale e analitico, rispetto ad altre pubblicazioni finora realizzate.

Focalizzando la sua attenzione sulla diplomazia culturale estera del fascismo, l’autrice si è concentrata sulla realtà britannica, fissando per la prima volta il ruolo svolto dai docenti universitari di italianistica nell’ambito della propaganda estera del regime.

La Colacicco ha diretto il suo interesse verso le problematiche legate allo Stato totalitario nei suoi rapporti con la politica estera, che hanno prodotto in questi ultimi anni numerosi lavori sulla dimensione europea ed extraeuropea del fascismo. Nel libro si è voluto sottolineare l’apporto innovatore del regime nella concezione e nell’utilizzo delle politiche scolastiche, con una preminenza giocata dai dipartimenti, dalle cattedre e dai lettorati di italianistica, con un’analisi specifica delle singole università. L’autrice ha accompagnato lo studio con la mappatura delle maggiori figure di italianisti, da Camillo Pellizzi (nella foto) a Mario Praz, ma ha voluto analizzare figure meno conosciute e altrettanto importanti come Alberto Orbetello, Adriano Ungaro e Pietro Rèbora, fratello del più noto poeta Clemente Rèbora. Nel libro si è voluta indagare anche l’ideologia di questi intellettuali, valutando la loro vicinanza o meno al regime, utilizzando la divisione proposta anni or sono da Mario Isnenghi, fra militanti funzionari e militanti intellettuali, sottolineando le differenze tra chi era apertamente vicino al fascismo e chi invece preferiva utilizzare l’adesione ideologica per ottenere cariche in ambito universitario.

In tal modo, l’autrice ha potuto focalizzare la sua attenzione sulla University College London, in rapporto con la cattedra di italianistica assegnata a Camillo Pellizzi, fino ad analizzare le Università di Oxford con Cesare Foligno, di Cardiff con Alfredo Orbetello e di Bristol con Benvenuto Cellini, per descrivere i ruoli e le attività svolte dai docenti di italianistica nei maggiori atenei britannici. Non è mancata poi una ricostruzione della realtà delle Università di Leeds, Manchester e Liverpool, esplorando rispettivamente i profili e le strategie di Adriano Ungaro, Piero Rèbora e Mario Praz.

Il risultato ottenuto dalla studiosa con il suo libro è la scoperta di una rete di contatti e di relazioni con il regime, offrendo un contributo originale per esplorare da una diversa e più esauriente prospettiva l’attività svolta dalla propaganda estera del Ventennio, così come il problema dell’inquadramento politico degli italiani emigrati durante il fascismo e il loro rapporto con l’Italia. (Andrea Perrone)

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

Italia e Israele, storia di un rapporto complesso

Mario Toscano (a cura di), L’Italia racconta Israele 1948-2018, Viella, Roma 2018

È ben condivisibile l’auspicio del curatore Mario Toscano <che questo volume possa essere la base per ulteriori ricerche, volte ad ampliare la conoscenza di un capitolo della storia italiana recente e dei dibattiti appassionati svoltisi su un tema delicato> (p. 13). Perché un tema così delicato, e cioè come la politica, la stampa, la cultura italiana si siano rapportate alla nascita dello Stato d’Israele e alla sua storia ormai settantennale, merita più di una sia pur pregevole raccolta di saggi fatalmente orfani di un approccio organico. Il tema è infatti quanto mai complesso, alla luce dell’atteggiamento ondivago che politica, stampa e cultura hanno tenuto, nel loro complesso e spesso in palese e vivace dissenso, nei confronti della patria ebraica. Un atteggiamento che è via via cambiato col mutare del contesto internazionale e dell’orientamento politico delle leadership israeliane, per non dire della percezione della Shoah e delle leggi antiebraiche del 1938. Così, quando Israele nasce e sembra porsi in stretta relazione con il blocco sovietico, le sinistre italiane lo vedono con estremo favore, mentre Dc e moderati sono condizionati dall’atlantismo. Poi, di lustro in lustro, gli accadimenti determinano evoluzioni diverse, ferma restando la persistente linea filoaraba (con le eccezioni del caso) della politica estera italiana, almeno fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Gli autori colgono e spiegano i mutamenti intorno alle date topiche, dal 1951 al 1967 (quando il Pci si schiera contro Israele), e poi al 1982, con l’invasione del Libano disposta dal premier del Likud Menachem Begin. Una svolta, questa, che determina conseguenze ancora non rimosse in una pubblicistica che tende a considerarla come conseguenza naturale della guerra dei sei giorni. Mentre viene rimosso, come nota Alberto Cavaglion, <Quello che è accaduto fra il 1948 e il 1967 [], nel quadro di un’analisi che estende la “brutalità” della politica israeliana a tutto il periodo precedente> (p. 197). Con gli inevitabili limiti d’insieme, il volume presenta saggi accurati che ben illustrano le posizioni dei diversi schieramenti politici e ambienti culturali italiani, con una eccezione difficilmente comprensibile, che riguarda il versante della destra. Guri Schwarz lamenta l’assenza di <studi approfonditi e seri> (p. 155n)) sull’evoluzione del postfascismo finiano su questi temi. C’è del vero, ma nel volume manca qualsivoglia riferimento anche alle posizioni della destra precedente al biennio 1993/1994, forse perché ritenuta politicamente ininfluente, il che – per alcuni periodi – non corrisponde storiograficamente al vero.

Un lavoro più organico non potrebbe che tener conto non solo del citato La destra e gli ebrei di Gianni Scipione Rossi (Rubbettino, Soveria Mannelli 2003), ma almeno della ricerca condotta da Marco Francesconi sui periodici conservati nella emeroteca della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice (Il Movimento Sociale Italiano e il conflitto arabo-israeliano 1946-1973, Europa Edizioni, Roma 2017), e del saggio di Giuseppe Parlato, Neofascismo Italiano e questione razziale, in G. Resta, V. Zeno-Zencovich (a cura di), Leggi razziali. Passato e presente, RomaTre-Press, Roma 2015.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n.1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

1919, nascono i Fasci italiani di combattimento. Ma chi erano i “sansepolcristi”?

Mimmo Franzinelli, Fascismo anno zero. 1919: la nascita dei Fasci italiani di combattimentoMondadori, Milano 2019

Il 18 novembre 1919, quando i risultati delle elezioni politiche sono ufficiali e deve prendere atto che la lista del Fascio Littorio ha raccolto nel collegio di Milano – l’unico in cui ha potuto presentarsi – solo 4.796 voti (9064 totali per il capolista comprese le preferenze da panachage, cfr. p.143), Mussolini scrive sul “Popolo d’Italia”: <La nostra doveva essere ed è stata una semplice affermazione limitata alla circoscrizione elettorale di Milano. Non poteva essere qualcosa di più. Scriviamo questo non già per esibire delle eufemistiche nonché postume giustificazioni e consolazioni a noi e agli altri, ma semplicemente perché è la pura, la sacra, la documentabile verità. Noi siamo scesi in campo per affermarci e ci siamo riusciti. La nostra non è né una vittoria, né una sconfitta: è un’affermazione politica> [Cfr. M. Giampaoli, 1919, Libreria del Littorio, Roma-Milano 1929, pp. 305-306].

<La sconfitta – nota Franzinelli – è interpretata dai contemporanei come la fine di Mussolini> (p. 6). I contemporanei, come si sa, non capirono le potenzialità di quei Fasci fondati dall’ex direttore de “l’Avanti” pochi mesi prima, nella milanese piazza San Sepolcro, il 23 marzo, dopo poche riunioni preparatorie. Non era peraltro facile comprendere come potesse avere successo un movimento antipartitico e pragmatico, <palesemente eterogeneo, che raggruppava rivoluzionari e reazionari, repubblicani e monarchici, sindacalisti e imprenditori> (pp. 5-6). Franzinelliricostruisce sine ira et studio il clima politico e sociale di quel difficile dopoguerra di cento anni fa, quando emergono prepotenti lo scontento degli smobilitati e la debolezza della classe politica liberaldemocratica. Nonché il percorso che portò alla fondazione dei Fasci e il loro primo sviluppo. Di pregio la scelta di dare un contenuto ai nomi dei “sansepolcristi”, una lista peraltro più volte rimaneggiata. Attraverso le loro disparate biografie si può comprendere bene il magma umano dal quale nacque il fascismo, e anche il perché. Nomi notissimi, naturalmente, da Marinetti a Goldman, da Farinacci a Crollalanza, da Chiavolini a Bianchi, da Momigliano ad Arpinati. Ma anche nomi ignoti o dimenticati. Nomi di persone – in maggioranza milanesi e lombarde, ma non solo – che accompagnano il destino del futuro duce fino alla fine, ma anche di quelle che via via si perdono per strada, seguono altri percorsi, anche solo antimussoliniani o nettamente antifascisti.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

 

Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta nella storia italiana

Dino Messina, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta nella storia italiana, Solferino, Milano 2019

Dopo decenni di colpevole oblio, accompagnato da un negazionismo strisciante, anche grazie all’istituzione del Giorno del Ricordo la bibliografia sul dramma delle foibe e sull’esodo giuliano-dalmata è ormai rilevante e attendibile, al di là della memorialistica e della letteratura. Di quegli eventi così tragici e complessi del Novecento italiano si indagano e si portano alla luce anche vicende particolari che contribuiscono a chiarire il quadro d’insieme. Un quadro che opportunamente ricostruisce Dino Messina in questo saggio, appassionato e coinvolgente senza perdere il necessario rigore storiografico. Il suo viaggio parte dal Magazzino 18, nel Porto Vecchio di Trieste, che raccoglie le masserizie degli esuli che nessuno ha reclamato: <Duemila metri cubi di storia, di memorie> (p. 9).

Il racconto si snoda poi nella ricostruzione del contesto politico e militare in cui il dramma si è sviluppato, dopo l’8 settembre del 1943, quando i partigiani comunisti di Tito avviano con le prime stragi in Istria il lungo percorso che mira a cancellare, in un modo o nell’altro, la storica presenza italiana da quelle terre di confine. Un progetto di pulizia etnica che il ministro degli esteri di Tito, Josip Smodlaka, esplicita nel settembre del 1944 su “Nuova Jugoslavia”, rivendicando all’ex Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni una regione amplissima, che avrebbe dovuto comprendere parte del Friuli, Gorizia, Monfalcone, ovviamente Trieste, l’Istria, Fiume, Cherso, Lussino, Zara, sulla base del falso principio della prevalenza demografica slava sull’elemento italiano.

Messina illustra bene, oltre agli errori compiuti dal fascismo, le tre fasi in cui si sviluppa il dramma di quegli italiani, dai primi eccidialle varie tappe dell’esodo, agli anni nei campi profughi. E, attraverso testimonianze toccanti, lo spaesamento che li coglie quando, rinascendo per la seconda volta italiani, comprendono di essere accolti con distacco, imbarazzo e sospetto, come se la loro stessa esistenza fosse una colpa. La colpa, naturalmente, di essere presunti fascisti, mentre per i programmatori delle stragi e della pulizia etnica <non importava se chi indossava la divisa non era un fascista, anzi con il rischio della vita era passato nel fronte antifascista. Per non essere considerato “nemico del popolo” bisognava aderire al progetto di società socialista e nello stesso tempo appoggiare le pretese territoriali della nuova Jugoslavia> (p. 161). Come peraltro dimostrò, nel febbraio del 1945, la strage di Porzȗs.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

1948. Gli italiani nell’anno della svolta

Mario Avagliano, Marco Palmieri, 1948. Gli italiani nell’anno della svoltail Mulino, Bologna 2018//

Il  gennaio del 1948 entra in vigore la Costituzione della Repubblica Italiana. Frutto di un laborioso compromesso tra le forze politiche che avevano partecipato al Comitato di Liberazione Nazionale e ai primi governi dopo il periodo badogliano, rappresenta simbolicamente una svolta definitiva nella storia nazionale. Il 2 giugno del 1946 era stata eletta l’Assemblea Costituente e, con il referendum istituzionale, dal sistema monarchico si era passati a quello repubblicano. Dopo le presidenze del Consiglio di Ivanoe Bonomi e Ferruccio Parri la guida del governo era stata assunta dal leader democristiano Alcide De Gasperi. La fase transitoria della Repubblica si era conclusa. Le prime elezioni politiche furono dunque fissate per domenica 18 e lunedì 19 aprile. <Sono state un passaggio epocale – sottolineano Avagliano e Palmieri -, dall’esito tutt’altro che scontato> (p. 7). Se invece del blocco moderato e filo-occidentale avesse prevalso il blocco socialcomunista, l’Italia avrebbe imboccato una strada tutt’affatto diversa, che è anche difficile immaginare.

Al termine di <quella che può essere considerata la più accesa campagna elettorale della storia nazionale> (p. 7), l’Italia entrò a pieno titolo e senza dubbi, nel clima internazionale della “guerra fredda”, nell’area geopolitica liberaldemocratica, pur inaugurando la sua specifica anomalia politica, e cioè la presenza di un forte Partito Comunista, che nei fatti impedì l’alternanza tra due formazioni contrapposte, dando vita alla cosiddetta democrazia bloccata. Una anomalia che ha condizionato i decenni successivi. Ma in quale clima, con quali strumenti, con quali aspirazioni il popolo italiano visse lo scontro epocale del 18 aprile? A questi interrogativi rispondono gli autori in maniera esauriente ed efficace grazie a grande lavoro di scavo negli archivi pubblici e privati, utilizzando documenti, memorie, interviste, lettere. Ne deriva una densa e in qualche modo affascinante fotografia di un’epoca lontana, contrassegnata da scontri ideologici oggi impensabili. L’esito del 18 aprile non era già scritto, nonostante il sostegno americano e l’impegno della gerarchia cattolica a favore della coalizione centrista.

In quest’ottica, ampio spazio è giustamente dato all’attentato del 14 luglio contro il leader comunista Palmiro Togliatti. Il clima sociale e politico divenne incandescente. Una crisi generale, se non la rivoluzione, sembrò imminente. Ma Togliatti, il Pci e l’Unione Sovietica volevano realmente trasferire l’Italia nel blocco moscovita? E che cosa sarebbe avvenuto sul piano internazionale? E, soprattutto, come vissero questo momento gli italiani? Certo è che la Dc e i suoi alleati centristi furono in condizione, superata la crisi, <di avviare nel concreto la ricostruzione materiale, economica, sociale, politica e culturale del paese, sulla base dei valori del proprio mondo di riferimento> (p.367). Una storia che ha i colori del dramma, raccontata con rigore scientifico e grande maestria.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

Il populismo latinoamericano e la crisi della democrazia europea

Pasquale Serra, Populismo progressivo. Una riflessione sulla crisi della democrazia europeaCastelvecchi, Roma 2018

Sia pure senza fare esplicito cenno a neo-sovranismi e neo-populismi pentastellati, l’autore ritiene che i caratteri dell’attuale crisi politica italiana ed europea siano difficilmente comprensibili attraverso l’uso delle consolidate categorie destra-sinistra. L’emergere prepotente di nuovi soggetti trasversali al consolidato confronto-scontro tra le tradizioni socialiste e liberaldemocratiche – pur nelle distinzioni note all’interno dei due schieramenti – lo convince che occorrano nuovi strumenti di analisi. O meglio, strumenti che già in realtà esistono e terreni che sono già stati dissodati nei decenni passati attraverso l’analisi del nazional-populismo latinoamericano e, in specie, del peronismo argentino. L’invito è dunque quello di rileggere criticamente in particolare i lavori del sociologo Gino Germani (1911-1979) e del filosofo postmarxista Ernesto Laclau (1935-2014).

Come si sa, semplificando, per l’antifascista Germani – culturalmente radicato in Argentina prima del rientro in Italia – il populismo peronista si distingue radicalmente dal fascismo italiano per la differenza della base sociale: la borghesia, la classe media, nel caso del movimento mussoliniano; la classe lavoratrice urbana e rurale, la “massa disponibile”, nel caso del peronismo, che peraltro è connotato da sue peculiari destra e sinistra interne. Per questo <il peronismo, per Germani, fu realmente capace di dare risposte reali alle classi popolari, le quali, per la prima volta, guadagnarono diritti e dignità, e anche un certo grado di libertà concreta, e si integrarono finalmente nella vita nazionale diventando parte costitutiva di essa> (p. 6). Questo non vuol dire – precisa l’autore – che si debba <riproporre il populismo argentino come un modello positivo per l’Europa> (p. 9).

L’obiettivo del saggio – che rielabora e supera una larga messe di studi specifici – è piuttosto <quello di spingere l’Europa e il suo pensiero politico a confrontarsi con esso, perché dietro la crisi della rappresentanza democratica in Europa, quella scissione drammatica che qui da noi si è venuta a configurare tra sistema della rappresentanza e masse eterogenee, sempre più centrali, e sempre meno omogeneizzabili e integrabili nei quadri delle comunità nazionali, vi è il fatto storico, enorme, della eterogeneità sociale, su cui la cultura politica argentina, da Germani a Laclau, appunto, per ragioni legate alla specificità della sua storia> (p. 10), è stata in qualche modo costretta a riflettere a lungo. Invito non peregrino alla luce dell’uso e abuso che in questi anni, con grande superficialità e senza esiti convincenti, si fa della categoria destoricizzata di fascismo per tentare di definire espressioni politiche “altre” di ardua modellizzazione.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

Tutto è ritmo, tutto è swing. Il jazz, il fascismo e la società italiana

Camilla Poesio, Tutto è ritmo, tutto è swing. Il jazz, il fascismo e la società italianaLe Monnier, Firenze 2018//

Forse un libro in cui si scrive di <aristocratici di sangue blu> (p. 54), senza cogliere la tautologia, non andrebbe letto. Invece si tratta di una interessante ricerca di storia sociale, sia pure appesantita dalla pretesa di farne anche una storia politica e dalla preoccupazione costante di ribadire il carattere liberticida della dittatura fascista. E anche questa è una tautologia. L’argomento è d’altra parte scivoloso. Com’è noto, Romano Mussolini, figlio minore di Benito, è stato un grande jazzista e il padre, nel marzo del 1937, non esitò a rivelare di non avere <alcuna antipatia contro il jazz; come ballabile, lo trovo divertente> (p. 99). Altrettanto noto è che orchestre jazz si formarono numerose all’interno dell’Opera Nazionale Dopolavoro.

Come trattare dunque la storia del jazz in Italia, dove approdò, come in Europa, dopo la Grande Guerra, grazie ai musicisti dei transatlantici? Si può, naturalmente, calcare la mano sulle sue denunciate caratteristiche “negroidi” e poi – mentre maturavano le leggi razziali – ebraiche. Si può ironizzare della italianizzazione in “giazzo”, che fa il paio con il cachet ribattezzato cialdino (ma i francesi non sarebbero d’accordo). Si può gridare allo scandalo e titolare una recensione del libro “Allarmi son jazzisti! Musica negroide: così il fascismo boicottò Armstrong e Cole Porter [S.Cappelletto, “La Stampa”, 25/12/2018]. Si può anche minimizzare la circostanzama non lo fa l’autrice – che la spericolata stagione veneziana di Col Porter, del suo amante Boris Kochno e di sua moglie Linda, si chiuse nel 1927 quando <a seguito di un’irruzione della polizia a una delle innumerevoli feste, fu scoperto un “fiume” di cocaina e furono trovati una dozzina di giovani ragazzi seminudi o vestiti con abiti di Linda> (p. 57). Una questione di moralità pubblica, in sostanza, più che di musica, anche se il volume chiarisce in alcuni passaggi lo stretto legame tra il diffondersi del jazz e l’insorgere di preoccupazioni etiche tipiche di un paese profondamente impregnato di moralismo cattolico, quale era – salvo che in ambienti ristretti – l’Italia dei tempi. <Per alcuni aspetti – nota Poesio – il mondo cattolico fu più duro e più contrario al jazz del regime fascista> (p. 70). Famosa l’invettiva lanciata nel 1935 dai presuli del Triveneto, guidati dal viterbese patriarca di Venezia Pietro La Fontaine, contro i divertimenti moderni, l’uso dei costumi da bagno nelle spiagge, e naturalmente la musica sincopata. <Agli occhi della Chiesa ballare sui ritmi jazz spingeva a vestirsi secondo una moda succinta che portava a ammalarsi di malattie mortali oppure a dimagrire a tal punto da provocare infertilità mettendo a repentaglio l’istituzione del matrimonio> (p. 75). È noto che per gli stessi pregiudizi anche l’atletica leggera femminile (negli anni di Ondina Valla) fu contrastata dalla Chiesa.

Contro il jazz e i suoi derivati, che si diffusero anche grazie all’Eiar, scattò poi la molla protezionistica dei musicisti, che peraltro aiutò la nascita di un jazz italiano. Forse, dopo aver criticato il palese razzismo che trasuda dal saggio Jazz Band di Anton Giulio Bragaglia (1929), Poesio avrebbe potuto approfondire il tema dello scontro da tempo in atto nel mondo musicale italiano tra modernisti e tradizionalisti. Nel 1917 Marinetti aveva chiarito nel manifesto La danza futurista che <noi […] preferiamo Loïe-Fuller [la ballerina e attrice statunitense Marie Louise Fuller, 1862-1928] e il cake-walk dei negri>. Si sa che il pro-jazz Alfredo Casella e Gian Francesco Malipiero, fondarono con Gabriele d’Annunzio la “Corporazione delle nuove musiche”, animando un vivacissimo – a volte violento – dibattito culturale, a prescindere da questioni di ordine politico e dal razzismo. Forse non per caso 18 gennaio 1937 Alice de Fonseca scrive alla pianista, convivente e amante del Vate, Luisa Baccara: <Ti accludo questo avviso sui Kentucky Singers. Cesco ne organizza il giro in Italia, se dovessero interessare al Comandante dammene notizia che potrebbero cantare per Lui alla fine di febbraio. Sono pare degli artisti eccezionali> [cit. in G. S. Rossi, Storia di Alice, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 74]. “Les 5 Kentucky Singers” sono presentati dal volantino pubblicitario francese inviato al Vittoriale come “Les extraordinaires chanteursnègres, grandi interpreti di “negro spirituals” e “vocal jazz”.Alice de Fonseca è stata un’amante di Mussolini e lo seguì nella Rsi con il marito Francesco “Cesco” Pallottelli, noto impresario musicale.

Nonostante Bragaglia lo considerasse <musica ammattita e gambe storte>, frutto di una miscela di <snobismo anglosassone>, <americanismo> e <diavolerie dei negri>, il jazz non fu mai proibito, ma in qualche modo “italianizzato” rivedendo i testi e addolcendo i ritmi, nel contesto della crescente campagna contro l’esterofilia. Nel “Radiocorriere” del novembre 1941 si chiariva che la musica sincopata italiana aveva acquistato <il diritto di cittadinanza> e <non si può pensare di sopprimerla> (cit. p. 87).In fondo, lo stesso Bragaglia, dopo aver pubblicato Jazz Band, aveva messo in scena L’opera da tre soldi di Bertold Brecht e Kurt Weill con il titolo italianizzato La veglia dei lestofanti, presentandola come “Commedia jazz”. [cfr. L. Ianniello, Futurismo e Jazz. Occasione mancata o rapporto impossibile?, Tesi di diploma, Conservatorio di Musica di Frosinone, 2010, pp. 60-61].

Una vicenda complessa, dunque, quella trattata dal volume. Un intreccio non sempre ben illustrato – nonostante l’ampiezza delle fonti utilizzate – tra cultura, politica, musica, religione, spirito dei tempi. Un intreccio che risulta in verità più chiaro dal volume di Anna Harwell Celenza: Jazz all’italiana. Da New Orleans all’Italia fascista e a Sinatra, Carocci, Roma 2018. (G.S.R.)

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n.1, 2019, nuova serie, a. XXXI

20 luglio 1969, l’avventura che ci fece sognare

«Dai miei studi sono convinto che riusciremo in un’impresa impossibile per ogni altra nazione. Questo piano, degno di voi e del Gun Club, non potrà fare a meno di sollevare gran rumore nel mondo.
Molto rumore? Chiese un artigliere appassionato.
Molto rumore nel vero senso della parola. Rispose Barbicane».
Quando il centro Nasa di Houston comunicò al mondo che nell’estate del 1969 due suoi astronauti – Neil Armstrong ed Edwin Aldrin – avrebbero toccato il suolo lunare, a molti nostri connazionali tornarono alla mente le pagine scritte de Jules Verne più di un secolo prima, nel suo libro Dalla terra alla luna (De la Terre à la Lune. Trajet direct en 97 heures 20 minutes, Hetzel, Paris 1865) uno dei must dei giovani e degli adolescenti del Novecento, cresciuti nel mito del progresso e della conquista dell’ignoto.
Mentre sulle nostre spiagge risuonavano le canzoni di due giovani campani, Lisa dagli occhi blu di Mario Tessuto e Rose rosse per te, di un diciottenne dei quartieri spagnoli, Massimo Ranieri, l’emozione e l’attesa crescevano in tutto il Paese.
Quando venne comunicata da oltreoceano la data dello sbarco – 20 luglio – partì la corsa di giornali e tg nel prepararsi all’evento del secolo.
Quotidiani e periodici fecero a gara nel raccontare, nel dettaglio, i retroscena sia dell’ultima missione americana sulla Luna, quella di Apollo 10 (che aveva fotografato e filmato per la prima volta la superficie lunare) sia quella che Apollo 11 si apprestava a compiere.
Le vite dei due uomini incaricati di “passeggiare” sul suolo lunare furono vivisezionate da tutti i media del mondo.
Un mese prima dell’allunaggio, al centro di Houston fu il momento delle prove generali. Avvolti da scafandri praticamente identici a quelli delle illustrazioni dei libri di Verne ed armati di telecamere e sofisticate pale lunari, gli astronauti provarono a muoversi come se fossero già sul nostro satellite.
Prima di partire erano già due star. Il 10 giugno del 1969, l’inviato a Houston della “Domenica del Corriere”, Franco Goy, dopo aver assistito alla simulazione dello sbarco, scriveva così: «Ho visto il primo uomo sbarcare sulla luna. È nato a Wapakoneta, nell’Ohio, 39 anni or sono. Alto un metro e 78 centimetri, biondo con gli occhi azzurri, è ammogliato e ha due figli, Eric di 12 anni e Mark di 6. Appassionato di aeromodellistica fin dall’infanzia, dal 1949 al 1952 ha prestato servizio come pilota della Marina, combattendo in Corea. Si chiama Neil Armstrong. Un nome che ricorderemo».
Sullo stesso numero vennero pubblicate le immagini della Terra e della Luna fotografate dall’Apollo 10, con questa didascalia: «La somma di due prodigi. Un secondo prodigio dopo l’impresa di Apollo 10 s’è avverato: milioni di spettatori dei Paesi con la tv a colori hanno potuto godersi lo spettacolo fantasmagorico delle albe e dei tramonti della Luna e della Terra».
Eh già, perché quel che oggi sembra normale, 50 anni fa restava un sogno. Anche quello della televisione a colori, che era una realtà soltanto per i Paesi anglosassoni.
Intanto, i giorni passavano e la febbre saliva. Fino a quel fatidico 20 luglio 1969. In un fondo non firmato intitolato «Cieli aperti», il Messaggero scriveva: «Questa notte per noi italiani, e di giorno per coloro che abitano agli antipodi, non ci sarà che un solo pensiero e una sola trepidazione. Armstrong e Aldrin tenteranno l’eroica, la prodigiosa impresa».
Ma il meglio di sé lo diede la Rai (in quegli anni davvero la guida culturale e informativa del Paese), che alle 19 e 28 del 20 giugno, dallo studio 3 di via Teulada diede il via alla più lunga ed emozionante maratona televisiva della sua lunga storia, battuta solo undici anni dopo, nel 1981, dalla tragedia di Vermicino. Con la conduzione di Tito Stagno e Andrea Barbato, si andò avanti fino alle 23 del giorno dopo.
Alcuni numeri di quella trasmissione: quasi 28 ore di diretta. 500 ospiti coinvolti tra gli studi di Roma, Milano, Torino e Napoli. 8000 sigarette fumate, accompagnate da 6000 caffè. 250 dipendenti Rai impegnati, tra giornalisti, tecnici, impiegati e operai.
Infine, il numero dei numeri, che testimonia, senza bisogno di altre spiegazioni, come per oltre 24 ore l’intero Paese avesse trattenuto il respiro sovrapponendo la realtà al sogno: tra le 22.15 e le 22.30, i momenti dell’allunaggio, davanti agli schermi in bianco e nero disseminati in tutte le case, i bar e i ristoranti del Paese, si inchiodarono 19 milioni 300 mila persone.
Sembrava l’inizio di una nuova avventura, che avrebbe prima o poi coinvolto tutto il mondo occidentale, Italia compresa. Certo, da noi c’erano stati segnali di forte tensione l’anno prima, con i violenti scontri tra studenti e polizia prima a Roma e poi a Milano. Ma nulla lasciava presagire che questo sogno di avventura, di scoperta, di conquista sarebbe stato distrutto, per molti, troppi anni, da un incubo fatto di violenza, morte e sangue. Meno di 5 mesi dopo, la strage di piazza Fontana.

Nicola Rao

 

Da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

Francesco Carlesi, La terza via italiana. Storia di un modello sociale (Castelvecchi editore 2018)

Il 4 luglio 2019, nella sede della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, si è tenuta l’interessante e partecipata presentazione del volume di Francesco Carlesi, La terza via italiana. Storia di un modello sociale (Castelvecchi editore, 2018).

L’apertura dei lavori è stata affidata al prof. Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione e ordinario di Storia contemporanea nell’Unint di Roma. Partendo dalla struttura del volume e quindi dalla composizione tematica dello stesso, il professore ha messo bene in luce come – pur non costituendo un concetto squisitamente italiano – la terza via abbia avuto, nella storia del nostro Paese, un’importante elaborazione interna. Parlato ha poi tracciato, in grandi linee, il percorso delle terze vie: dagli anni ’40 dell’Ottocento francese alle posizioni tedesche, dal toniolismo all’eredità di Mazzini, fino al corporativismo di matrice fascista e all’esperienza importante, seppur sostanzialmente non sviluppata, della socializzazione nella RSI (1944-45).

Dopo l’intervento introduttivo di Parlato, l’autore, Francesco Carlesi, ha fornito un quadro molto ampio della sua ricerca. Iniziando dall’iter di elaborazione del lavoro, Carlesi ha indicato, quale origine dello stesso, tre motivi fondamentali: primo, un interesse specifico, in particolare per il corporativismo; secondo, l’osmosi tra esigenza accademica e partecipazione personale agli stimoli culturali derivanti dal tema; terzo, ma non ultimo per importanza, il legame con gli studi e gli insegnamenti del prof. Gaetano Rasi.

In una ben articolata presentazione dei contenuti del volume, Carlesi si è soffermato su alcune tappe centrali e identificative per il delineamento della terza via italiana; oltre infatti all’unione tra sociale e nazionale e al corso avuto da questo concetto durante il ventennio – periodo in cui, come ravvisato anche da Parlato, ad essere privilegiata fu la via del dialogo e non quella della chiusura (Carlesi ha portato due importanti casi, il rapporto con gli USA del New Deal rooseveltiano e il confronto aperto con l’URSS sul modello della pianificazione economica) –, l’autore ha stimolato la riflessione ampliando il discorso e creando, tra continuità e momenti di rottura, una linea coerente con le composite fasi della storia politica italiana. Molto interessanti i riferimenti, ad esempio, alle figure di Bombacci, Mattei, Olivetti e Craxi, come pure l’osservazione conclusiva: in estrema sintesi, finito il bipolarismo, finito il dibattito sull’alternativa al marxismo e al liberal-capitalismo.

La presentazione si è conclusa con le domande e le osservazioni del folto uditorio presente, occasione di ulteriore approfondimento delle complesse tematiche trattate e di richiami all’attualità.