Dall’Adriatico al Tirreno, l’approdo genovese degli esuli giuliano-dalmati

Petra Di Laghi, Da profughi ad esuli. L’esodo giuliano-dalmata fra cronaca e memoriaEdizioni Accademiche Italiane, Chisinau 2018

//Sviluppo editoriale della sua tesi di laurea magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli Studi di Torino, l’opera prima di Petra Di Laghi è dedicata all’accoglienza dei profughi istriani, fiumani e dalmati a Genova nel periodo 1945-1955. Oltre alla padronanza della bibliografia più aggiornata in merito alla complessa vicenda del confine orientale, l’autrice ha effettuato ricerche archivistiche a Genova e presso l’Archivio Museo Storico di Fiume al quartiere giuliano-dalmata di Roma.

La prima parte del volume è dedicata alle dinamiche che condussero all’allontanamento del 90% della comunità italiana dell’Adriatico orientale: in tal senso particolare rilievo è dato allo “spaesamento”, elemento determinante nella scelta dell’esodo assieme al clima di terrore diffuso dall’apparato poliziesco del nascente regime comunista jugoslavo. È inoltre ben contestualizzato il traumatico impatto dell’attentato dinamitardo titoista di Vergarolla che, con il suo lascito di decine di morti e di feriti tra i civili, fu una componente in più nell’indirizzare la quasi totalità degli abitanti di Pola ad esercitare l’opzione per la cittadinanza italiana e quindi l’abbandono della propria città. Prima di addentrarsi nel suo case study, l’autrice delinea le dinamiche dell’esodo a seconda della località di provenienza e specifica la scelta compiuta da molti, di fronte allo squallore dei campi profughi ed alla devastata situazione dell’Italia del dopoguerra, di emigrare oltreoceano (Americhe, Sudafrica, Australia).

A dispetto di quanto si potrebbe pensare conoscendo la tradizione comunista genovese e l’ostracismo che altre piazze “rosse” dedicarono ai connazionali in fuga dal confine orientale, la Di Laghi riferisce di un contesto che non ha manifestato avversione nei confronti dei circa 6.350 esuli giunti nel capoluogo ligure (8.500 in tutta la regione, stando al censimento contenuto in Amedeo Colella, L’esodo dalle terre adriatiche. Rilevazioni statistiche, Julia, Roma 1958). Costoro, fin dai primi arrivi, trovarono la prima accoglienza presso la stazione Principe a cura della Pontificia Commissione di Assistenza Auxilium e dell’Ente Comunale di Assistenza. La graduale sistemazione dei giuliano-dalmati a Genova avvenne non solo tramite il Centro Raccolta Profughi numero 72 della limitrofa Chiavari (ex colonia marittima fascista), ma anche attraverso la forma originale degli alloggi collettivi sparsi nell’area cittadina, sfruttando piccoli appartamenti e palestre. Solamente nel 1955 verranno edificate le prime case dell’Opera per i Profughi Giuliani e Dalmatiall’interno delle quali troveranno una collocazione anche i nonni materni dell’autrice, i quali hanno conservato nell’ambito della famiglia la memoria delle proprie radici e contribuito a stimolare l’attenzione e la passione storica della nipote verso queste pagine di storia nazionale troppo a lunghe rimaste in secondo piano.

Il lavoro della giovane ricercatrice genovese si contestualizza in un filone che ultimamente ha fornito interessanti contributi riguardo lo studio dell’arrivo e della sistemazione dei 350.000 istriani, fiumani e dalmati che avevano abbandonato le terre in cui vivevano radicati da secoli. Siamo passati dagli studi pionieristici non privi di memorialistica confezionati da Lino Vivoda (Campo profughi giuliani, Caserma Ugo Botti, La Spezia, Istria Europa, Imperia 1998) a Popolo in fuga. Sicilia terra d’accoglienza di Fabio Lo Bono, dedicato all’inserimento degli esuli nel contesto diTermini Imerese e recentemente pubblicato in una seconda edizione ampliata ed arricchita di contenuti. Se l’Istituto della Resistenza di Lucca ha sostenuto le ricerche di Armando Sestaniconfluite nel testo Esuli a Lucca. I profughi istriani, fiumani e dalmati 1947-1956 (Pacini Fazzi, Lucca 2015), un crescente numero di visitatori si reca al museo allestito dall’Unione degli Istriani all’interno dell’ex campo profughi di Padriciano sul Carso triestino.

Lorenzo Salimbeni

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2019, n. 1, nuova serie, a. XXXI.

 

La Destra, gli anni di piombo e l’illusione di Democrazia Nazionale

Giuseppe Parlato, La Fiamma dimezzata. Almirante e la scissione di Democrazia Nazionale, Luni, Milano 2017

// Nella ormai vasta e articolata offerta storiografica sulla destra politica post-fascista mancava una ricostruzione della vicenda di Democrazia Nazionale, il partito nato nel dicembre del 1976 per scissione dal Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale ed esauritosi nel 1979, dopo l’infausta partecipazione delle sue liste alle elezioni politiche di quell’anno, nelle quali raccolse appena lo 0,6% dei suffragi.
Non che siano mancati riferimenti nei volumi dedicati al Msi. Ma in quei contesti Democrazia Nazionale è stata trattata alla stregua di una semplice e velleitaria parentesi, appena più rilevante delle numerose altre micro-scissioni che hanno segnato il partito di estrema destra sin dalla fondazione.
Per dimensioni, caratteristiche, ambizioni Democrazia Nazionale fu in realtà molto di più e – per quanto breve – non può essere sminuita a episodio, ma è invece opportuno analizzarla come parte integrante della storia del postfascismo italiano. Giuseppe Parlato lo fa – si può dire finalmente – sulla base di un’accurata ricerca delle fonti, memorialistiche e archivistiche, ormai disponibili, collocando la vicenda nel fluire della storia del postfascismo e nel contesto degli avvenimenti politici italiani della seconda metà degli anni Settanta, essenzialmente caratterizzati dall’esperienza della “solidarietà nazionale”, che vide la collaborazione tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. I due partiti che insieme raccoglievano circa l’80% dei voti espressi, mentre si manifestava il clima degli “anni di piombo”, segnati dal terrorismo e dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro.
Un periodo particolarmente critico della storia repubblicana, che matura dopo la crisi della formula politica del centro sinistra, esauritasi con le elezioni politiche del 1972 dopo anni di fibrillazioni e incertezze. Anni in cui emerse la concreta opportunità per il Msi di tornare a svolgere – come negli anni Cinquanta – un ruolo politico non puramente testimoniale. La lunga leadership di Arturo Michelini era stata caratterizzata dal fallimento del progetto della “grande destra”, accettato dal Pdium di Alfredo Covelli ma rifiutato dal Pli di Giovanni Malagodi. Le elezioni politiche del 1968 per il Msi furono insoddisfacenti e ne certificarono l’isolamento. Con la morte prematura del segretario, l’anno successivo, la guida del partito fu affidata – e Parlato nel ricostruisce le ragioni – a Giorgio Almirante, che riuscì, grazie alla crisi del centro sinistra e alla battaglia parlamentare contro l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario, a imprimere una svolta movimentista, sia pure con elementi di ambiguità culturale e programmatica che costituirono il brodo di coltura degli avvenimenti successivi.
Nelle vicende interne al Msi, Almirante rappresentava le suggestioni identitarie del neofascismo, opposte alla prospettiva di una storicizzazione del regime messa in campo – pur con accenti diversi – da esponenti del partito quali Ernesto De Marzio, Nino Tripodi, Pino Romualdi. Con il ritorno alla segreteria, Almirante tentò di gestire le diverse componenti proponendo da un lato il Msi come “alternativa al sistema” partitocratico; dall’altro come fulcro di una alleanza dei moderati anticomunisti, sulla scia della “grande destra” micheliniana. Da qui la nascita della Destra Nazionale, aperta a personalita’ estranee al neofascismo, che tuttavia nelle elezioni politiche del 1972 – a causa della capacità della Democrazia Cristiana di recuperare il “voto utile” in senso anticomunista – non riuscì a conquistare un consenso tale da renderla politicamente indispensabile.
In fondo da quella vittoria “dimezzata” – in un’Italia spazzata dal terrorismo – nasce la crisi interna del partito che porterà alla scissione del 1976, paradossalmente grazie all’intuizione di Almirante di ampliare il progetto della Destra Nazionale accelerandolo con la più ambiziosa Costituente di Destra, che servì agli scissionisti come strumento regolamentare per la costituzione di gruppi parlamentari autonomi.
Una scissione di vertice, certamente, della quale Parlato ricostruisce efficacemente genesi, passaggi, particolari e motivazioni. L’unica scissione partitica della storia repubblicana caratterizzata dall’abbandono della maggioranza degli eletti in Parlamento, che consentì di attribuire alla nuova formazione una quota rilevante del finanziamento pubblico sul quale, all’epoca, si reggeva l’attività dei partiti. La reazione di Almirante – che rimase alla guida del partito con l’appoggio di Romualdi e Rauti – fu incentrata sul concetto etico di “tradimento”, mentre nella vulgata cominciò immediatamente a circolare il sospetto di una manovra ordita e finanziata dalla Democrazia Cristiana. Parlato dimostra come tale sospetto fosse infondato sul piano fattuale e politico, mentre sottolinea l’abilità di Almirante – a costo di un’inversione rispetto alle prospettive di moderatismo da lui stesso alimentate – nel suscitare lo sdegno e la relativa mobilitazione della base del partito, che solo in misura esigua aderisce alla scissione in sede locale. Lo stesso Andreotti, nel suo diario, alla data della scissione scrive: «Qualcuno si congratula con me: non so se ci sia da congratularsi, ma sta di fatto che io l’ho appreso soltanto dopo e nessuno mi aveva chiesto un parere in proposito». D’altra parte – come rileva Parlato – per la Dc «era preferibile avere un Msi nostalgico ed estremista piuttosto che una destra moderna e compatibile con il sistema». Non c’erano, in sostanza, le condizioni politiche perché l’avventura di Democrazia Nazionale – formazione peraltro molto litigiosa al suo interno e priva di una indiscussa leadership – potesse evolvere in un progetto stabile e aggregante sul versante politico della destra. Per certi versi, gli esponenti di Democrazia Nazionale – additati di “tradimento” – furono a loro volta “traditi” dalla Dc. O, meglio, tradite furono le loro velleitarie aspettative, frutto di una errata lettura politica del momento storico e del tenore dei loro rapporti con esponenti democristiani.
«Il vero problema degli scissionisti – rileva Parlato – fu proprio la mancanza di veri rapporti istituzionali con il potere: se a livello di singoli gli esponenti del mondo moderato avevano contatti e amicizie in campo democristiano (Tedeschi con Piccoli, Delfino con Andreotti, De Marzio con Moro, Nencioni con Fanfani, solo per fare qualche esempio), nessuno di tali rapporti si trasformò in rapporto politico; e ciò basterebbe per smentire la strategia Dc su Democrazia Nazionale: in altre parole, se la Dc avesse voluto la scissione, l’avrebbe fatta meglio. Al dunque, solo Fanfani si spese a favore di Democrazia Nazionale in occasione della costituzione del gruppo al Senato e ciò non dipese dai contatti e dai rapporti con gli scissionisti ma da riflessioni autonome del Presidente del Senato in ordine alla evoluzione della politica Dc». Gli scissionisti, dunque, furono utilizzati per ragioni di tattica interna al partito democristiano, non nel quadro di una prospettiva politica neo moderata di lungo respiro.
Il fallimento di Democrazia Nazionale era sostanzialmente già scritto in nuce. Fu un’operazione inattuale e ingenua che – al di là del destino personale dei singoli scissionisti, in larga parte consapevoli dell’errore commesso – determinò un rallentamento di quel processo di costruzione – come lo definisce Parlato – di un «collettore di un elettorato moderato e anticomunista che spesso si trovava in difficoltà a votare per la Dc». Per ragioni ben comprensibili, avendo riguardo alla natura culturalmente plurale di quello che è stato definito “arcipelago democristiano”, destinato col tempo ad esaurire la sua stessa esperienza.

Gianni Scipione Rossi

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX

Note e riferimenti bibliografici nella versione cartacea.

 

In ristampa il primo fascicolo 2019 degli “Annali” della Fondazione

Esaurita la prima edizione, è in ristampa il primo fascicolo semestrale degli “Annali” della Fondazione (Anno I, n. 1/2019 XXXI, nuova serie).

I filosofi Ugo Spirito e Giovanni Gentile e il sociologo Gino Germani sono i “protagonisti” del nuovo fascicolo degli “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, che ha aperto la nuova fase della rivista fondata nel 1989. Trentuno anni dopo, gli “Annali”, conservando le caratteristiche di rigore scientifico che li hanno fatti apprezzare nel tempo, diventano un periodico semestrale.

Nel quadro delle iniziative che la Fondazione ha in programma nel quarantennale della morte di Ugo Spirito e nel novantesimo anniversario della nascita di Renzo De Felice, il fascicolo si apre con una sezione dedicata al filosofo aretino, curata da Gianni Scipione Rossi. Contiene l’inedito Verso la grande civilizzazione, scritto da Spirito nel 1978, come appendice a un libro dedicato all’analisi e alle prospettive della “rivoluzione bianca” voluta in Iran dallo Scià Mohammad Reza Pahlavi, rovesciato all’inizio del 1979 dalla rivoluzione islamista degli ayatollah. Il libro non è mai stato pubblicato in Italia nella sua integralità e fu al centro di un giallo bibliografico, che il saggio introduttivo intende finalmente chiarire sulla base di una approfondita analisi delle fonti archivistiche.

Nella seconda sezione, “Giovanni Gentile nella cultura italiana”, curata da Rodolfo Sideri e introdotta da Hervé A. Cavallera, trovano spazio gli atti del convegno tenuto in Fondazione sul pensiero del filosofo. Questi i saggi: Il soggetto gentiliano tra esistenzialismo e postmoderno di Rodolfo Sideri; Eternità e divenire dell’atto. La critica di Gentile al relativismo, di Hervé A. Cavallera; La Teoria generale dello spirito come atto puro e la costruzione dell’attualismo, di Massimo Piermarini; El desafío del devenir, di Francesc Moratò; L’ombra del pensato. La teoresi gentiliana dell’errore, di Giuseppe D’Acunto; Vae soli, attualismo e solipsismo, di Tiziano Sensi;L’Enciclopedia di Gentile, di Alessandra Cavaterra.

Gino Germani, un inedito e il suo archivio” è il titolo della sezione dedicata al sociologo italo-argentino nel quarantennale della morte. La sezione è introdotta dalla studiosa argentina Ana Grondona, con il saggioAutoritarismo(s), clases medias y el problema de las generaciones , che introduce lo scritto inedito di Gino Germani presente nel suo archivio, conservato dalla Fondazione: Ceti e generazioni alla vigilia della Marcia su Roma. La sezione è completata dal saggio Gino Germani: la sociología, los viajes, el exilio, nel quale lo studioso argentino Juan Ignacio Trovero dà conto analiticamente del contenuto dell’archivio Germani. Grondona e Trovero, che hanno a lungo esaminato le carte Germani presso la Fondazione, lavorano presso l’Università di Buenos Aires e nell’Instituto de Investigaciones Gino Germani attivo nella capitale argentina.

Il fascicolo presenta inoltre i saggi La genesi del Consiglio Nazionale delle Ricerche (1915-1923), di Andrea Perrone; Il capodanno perduto del 1947, di Leonardo Varasano; Il fascismo e l’europeismo di Gian Domenico Romagnosi, di Matteo Antonio Napolitano; Un guascone nel Novecento: Valerio Pignatelli di Cerchiara, di Andrea Cendali Pignatelli.

Nella nuova sezione “Note sul Novecento”, Danilo Breschi pubblica Quella voglia di libertà che da Praga brucia ancora e Nicola Rao 20 luglio 1969, l’avventura che ci fece sognare.
Completano il fascicolo le recensioni, le segnalazioni librarie e le notizie sull’attività della Fondazione.

Per leggere gli Annali è possibile acquistare il singolo articolo, il singolo volume o l’abbonamento annuale, a queste condizioni:
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1969, quel giorno. Memoria semiseria di un adolescente

di Gianni Scipione Rossi

// Non avevo 16 anni. Seconda liceo in stile Coppedè, ma rimandato a settembre in matematica, come l’anno prima, e l’anno dopo. Perché mai ho rifiutato il Classico? Ma se nel 1968 non ti ribellavi, a qualunque cosa, chi eri? Se non ti ribelli a quattordici anni, chi sei?

Il mondo intero e gli ormoni erano in fermento. Quel giorno. C’è oggi un’ipertrofia di celebrazioni. Ma a me importava sul serio della Luna? Questo non riesco a metterlo bene a fuoco. A fuoco metto solo che da mesi puntavo E., che neppure mi guardava, o quasi. Ella non lo avrebbe fatto mai… Je t’aime… moi non plus. Ormai, comunque, ci si ripensava a fine settembre…

Evitare l’estate in campagna era impossibile, da rimandato. Ma non è che si zappasse… E ne guadagnai un Trotter, per andare a ripetizione in città. Talvolta. Talaltra al lago. Tanto non c’erano i cellulari. Viterbo. La mia città di nascita e del cuore. La città di vita era Roma, ovvio. Con una residua punta di nostalgia per Trieste, lasciata da poco. Anche sul confine orientale c’era una E., che non mi guardava…

Quel giorno. No, la Luna non era al centro dei miei pensieri. Ma c’era fibrillazione nella famiglia allargata ospite dei nonni. A loro della Luna importava meno di niente. Si erano stupiti per i dirigibili, gli aerei, le macchine. La modernità l’avevano digerita in due anteguerra e altrettanti dopoguerra. Che cosa vuoi che sia la Luna? Quella interessava la generazione di mezzo. Con un problema strategico. Nell’arcadia estiva dei nonni il televisore non c’era. E non ci mancava. Tre anni e un giorno prima avevo subito alla radio la tragica, catastrofica, incredibile sconfitta con la Corea del  del Nord.

Ma come si fa ad accontentarsi della radio mentre l’uomo alluna? Qualche lustro dopo avrei sostenuto il contrario, per ragioni di bottega. “Andiamo!”, ordinò mio zio al nipote maschio più grande, cioè sicuramente a me. “Andiamo!” E andammo, a traslocare l’arcano strumento urbano che doveva diventare villano.

Non c’erano suv in giro e l’Ape del mezzadro non sembrò adatto. Ma infilacela la monumentale tv lignea nel Maggiolone grigio topo del nonno, il mezzo di trasporto più ampio a portata di mano. Il televisore viaggio’ comodamente davanti, al posto della nonna. Un’avventura degna di Jules Verne, altro che Luna.

M’importava della conquista dello spazio? No, ma fu memorabile. Un’emozione difficile da descrivere. Incollati allo schermo, in circolo, nel salone dei pranzi familiari. “Fate silenzio!” Ne’ di Tito Stagno ne’ di Ruggero Orlando ho memoria. E anche oggi, con tutto il rispetto, non mi sembrano così importanti nella narrazione. Sarebbe meglio raccogliere quella di un contadino del Montana. È un po’ un tic narcisistico di noi giornalisti considerarci al centro della scena mentre abbiamo la fortuna di essere pagati per essere proprio lì.

Quel giorno. Gli eroi erano loro. Gli astronauti. Io non avrei mai avuto il coraggio. Mai. E loro ci portavano sulla Luna. Noi, al plurale, l’umanità. È servito a qualcosa? O era solo una inutile sfida da guerra fredda?  (comunque noi di qua la stavamo vincendo) Sotto il profilo tecnologico è servito, sicuramente. L’umanità è rimasta quel che era e sarà. Ma ogni tanto sogna.

Quel giorno, quanto sognammo quel giorno… Emozione, grida, paura… “E se precipita?” “Riusciranno a tornare?” “Fate silenzio!” Anche i nonni si emozionarono, pur indossando la maschera di un altero distacco.

A quindici anni e poco più pensi che se sei arrivato, con loro, sulla Luna, e hai sentito quel piede come tuo, la vita ti offrirà cose straordinarie. E sei felice. Ecco, quel giorno fui felice, accantonando E. Ce la giocheremo a settembre… Verrà lo so, verrà, la fine di agosto… Nell’attesa, con mia cugina, uscimmo a riveder le stelle. Un prato di lucciole ci abbagliò.

Poi ci sono toccati gli anni di piombo. Per un po’ non guardammo la Luna.

Ugo Spirito e l’Iran. L’inedito del 1978 in uscita a settembre

Nel quadro delle iniziative che la Fondazione sta intraprendendo a quarant’anni dalla morte di Ugo Spirito e a novant’anni dalla nascita di Renzo De Felice, per ricordare e valorizzare l’opera del filosofo e dello storico, particolare rilievo assume il programma di pubblicazione di una serie di volumi in co-edizione con la casa editrice Luni di Milano. L’iniziativa è resa possibile dalle previsioni ex Art. 1, comma 416 della Legge 30 dicembre 2018, n. 145.

Si tratta di pubblicare inediti e di rendere disponibili testi poco conosciuti, in particolare gli scritti giornalistici di due autori che, ciascuno nel suo campo, hanno dato lustro alla cultura italiana del Novecento.

Il primo volume a vedere la luce –  nel mese di settembre 2019 – sarà l’inedito di Ugo Spirito Filosofia della grande civilizzazione, a cura e con introduzione di Gianni Scipione Rossi e con una postfazione di Hervé A. Cavallera.

Negli ultimi mesi di una vita segnata da una speculazione che tende a inverarsi nell’azione politica, Ugo Spirito ha lavorato a un volume sull’Iran governato da Mohammad Reza Pahlavi. Un libro rimasto inedito nella sua stesura integrale e oggetto, in tempi diversi, di manipolazioni e censure, Conservato nel suo archivio privato, a quarant’anni di distanza il testo appare per la prima volta nella sua versione originale, che rivela il reale pensiero del filosofo.

Lo sforzo compiuto da Spirito è stato volto, nell’autunno del 1978, a comprendere e illustrare criticamente le linee guida della “rivoluzione bianca” dello Scià – avviata nel 1963 – inquadrandole nella storia della Persia e valutandone le possibili evoluzioni, mentre il Paese era sconvolto dalle proteste di piazza sfociate nel 1979 nella rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeyni.

In preparazione:

Ugo Spirito, Filosofia della grande civilizzazione. La “rivoluzione bianca” dello Scià, a cura di Gianni Scipione Rossi. Postfazione di Hervé A. Cavallera, Luni Editrice/Fondazione Ugo Spirito e a Renzo De Felice, Milano-Roma 2019

Il volume sarà acquistabile attraverso i normali canali di distribuzione e presso la sede della Fondazione.

Per prenotarlo: info@www.fondazionespirito.it

 

 

 

Dall’Archivio: Ugo Spirito, Romagnosi e l’idealismo (1925)

L’Archivio di Ugo Spirito è comparabile a uno scrigno: contenitore del passato, ma custode del presente e del futuro. Tra le numerose carte e i molti estratti, questo breve scritto sul rapporto tra Gian Domenico Romagnosi e l’idealismo – pubblicato sul noto «Giornale critico della filosofia italiana», diretto da Giovanni Gentile – svela, con un’analisi obiettiva, rigorosa e critica, un tratto fondamentale della costruzione filosofica di Romagnosi. Sul finale, inoltre, Spirito si pose il non scontato problema della memoria del contributo romagnosiano nel suo tempo. Nella sintesi, dunque, molta sostanza.

Trieste, ancora pochi giorni per visitare la mostra su Camillo Castiglioni a Palazzo Gopcevich

Trieste – Ancora pochi giorni – fino  a domenica 21 luglio – per ammirare la mostra Camillo Castiglioni e il mito della BMW, organizzata dalla Fondazione Franco Bardelli e dal Comune di Trieste con la collaborazione di BMW Group Archiv e della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. La mostra, curata da Mauro Martinenzi e Susanna Ognibene, si è aperta sabato 29 giugno. Notevole nelle prime due settimane di apertura l’afflusso del pubblico, interessato a scoprire la figura del grande imprenditore e finanziere triestino nella sala Attilio Selva di Palazzo Gopcevich, via G. Rossini 4 (orario 10.00-17.00, ingresso gratuito).

La mostra si pone l’obiettivo di raccontare – dopo decenni di oblio –  la straordinaria vita di Camillo Castiglioni, uno dei più grandi finanzieri e industriali europei negli anni Dieci e Venti del Novecento, con un particolare approfondimento relativo al periodo in cui come proprietario della BMW ne favorisce la trasformazione in una fabbrica motociclistica. L’intento è stato quello di realizzare un’esposizione che valorizzasse e ponesse in risalto sia la singolare storia umana del Castiglioni, che va oltre la connotazione politica dell’epoca, sia la società, il contesto culturale, politico ed economico attraverso cui il nostro personaggio si muove e vive, con particolare riferimento alle sue radici triestine ed ebraiche. In mostra numerosi pannelli illustrano l’intera vicenda umana di Castiglioni e, grazie, alla ricerca effettuata negli archivi e nei musei triestini, il fortissimo legame con la città natale. Camillo Castiglioni nacque infatti a Trieste il 22 ottobre del 1879 da Vittorio, pedagogista ed ebraista, (vice rabbino di Trieste, poi rabbino capo di Roma dal 1903 al 1911), e morì a Roma il 18 dicembre del 1957.

La Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice partecipa con il prestito di numerosi e rilevanti documenti, conservati nel Fondo Archivistico dello storico e diplomatico triestino Attilio Tamaro, fin da giovane amico di Castiglioni, con il quale ha intrattenuto per anni una fitta corrispondenza. Altri documenti provengono dall’archivio BMW di Monaco di Baviera, così come la motocicletta voluta e commercializzata da Castiglioni nel 1923. Dal Museo Revoltella proviene uno splendido quadro di Nomellini, donato dal finanziere nel 1927. Il catalogo della mostra – Camillo Castiglioni e il mito della BMW, Goliardica Editrice, Trieste – è curato da Susanna Ognibene e Mauro Martinenzi, con introduzioni di Fred Jakobs, Head BMW Group Archiv, e di Gianni Scipione Rossi, autore della biografia Lo “squalo” e le leggi razziali. Vita spericolata di Camillo Castiglioni (Rubbettino, 2017). 

Quella “macchina imperfetta” che volle illudersi “totalitaria”

Guido Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna 2018//

Nel sottolineare l’inadeguatezza di una storiografia del fascismo in parte influenzata dal “senno del poi”, Domenico Settembrini evidenziò la contraddizione insita nell’inversione logica tra causa ed effetto. Nell’assumere dunque l’effetto come evidenza incontestabile della causa. Ne derivano numerosi paradossi. Tra questi: «Il fascismo ha, dopo il 1925, istituito uno Stato totalitario? Dunque, era nato proprio per fare questo». Ma lo Stato totalitario che il fascismo avrebbe immaginato, o sperato, o tentato, di fondare, quale si presenta – pur con alcune significative problematicità, in primis la persistente diarchia al vertice di tale Stato – quasi al termine del ventennio mussoliniano, alla vigilia della seconda guerra mondiale, fu l’esito di un articolato, coerente e razionale progetto di sostituzione radicale dell’assetto dello Stato liberale? Nella sostanza, fu una vera rivoluzione? E fu subito regime, per dirla con Emilio Gentile?
Interrogativi non banali alla luce della ampia e profonda ricerca condotta da Guido Melis sulla storia dello Stato attraverso il fascismo. Con la capacità di scavo e di analisi tipica dell’autore, La macchina imperfetta fornisce risposte esaurienti quanto spesso sorprendenti e si pone, come ha notato Sabino Cassese, «a pieno titolo accanto all’altro grande studio sul fascismo, la biografia mussoliniana di Renzo De Felice».

Se si volesse individuare un paradosso simbolicamente molto significativo dell’imperfezione della “macchina” fascista, tra i tanti, potrebbe essere scelta la stessa qualifica di “Duce” che nel Ventennio viene attribuita al dittatore. Ma il titolo di Duce riservato a Mussolini era tale solo nel contesto della militanza fascista, dunque titolo con enfatica valenza politica, oppure aveva sostanza istituzionale e rilevanza giuridica? La vicenda è particolarmente complessa e tradisce la travagliata evoluzione dello Stato nel fascismo verso l’approdo in un regime totalitario a tutti gli effetti. Il costituzionalista Giuseppe Volpe, ricorda Melis, ha rivelato che il titolo, riferito a Mussolini, «appare per la prima volta in un atto governativo ufficiale nella circolare del 19 settembre 1923 inviata dal ministero dell’interno-comando generale della Milizia […] ai comandanti di zona». Ma in realtà, sul piano giuridico costituzionale, Mussolini non è Duce, bensì Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato. Dunque, mentre il regime procede per tappe successive e non senza ambiguità a includere nello Stato la Milizia, il Partito, il Gran Consiglio, resiste a lungo una sorta di vita parallela del fascismo e dello Stato, che si manifesta persino nella percezione del capo, come se si trattasse, appunto, di confluenza nella medesima persona di due realtà separate. Sull’esempio dei regni che attribuiscono allo stesso sovrano due corone che di per sé non determinano l’unità dei due Stati. Solo nel decreto legge del 1937 che istituisce la Gioventù Italiana del Littorio appare la definizione “Il Duce, Primo Ministro e Segretario di Stato”, in luogo di Capo del Governo. E solo nel 1939, con una circolare, si impone che sia utilizzata, «nelle premesse dei Regi decreti, nelle intestazioni dei decreti del DUCE [che diventa a questo punto tutto maiuscolo] e in ogni norma contenuta in leggi o decreti», la dizione “DUCE del Fascismo Capo del Governo”.
Mussolini Duce in ritardo, dunque. O, se si vuole, Duce con riluttanza, come se il capo del fascismo non avesse ben chiara la volontà di fare dello Stato governato dal fascismo uno Stato integralmente fascista. Contestualmente, nella Germania nazista, il titolo di Führer attribuito a Hitler assume immediatamente un valore ufficiale e indica il Capo del Governo.
La travagliata sorte della definizione di Mussolini come Duce non è solo una curiosità storiografica, un particolare marginale. Questo camminare a tentoni, tra strappi, frenate, accelerazioni, scarti laterali, è tipico – come Melis mostra efficacemente – di tutto il percorso di costruzione dello Stato che si vorrebbe totalitario. Attiene al processo di formazione delle leggi, alla modificazione del ruolo del Consiglio dei Ministri, che perde di rilevanza solo dopo il 1928, ai poteri dei Sottosegretari, ai rapporti tra il Partito e lo Stato, sia al centro sia in periferia. Riguarda teoricamente e praticamente il confronto tra il diritto di tradizione liberale e il “nuovo diritto” che avrebbe dovuto testimoniare e sostanziare l’avvenuta rivoluzione politica. Riguarda il cangiante ruolo del Parlamento, progressivamente emarginato, fino alla sostituzione della Camera dei deputati con la Camera dei fasci e delle corporazioni, che si manifesta – al di là dei proclami – come inutile orpello. Riguarda il ruolo del Consiglio di Stato guidato da Santi Romano e quindi la giustizia amministrativa. Riguarda il rapporto tra il governo e le pubbliche amministrazioni, compresa la miriade di enti pubblici creata per gestire grandi e piccoli interessi e attività. Riguarda il rapporto con le élite militari e, in generale, la burocrazia, per non dire della magistratura. «Gli stessi concorsi, pur riformati – nota Melis – diedero risultati, dal punto di vista di una eventuale fascistizzazione dei magistrati, abbastanza modesti». Solo negli anni Quaranta l’iscrizione al Pnf avrebbe consentito vantaggi di carriera, ma nella realtà continuarono a prevalere i criteri di qualificazione professionale. «Insomma, la “macchina”, a distanza ormai di quasi un ventennio, non poteva proprio dirsi perfetta, né tanto facile da pilotare come forse si era ingenuamente ritenuto nell’ottobre 1922, nell’ebbrezza della conquista del potere».
Certo, gli “uomini nuovi” di Mussolini entrarono – spesso in disaccordo tra loro – nelle stanze del potere e lo gestirono. Ma con strumenti e comportamenti rapsodici, tali da far dubitare della reale intenzione e/o capacità di modellare uno Stato totalmente altro rispetto a quello liberale. Né diede frutti la tardiva accelerazione della svolta corporativa. Ad emergere in modo prepotente, e Melis lo mette acutamente in evidenza, è il principio della continuità che si invera nella prassi. Tanto che un ignoto burocrate può registrare, senza enfasi alcuna, a proposito della riunione del Consiglio dei ministri in calendario per il 31 luglio 1943: «Non ha avuto luogo per mutamento del Ministero». Una nota dettata da innata prudenza, forse. Ma simbolica della perdurante percezione dello Stato come istituzione superiore ai regimi politici, nonostante si prefiggano laceranti rotture.
Guido Melis è convincente nel trarre le conclusioni del suo lavoro.
«Tardive e spesso contraddittorie – scrive lo storico sassarese – sono le riforme nel campo del diritto, in quello dell’economia, persino nell’assetto della società. Una molto conclamata e celebrata rivoluzione economica (il corporativismo) rimane in gran parte sulla carta, al punto che la vera “rivoluzione” sarà la nascita, quasi inavvertita, dello Stato imprenditore, che si costituirà al di fuori del contesto corporativo e sarà destinato a sopravvivergli. Emerge la novità ambigua di uno Stato-partito costruito ex novo modificando in profondo la Costituzione liberale, ma al tempo stesso condizionato sino all’ultimo dalla sopravvivenza degli antichi equilibri: cioè dal modello di Stato ideato a fine Ottocento dai maestri del diritto costituzionale e amministrativo».
E ancora: «Domina, sullo sfondo il paradosso della diarchia, un regime che si dice totalitario ma che conserva un re formalmente sovrapposto al duce».
«Il panorama delle élite sociali resta estremamente composito, con larga prevalenza di elementi di continuità su quelli del cambiamento. […] Insomma, un totalitarismo sempre annunciato e mai interamente realizzato, un sistema di istituzioni imperfetto, fatto di nuovi e vecchi materiali confu- samente assemblati senza un progetto lineare, con un’evidente vocazione, nei momenti cruciali della ricostruzione dello Stato, al compromesso tra vecchio e nuovo».
In definitiva, chiarisce Melis, il fascismo «fu un fenomeno molto più complesso del regime totalitario che la storiografia si è spesso rappresentata, illudendosi di poterlo racchiudere in quell’aggettivo». Il fascismo, in un certo senso, fu molto di più e molto di meno. A un tempo totalitario e articolato, a suo modo pluralista, in sostanza incapace di plasmare nel profondo l’auspicata “Italia in camicia nera” e anche di portare a compimento – pur avendo tentato questa strada – la nazionalizzazione degli italiani avviatasi con la Grande Guerra. Nel fallimento del progetto molta parte ha avuto il carattere di Mussolini. E Melis concorda con l’analisi psicologica di Renzo De Felice, quando evidenzia nel dittatore l’irriducibile tatticismo che lo portava fatalmente a scegliere il compromesso perpetuo, tra gli uomini e nelle decisioni politiche. Anche per questo si può dire che il fascismo abbia terminato il suo ciclo storico il 25 luglio 1943. Dopo si può parlare di neo-fascismo. Ma questa è un’altra storia.

Gianni Scipione Rossi

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX

Nella versione cartacea i riferimenti bibliografici.

Alla corte di Mao. Storia di un mito costruito in Occidente

Mario Tesini, Lorenzo Zambernardi (a cura di), Quel che resta di Mao. Apogeo e rimozione di un mito occidentaleLe Monnier, Firenze 2018.

// Alla fine degli anni Sessanta del Novecento – intorno al Sessantotto, per intenderci – prima del riconoscimento diplomatico della Repubblica Popolare Cinese da parte italiana (6 novembre 1970) e dunque prima dell’insediamento delle rispettive ambasciate, nel cuore del quartiere Pinciano, a due passi dal Parco dei Daini, una anonima palazzina romana diventò meta di un vero e proprio pellegrinaggio. A piccoli gruppi, qualche solitario, i figli del generone – professionisti, alti dirigenti statali e parastatali, possidenti – bussavano alla porta della rappresentanza commerciale cinese. Con molta cortesia i funzionari, ormai avvezzi, consegnavano rapidamente ai questuanti in eskimo, talvolta in loden, una copia delle Citazioni delle opere del presidente Mao Tse-Tung, volgarmente chiamate Libretto rosso, diffuso nel corso dei decenni forse in oltre un miliardo di copie e tradotto in una cinquantina di lingue. Né mancavano, ad accompagnare il volumetto, almeno un paio di spille metalliche circolari con l’effige di Mao, da applicare ai soprabiti come reliquie.

A pochi anni dall’inizio della “rivoluzione culturale”, il mito del “grande timoniere aveva attraversato il mondo ed era vicino al suo apogeo. Un mito durevole, in verità, che persiste anche dopo la sua morte, nel 1976, quando il carattere violentemente repressivo della “rivoluzione culturale” è ormai universalmente noto, anche senza la necessità della sconfessione formale che era toccata a Stalin in Unione Sovietica.

Sarebbe ingeneroso imputare al newyorkese di origini rutene Andy Warhol, la nascita e la persistenza del mito. Tutt’al più si può parlare di eterogenesi dei fini. Il geniale profeta della Pop Art, nel 1972, trattò l’immagine del leader comunista cinese come un semplice oggetto di consumo, perché tale era diventato, alla stessa stregua della Campbells Soup, di Marylin Monroe e di “Che” Guevara, parimenti oggetto di un mito nato in quegli anni, distinto da quello maoista per non essere stato – il medico argentino – a capo di una potenza politica mondiale.

Come è bene illustrato dai saggi che Mario Tesini e Lorenzo Zambernardi hanno raccolto in un volume che opportunamente ha colmato un vuoto storiografico, il mito di Mao nasce ben prima e incanta e forse illude in Occidente un’amplissima gamma di intellettuali alla ricerca di un modello culturale e sociale lontano dal liberalismo e dal capitalismo e non appiattito sul totalitarismo sovietico, in particolare dopo la denuncia dei crimini staliniani nel 1956. In qualche modo, quel mito, incarna – paradossalmente – il sogno di una società di uguali apparentemente priva di una forte guida autoritaria. Ed è durevole al punto che anche in anni recentissimi – come nota Giovanni Belardelli – <chi ricorda in particolare gli anni della Rivoluzione culturale continua ad attingere all’immagine circolante negli anni Sessanta in Occidente: cioè all’immagine, priva di riscontri nella realtà storica ma ciò nondimeno resistentissima, di una rivoluzione libertaria e non violenta, destinata più che obiettivi di tipo politico o sociale a rendere migliori gli esseri umani>.

Il mito coinvolse anche Hannah Arendt, che quando nel 1966 ripubblica Le origini del totalitarismo considera il comunismo cinese, al massimo, un regime semi-totalitario. Francesco Raschi nota come la Arendt osservi <che dopo l’iniziale spargimento di sangue, con conseguente eliminazione dell’opposizione politica, il terrore non si è “intensificato” come all’epoca di Stalin, così come non sono stati creati dei “nemici oggettivi” e non sono stati “apertamente compiuti, crimini”>. Per la Arendt è il nazionalismo innato del popolo cinese a limitare il totalitarismo. E d’altra parte Mao non sarebbe un <omicida per istinto> come Stalin ed Hitler.

Nella realtà, in quegli anni, le caratteristiche liberticide del comunismo cinese cominciavano a essere ben note, ma il mito in luogo di cadere permane e in qualche modo si rafforza, sostenuto dagli intellettuali all’epoca più influenti d’Europa, a cominciare daSimone de Beauvoire e Jean Paul Sartre, che nel 1972 avallava il maoismo sostenendo che <la violenza rivoluzionaria [] è immediatamente e profondamente morale>. Per non dire di Maria Antonietta Macciocchi, che pubblica nel 1971 Dalla Cina. Dopo la rivoluzione culturale, un ponderoso volume nel quale <dava mostra di un filomaoismo sconfinato>.

Perplessa e delusa dal comunismo sovietico, la sinistra culturale europea andava cercando nuovi modelli e li individuò in un comunismo cinese narrato come una soluzione dal volto umano. <La vita sociale cinese si poneva come il modello di un’umanità alternativa>, assicurava Umberto Eco nel 1971. <Mao – scriveva nel 1967 Alberto Moravia – non vuole il potere personale attraverso la violenza, come Stalin. Mao l’educatore, Mao il dialettico, vuole il potere ideologico attraverso la persuasione e l’educazione>. Come se il condizionamento pervasivo delle coscienze non fosse esso stesso una forma di violenza, alla quale peraltro si accompagnava la violenza in senso proprio.

Negli anni posteriori all’inizio della rivoluzione culturale cinese il mito di Mao e del suo comunismo “diverso” si diffonde rapidamente anche in Italia, ben oltre i confini in fondo angusti dei movimenti politici che a esso espressamente si richiamano, dal gruppo del Manifesto di Rossana Rossanda e Luigi Pintor all’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) di Aldo Brandirali, ai nazi-maoisti della Lotta di Popolo di Enzo Maria Dantini e Ugo Gaudenzi. In morte di Mao “il Manifesto” dedicò al “grande timoniere” questo lunghissimo titolo in prima pagina: <È morto il compagno Mao Tse-Tung. Ci ha insegnato che il comunismo è il radicale rovesciamento della storia fondata sull’egoismo e sullo sfruttamento. Per questo dalla Cina “arretrata” è partito il solo suggerimento adeguato per affrontare la crisi di civiltà dell’”avanzato” Occidente>. Nella stessa data del 10 settembre 1976 il neonato quotidiano scalfariano “la Repubblica” annunciava a caratteri cubitali che <È morto il grande Mao>. Lontano da suggestioni maoiste, “Lotta Continua” si atteneva a un più registrativo <Il compagno Mao Tse-Tung è morto”, sulla scia del quotidiano del Pci “l’Unità”, con il suo “È morto il compagno Mao Tse-Tung.

Le “massime” di Mao cominciano tra gli anni Sessanta e Settanta a entrare nel lessico comune e vengono citate a più riprese anche da personalità politiche a posteriori inimmaginabili, come peresempio il socialista Giuliano Amato.

Ma il fenomeno – come si è detto – ha origine qualche lustro prima, con i “pellegrini politici”. Il primo viaggio di intellettuali con il consenso del governo italiano è dell’ottobre 1955. Ne derivò, l’anno successivo, come ricostruisce Cristina Baldassini, un corposo numero speciale della rivista di Pietro Calamandrei “Il Ponte” intitolato La Cina d’oggi. Nel suo contributo il giurista fiorentino di formazione azionista scrisse con afflato poetico che la festa nazionale del primo ottobre nella Repubblica Popolare non aveva <nulla che somigli[asse] alle funebri adunate totalitarie di nostra vecchia conoscenza: dinanzi alla Porta della Pace abbiamo visto passare per quattro ore di seguito non una sfilata di sudditi disciplinati, ma uno spontaneo rigoglio naturale di colori teneri e nuovi come quelli che si trovano solo dei fiori di campo… […] Quello non era un corteo comandato: era un canto, una danza, era una spontanea effusione di gioia collettiva: tutto un popolo in festa, lo sbocciare irresistibile, per legge di natura, di una nuova stagione>.

Ci si può chiedere come sia stato possibile che il mito abbia potuto nascere e svilupparsi in modo dirompente per alcuni decenni, salvo ripiegare – parzialmente – a partire dagli anni Ottanta. Se si può comprendere nel contesto della politica internazionale dei blocchi e della realpolitik di Kissinger che portò nel 1972 allo storico viaggio di Nixon a Pechino, è più difficile – certo, col senno del poi – capire un innamoramento collettivo così capace di travisare la realtà da coinvolgere, per dire, anche il presidente liberalconservatore francese Giscard d’Estaing. Un fenomeno diffuso e che, a parte la convinzione di Moravia di poter coglierela felicità dei cinesi non parlandoci, ma dallo sguardo, raggiunte vette di stupidità forse insuperabili. È il caso dello psichiatra italiano Giovanni Jervis, che sulla scia dell’argentino Gregorio Bermann, nel 1971 elogiò il testo cinese Fare affidamento sul pensiero di Mao Tsetung per guarire le malattie mentali. E il florilegio potrebbe continuare…

Il manifestarsi appieno della brutalità del totalitarismo sovietico spiega molto. Ma vi è un altro elemento, come suggerisce Giovanni Belardelli. Oltre alla suggestione suscitata all’orgoglioso riaffacciarsi con prepotenza sullo scenario mondiale di un paese poverissimo, va considerato che <la Cina assumeva nel 1955, con la conferenza di Bandung, una posizione di primo piano nell’ambito del movimento dei non allineati e del processo di decolonizzazione. E questo non poteva restare senza influenza su quegli intellettuali europei che provavano un senso di colpa per il passato coloniale dei loro paesi Inneggiare alla nuova Cina, magnificarne le conquiste sociali ottenute senza l’impegno – si diceva continuamente benché non se ne avessero le prove – di una violenza paragonabile a quella sovietica, era un modo per liberarsi dal peso del retaggio coloniale>.

Questa convincente spiegazione di una cecità trasversale non può tuttavia adattarsi al caso di Ugo Spirito, non trattato nel volume. Il filoso del problematicismo, dopo la seconda guerra mondiale, va in realtà cercando nuovi orizzonti. Anche lui è un “pellegrino politico”. È del 1956 il suo viaggio in Unione Sovietica e non ne trae sensazioni negative. Raggiunge la Cina nel 1960. Ne scaturiranno gli scritti sui comunismi sovietico e cinese poi raccolti in volume unico. Sul finire degli anni Settanta, in Memorie di un incosciente, così scrive di quelle esperienze: <Vidi gli uomini più rappresentativi della Cina, e mi incontrai finalmente con Mao. Il colloquio ebbe per me un’importanza fondamentale. L’impressione che ne ricevetti andò molto più lontano di ogni mia aspettativa. La sua grandezza mi apparve nella sua genuina profondità. Mao aveva dimensioni eccezionali. Guardandolo negli occhi, se ne aveva la sicurezza assoluta>. Per Spirito, ancora a distanza di decenni, pur con un acquisito distacco e con l’ammissione di non sapere <che cosa sia avvenuto in questo tempo>, il comunismo russo e cinese restano <lo spettacolo di una conquista assoluta che non potrà più ripetersi. Si tratta di un miliardo di uomini che hanno creduto alla nascita della verità>. La fascinazione dunque ci fu. Pari a quello di tanti intellettuali. Tra quelli più coinvolti, anche politicamente, solo Luigi Pintor ebbe a riconoscere nel 1999 che <fu un errore, una clamorosa scivolata, causata dalla necessità di sostituire quello (sovietico) con altri modelli internazionali. Restammo abbagliati dalle suggestioni della rivoluzione cinese, cui attribuimmo – sbagliando – valenze liberatrici>. Una onestà intellettuale, sia pur tardiva, che va riconosciuta al vecchio agitatore comunista. Una onestà che è mancata a una miriade di esaltatori del “grande timoniere”.

Gianni Scipione Rossi

Il testo completo di note in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), XXXI

Premi per giovani con laurea specialistica o magistrale: ecco il bando per partecipare

1. Nell’ambito del programma delle attività istituite per celebrare il quarantesimo anno dalla scomparsa di Ugo Spirito (28 aprile 1979) e il novantesimo della nascita di Renzo De Felice (8 aprile 1929), la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice di Roma bandisce un concorso destinato a neolaureati.
2. Possono prendere parte al concorso i cittadini italiani che siano in possesso di laurea specialistica o magistrale conseguita a partire dal 1° gennaio 2015 ed entro, e non oltre, la data di pubblicazione del presente bando.
3. Si può partecipare presentando progetti di ricerca che mirino alla riscoperta, approfondimento e valorizzazione dell’opera del filosofo Ugo Spirito o dello storico Renzo De Felice, esaminati anche nel più ampio contesto della cultura italiana ed europea del Novecento. Pertanto, le ricerche potranno essere svolte lungo due indirizzi di studio, filosofico e storico. Sarà altresì possibile svolgere uno studio di taglio interdisciplinare, al contempo storiografico e filosofico, sempre e comunque inteso a valorizzare le fonti documentarie, bibliotecarie e archivistiche, presenti presso la Fondazione.
4. Il concorso prevede la selezione da parte del Comitato scientifico dei primi dieci migliori progetti di ricerca. Una volta selezionati, e comunicata la decisione ai diretti interessati, i progetti dovranno essere elaborati e redatti nell’arco di quattordici mesi (dal 1° ottobre 2019 al 30 novembre 2020). Tra questi dieci elaborati finali (di lunghezza non inferiore alle 50.000 battute – spazi inclusi –; più dettagliate norme redazionali verranno comunicate in seguito ai dieci selezionati) il Comitato scientifico premierà le tre ricerche valutate più valide per rigore scientifico ed originalità interpretativa. Il premio consisterà nell’assegnazione di tre borse di studio, dell’ammontare rispettivamente di 1000 euro per il primo classificato, e di 750 euro ciascuno per il secondo e terzo classificato.
5. Gli altri sette progetti di ricerca selezionati, realizzati e consegnati, ma non premiati, saranno oggetto di ulteriore valutazione da parte del Comitato scientifico per eventuale pubblicazione a cura della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.
6. I concorrenti dovranno presentare, unitamente alla domanda di ammissione al concorso, un dettagliato progetto di ricerca di circa 5mila battute (spazi inclusi) corrispondente alle tematiche di cui al punto 3 e contenente adeguate indicazioni sulle fonti, le metodologie e gli obiettivi scientifici della ricerca, oltre ad una preliminare bibliografia di riferimento.
7. La domanda di ammissione al concorso e il progetto di ricerca dovranno essere inviati, entro e non oltre le ore 17,00 del 31 agosto 2019, alla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice esclusivamente come documenti in formato word al seguente indirizzo e-mail: info@www.fondazionespirito.it.