Il neo-irredentismo nel Fondo archivistico Luigi Papo

Militante e combattente nei ranghi di quel fascismo che è stato definito “di frontiera”, animatore della ricerca storica sull’italianità delle terre dell’Adriatico orientale a supporto dell’associazionismo degli esuli giuliani, fiumani e dalmati e delle sue rivendicazioni, promotore di forme aggregative collaterali alle sigle della diaspora adriatica: intensa e ricca di contatti epistolari, ricerche e scritti è stata la vita di Luigi Papo.

Nato a Grado nel 1922 da una famiglia di sentimenti irredentisti, che ben presto si sarebbe trasferita a Montona, nel cuore della penisola istriana, per dimostrare l’attaccamento che conservava con questa località, in età matura cominciò a farsi chiamare “Papo de Montona”. Dopo aver combattuto in Libia durante la Seconda guerra mondiale inquadrato in una Compagnia Volontari Universitari nei ranghi dei Granatieri di Sardegna, fu poi addetto alle scorte dei treni che dall’Italia raggiungevano la Grecia attraversando i Balcani in cui imperversava con sempre più efficacia il movimento partigiano jugoslavo nazionalcomunista guidato da Josip Broz “Tito”. Colto dal marasma dell’8 settembre ’43 mentre era in licenza in Istria e siccome il padre era figura eminente del fascismo locale, rischiò di venire eliminato durante la prima ondata di stragi nelle foibe che avrebbe cagionato un migliaio di vittime nell’entroterra istriano e a Spalato. Papo scelse quindi di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, anche se le province di Udine, Trieste, Gorizia, Lubiana, Fiume e Pola appunto (che comprendeva l’Istria)  facevano parte della Zona di Operazioni Litorale Adriatico, una sorta di governatorato militare tedesco in cui i poteri della RSI erano talmente effimeri che non si poté costituire la Guardia Nazionale Repubblicana, bensì la Milizia Difesa Territoriale che rispondeva ai comandi tedeschi locali. Ed è a capo della 3° Compagnia del 2° Reggimento MDT che Papo combatté nei mesi seguenti, durante i quali rivestì anche l’incarico di commissario del fascio nel montonese e di addetto alla propaganda reggimentale (come si può evincere nella sua pubblicazione L’ultima bandiera. Storia del Reggimento Istria, Trieste 2000). Tale reparto si distinse talmente nella lotta antipartigiana che, nelle terribili giornate che seguirono la conclusione delle ostilità al confine orientale italiano caratterizzate dalla conquista jugoslava di Trieste, Gorizia, Fiume ed Istria (Zara era stata già occupata nel novembre 1944), Papo fu associato alle carceri triestine del Coroneo, da cui fu deportato al campo di concentramento di Pestranek. Salvatosi in maniera rocambolesca da una prigionia che per centinaia di detenuti significò morte (la testimonianza di questa vicenda rimane in Pestrane. Diario di un condannato a morte, Gorizia 1984), riparò a Trieste, quindi nella natia Grado, poi a Milano ed infine a Roma, cominciando a denunciare in dei libelli i massacri delle foibe e la violenza titoista: Criminali e liberatori (Roma 1948), Foibe (Udine 1949) ed Insegnamenti dalle foibe istriane (Roma 1951). Utilizzò lo pseudonimo di Paolo De Franceschi (il cognome della moglie), poiché risultava nell’elenco dei criminali di guerra consegnato dalla neonata Repubblica Socialista Federale Jugoslava all’Italia nel corso delle trattative di pace, anche se non venne richiesta la sua estradizione.

Creatosi una vita professionale nei settori gastronomico ed alberghiero, si attivò nell’associazionismo degli esuli dalle terre cedute alla Jugoslavia per effetto del Trattato di pace del 10 febbraio 1947 aderendo subito al Comitato Nazionale Venezia Giulia e Zara, poi diventato Comitato per l’Assistenza ai Profughi giuliano-dalmati che si scisse in Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (tuttora attiva e diffusa su tutto il territorio nazionale)e Centro per la tutela degli interesse adriatici (1948), il quale sarebbe in seguito diventato il Centro Studi Adriatici, che trovò ospitalità presso le prestigiose sale del Vittoriano. Già tra i fondatori della testata dell’ANVGD Difesa adriatica, Papo fu direttore del CSA e del suo battagliero bollettino di informazioni, che lui stesso definiva «il solo organo di stampa che si può dire prima italiano, poi, se gli resta tempo, anche democratico». Nel 1963 sorse l’Associazione Nazionale Italia Irredenta, che l’anno dopo assorbì il Centro Studi Adriatici facendolo diventare una sorta di comitato scientifico di questo sodalizio patriottico che ebbe come primo presidente Gioacchino Volpe, al quale succedette il generale Ezio Garibaldi.

Papo avrebbe quindi scritto volumi dedicati alla cittadina in cui aveva vissuto in gioventù (Montona, Padova 1974 e Sólfora. Montona tra realtà e sogno, Trieste 1975) per poi raccontare i primordi dell’associazionismo giuliano-dalmata (E fu l’esilio. Una saga istriana, Trieste 1997) e quindi tornare ad affrontare la questione della pulizia etnica attuata dall’esercito jugoslavo nei confronti della comunità italiana in Istria (L’Istria e le sue foibe: l’Istria tradita, Roma 1999). Tuttavia il lavoro che gli regalò maggiore celebrità si intitola Albo d’oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto (Trieste 1989 e poi, aggiornato e integrato, 1994): questa poderosa opera raccoglie i nomi dei caduti e dei morti della e nella Venezia Giulia nel corso della Seconda guerra mondiale, con riferimento ai campi di battaglia come alle vittime civili dei bombardamenti, ai deportati della Risiera di San Sabba da parte dei nazisti e a quelli vittime dell’arcipelago concentrazionario jugoslavo. Ancorché incompleto e caratterizzato da alcuni aspetti che discendono dalla forte connotazione politica dell’autore (l’attenzione rivolta ai caduti della Repubblica Sociale Italiana rispetto ai partigiani), tale volume risulta un punto di riferimento imprescindibile per la ricostruzione delle atroci dinamiche politiche che sconvolsero le terre del confine orientale nella fase finale del conflitto, tanto è vero che è stato tenuto in considerazione come fonte dalla commissione che è chiamata ad assegnare ogni anno in occasione del Giorno del Ricordo i riconoscimenti ai parenti e discendenti degli infoibati e delle vittime del terrore “titino”.

Questa produzione libraria e l’intensa attività in ambito associativo lasciarono un cospicuo apparato documentale, che è stato conservato da due istituti di ricerca. Presso l’Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata di Trieste l’Archivio Luigi Papo consta di materiale documentario vario inerente alle tematiche istituzionali (la conservazione e la valorizzazione del patrimonio storico e culturale e delle tradizioni delle popolazioni italiane dell’Istria, Quarnero e Dalmazia), con alcune documentazioni che provengono da famiglie illustri istriane, una notevole messe di opuscoli, fogli volanti, giornali, molti dei quali del periodo dell’esodo; nel materiale raccolto figura pure una sezione fotografica, di cui è in corso un’opera di digitalizzazione. A Roma, invece, presso la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice il Fondo Papo è stato quasi completamente ordinato e fornisce vari spunti di ricerca, il più immediato dei quali è ad esempio la storia dell’Associazione Nazionale Italia Irredenta, la cui documentazione è raccolta in nove faldoni. Il primo di questi riguarda la fondazione del sodalizio, nel cui direttivo originario figuravano Volpe, come già accennato,  in qualità di presidente, Junio Valerio Borghese (già comandante della Decima Mas e attivo all’estrema destra del panorama politico italiano) quale segretario nazionale e tra i probiviri una figura fondamentale nella storia dell’irredentismo adriatico come Giovanni Giuriati, capo di gabinetto di Gabriele d’Annunzio a Fiume nonché presidente dell’associazione Trento e  Trieste nell’anteguerra ed organizzatore dei volontari provenienti dalle terre irredente arruolatisi nel Regio Esercito durante la Grande guerra. Le Sezioni provinciali, con cui intercorre una discreta corrispondenza e di cui rimangono gli atti costitutivi, sono presenti in tutto il territorio nazionale e nei loro ranghi riscontriamo con ruoli dirigenziali la presenza di personalità della destra italiana o con trascorsi fascisti (Fortunato Aloi a Reggio Calabria, Piero Buscaroli a Napoli, Italo Tassinari a Forlì, il podestà ed il prefetto ai tempi della RSI Cesare Pagninie Bruno Coceani nonché Riccardo Gefter Wondrich a Trieste, Salvatore Dell’Utri a Caltanisetta), dell’associazionismo della diaspora (il generale Iginio Toth a Modena, Piero Almerigogna e Lino Sardos Albertini a Trieste, Lino Vivoda a La Spezia, Nerino Rismondo ad Ancona, Achille Gorlato, Giuseppe Krekich e Nicolò Luxardo a Padova) ed esponenti della società civile (Fabio Roversi Monaco a Bologna). La corrispondenza ed i ritagli stampa (faldone 4) riguardano non solo tematiche attinenti le foibe e le associazioni degli esuli, ma anche l’irredentismo in Corsica; l’attività dell’Agenzia adriatica di stampa caratterizza il faldone 6, mentre il 9 concerne i pellegrinaggi organizzati alla tomba di Dante a Ravenna e a Firenze nel 1965 (700 anni dalla nascita del “ghibellin fuggiasco”); il quinto faldone raccoglie precipuamente materiale inerente la Famiglia montonese (componente dell’Unione degli Istriani in cui si raccolgono gli esuli da Montona) ma contiene anche il verbale di un’Assemblea Ordinaria dell’Unione degli Industriali Giuliano-Dalmati, una ramificazione poco nota nel panorama dell’associazionismo della diaspora, così come l’Assemblea Costituente Adriatica di cui si riscontrano accenni in altri faldoni.

Se l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia oggi risulta strutturata in comitati provinciali e delegazioni, nei faldoni 10-23 “Personalità: biografie – scritti – fotografie” emergono documenti che riguardano sezioni femminili e di combattenti nei primi anni di esistenza di questa poderosa realtà associativa, che alle origini presentava una forte connotazione di destra. I fascicoli che raccolgono il materiale riguardante ciascuna Personalità contengono non solo scambi epistolari, ma anche articoli di giornale, immagini fotografiche o disegnate e riferimenti a pubblicazioni che hanno attinenza con quel profilo. Numerosi i contributi del colonnello Piero Almerigogna, con il quale ad esempio Papo si sofferma sui complicati rapporti esistenti a Trieste tra il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria (che avrebbe dato vita all’Associazione delle Comunità Istriane ma viene presentato come lottizzato dai partiti dell’arco costituzionale) e l’Unione degli Istriani. Interessante la corrispondenza con l’ex gerarca del fascismo nella provincia di Zara prima e nel Governatorato di Dalmazia poi Athos Bartolucci, che all’epoca riveste incarichi a Mogadiscio nell’ambito dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia, benché compaia anch’egli nell’elenco dei criminali di guerra ricercati in Jugoslavia. Risultano essere corrispondenti delle iniziative associative e divulgative di Papo Rinaldo Harzarich, il vigile del fuoco che coordinò il recupero delle salme dalle foibe istriane, Geppino Micheletti, il medico che prestò le cure alle vittime dell’attentato di Vergarolla, ma anche irredentisti della vecchia guardia come Manlio Cace e Piero Foscari. Non manca un’invettiva nei confronti di un articolo pubblicato da Il Borghese in cui Giuseppe Prezzolini contestava le tesi di Sorel favorevoli all’annessione della Dalmazia all’Italia.

Al professor Umberto Nani di Mocenigo, direttore del bollettino d’informazione, è dedicato il faldone 24, mentre il 25 ed il 26 riguardano la laboriosa stesura e ristampa di Atto d’accusa, il volume di Andrea Ossoinack che prende le mosse dall’intervento che costui formulò al Parlamento di Budapest il 18 ottobre 1918. Era in corso l’implosione dell’Impero austro-ungarico ed il deputato fumano, al fine di fronteggiare le rivendicazioni croate nei confronti della sua città, si appellò al principio di autodeterminazione dei popoli per Fiume, che in effetti il successivo 30 ottobre con un plebiscito avrebbe ribadito la sua volontà di essere annessa all’Italia. Rispolverare nel dopoguerra questo lavoro, che si fondava sulla radicata autonomia fiumana che nella compagine imperiale asburgica figurava in guisa di corpus separatum nell’ambito della porzione magiara del composito impero, avrebbe dovuto contribuire a rivendicare all’Italia il capoluogo del Carnaro entrato ufficialmente a far parte della Jugoslavia il 15 settembre 1947, giorno dell’entrata in vigore del Trattato di pace. I faldoni 27-30 concernono “Comuni e località della Venezia Giulia = Istria, Carnaro e Dalmazia” (un caleidoscopio di immagini, ritagli di giornale e spunti dedicati a queste terre diventate jugoslave), il 31 presenta il materiale delle terre irredente conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato e negli ultimi tre emerge ancora documentazione sulle associazioni degli esuli.

Una nuova numerazione caratterizza le 13 buste della sezione “Rassegna della stampa del Commissariato Generale del Governo per il Territorio di Trieste” che spazia dal 1957 all’aprile 1962 e fornisce uno spaccato del delicato inserimento del capoluogo giuliano nel tessuto politico ed economico della Repubblica italiana dopo l’insediamento dell’amministrazione civile risalente al 26 ottobre 1954.

Un fascicolo raccoglie, invece, articoli di giornali e dossier riguardo la Risiera di San Sabba, dalle cronache del processo a carico degli aguzzini nazisti che ivi torturarono e deportarono partigiani ed ebrei ai contributi di chi cercava di ridimensionare cifre e tragicità di questo campo di prigionia. Lo Schedario Caduti e Albo d’oro contiene, infine, parte del materiale attinto per la redazione della succitata corposa opera, mentre figura ancora uno scatolone 7 da ordinare.

Quanto è stato qui presentato può risultare utile nella ricostruzione della storia delle associazioni degli esuli giuliano-dalmati, un argomento che sulla scia dell’istituzione del Giorno del Ricordo (L. 92 del 30 marzo 2004) ha acquisito interesse, ricevendo una prima trattazione a cura della giornalista Rosanna Turcinovich-Giuricin in …e dopo semo andadi via. L’associazionismo degli esuli istriani fiumani e dalmati: cenni storici dal 1947 ad oggi, Gorizia, 2014. La prima disamina scientifica risiede nel poderoso volume di Luciano Monzali Gli italiani di Dalmazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento, Venezia 2015, pp. 527-687, laddove il direttore della Società di Studi Fiumani Marino Micich si è concentrato sulle prime forme aggregative di questo microcosmo nel saggio Incontro all’esilio. L’associazionismo degli esuli istriani, fiumani e dalmati durante la seconda guerra mondiale e nei primi anni del dopoguerra (1943-1949) in Fiume. Rivista di studi adriatici (nuova serie), n. 31, Anno XXXV, N. 1-6/2015. Il fondo Papo può arricchire questa panoramica raccontando le prospettive neoirredentiste e la battaglia culturale che egli condusse, ma anche i rapporti che questo battagliero operatore culturale intrattenne con le sigle associative che mantennero in vita nei loro comitati e raduni la memoria delle catastrofi delle foibe e dell’esodo in un’epoca in cui era diventato tabù parlarne in seguito alla rottura di Tito con Stalin nell’estate del 1948.

Lorenzo Salimbeni

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX, pp. 179-184.

La seconda guerra mondiale e la riconciliazione nel segno dei padri

Giacomo Marinelli Andreoli, Nel segno dei padri. La storia di Guglielmina e Peter, Marsilio, Venezia 2017

// Quando è uscito il libro mi sono chiesto che cosa Giacomo Marinelli Andreoli potesse mai aver aggiunto al già noto. Noto, sicuramente, agli eugubini e a chi come me frequenta Gubbio da alcuni lustri. Perché l’eccidio dei Quaranta Martiri – compiuto per rappresaglia dalle forze tedesche in ritirata nel giugno nel 1944 – aleggia sulla città, sia pure spesso tra il detto e il non detto.
D’altra parte la vicenda è stata perfettamente ricostruita con rigore storiografico – né poteva essere altrimenti – da Luciana Brunelli e Giancarlo Pellegrini nel libro Una strage archiviata, uscito per il Mulino ormai dodici anni fa.
Da qui anche la mia immediata curiosità e l’altrettanto immediata lettura di questo Nel segno dei padri. Un libro che aggiunge molto. Non alla ricostruzione della vicenda in sé: alcuni partigiani, veri o presunti, sparano in un bar del centro a due militari tedeschi, un assistente medico e un sottotenente, uccidendone uno e ferendo l’altro. Il libro aggiunge tuttavia molto alla ben più ampia vicenda dell’Italia di allora, con le sue tragedie e le sue contraddizioni, in fondo con la sua complessità.
Non amo il reducismo. Ho conosciuto molti reduci, da una parte e dall’altra, e li rispetto. Ma in qualche modo li ho sempre guardati con sospetto. I reduci di qualunque tipo e colore. Anche di eventi decisamente meno drammatici. Tremo al pensiero della valanga di memorie che ci assalirà nel cinquantesimo anniversario del Sessantotto. Salvo rare eccezioni, i reduci non riescono a porsi con il necessario distacco nei confronti degli eventi che hanno vissuto, da protagonisti, comprimari, semplici spettatori. I reduci fermano il tempo. La loro narrazione è enfatica fino a sfiorare il mito. Dunque non aiuta che parzialmente a restituirci una verità.
In qualche modo – nella comune condizione di vittime incolpevoli – Guglielmina e Peter sono reduci. Ma la grande e importante novità di questo libro è costituita dal loro non porsi come tali, e dalla conseguente capacità di guardare ai fatti con un certo distacco, pur nel dolore che li accomuna.
Per questo in fondo questa piccola storia rappresenta un tassello utile, necessario, per continuare a scrivere – non dico riscrivere – la grande storia. Prescindendo dalla sindrome del reduce, per il quale il mondo è bianco o nero e non esiste il grigio; un mondo che si divide in buoni e cattivi. E naturalmente i buoni sono i tuoi e i cattivi sempre gli altri. La storia è più complessa.
Quando ho letto il libro, mi è tornata alla mente una memoria familiare.
Io sono nato a Viterbo. In quel mese di giugno del 1944 anche Viterbo era attraversata dai reparti tedeschi in ritirata. Era un momento atteso. Si sperava che finalmente la città fosse risparmiata dai bombardamenti alleati. Erano cominciati nel luglio del 1943 e ancora continuavano, fino al 9 giugno 1944. Alla fine le vittime furono più di 1000, in una cittadina di 30mila abitanti. La famiglia di mio nonno, dopo la distruzione del palazzo accanto al suo, sfollò nella tenuta di campagna. La famiglia, i contadini, qualche amico. Una mattina, aprendo la finestra, mia nonna scoprì che nel piazzale antistante era accampato un reparto tedesco. Mio nonno uscì e cercò di capire che cosa volessero. Un tenente chiese se fosse possibile avere qualcosa da mangiare. Le provviste furono consegnate, il tenente ringraziò e il reparto ripresa la sua strada.
Mi sono sempre chiesto che cosa sarebbe avvenuto se qualcuno, magari da una finestra, avesse sparato a quei tedeschi, ridotti nelle condizioni miserrime che Kurt Staudacher, il padre di Peter, descrive in una lettera alla famiglia. Probabilmente mia madre non avrebbe sposato qualche anno dopo mio padre, che a diciott’anni stava tendando di attraversare le linee verso sud, e io non sarei qui.
È una piccola storia a lieto fine. Mentre a Gubbio si scatenò l’inferno.
So bene che la memoria di quell’inferno è stata a lungo divisiva. Ed è comprensibile. Perché, al contrario di tante altre terribili stragi di quel periodo, quella dei Quaranta Martiri fu conseguenza di un atto difficilmente spiegabile, se non con l’ansia di un gruppetto di presunti partigiani di mettersi in luce agli occhi degli Alleati che stavano per entrare in città. E anche questo è un tassello della nostra storia. Una piccola storia che ha provocato dolori immensi.
Una storia che sembra essere il sunto della complessità del tempo, attraverso le vite. Quelle di Guglielmina e Peter, orfani a un anno.
Quelle delle vittime, 39 delle quali senza alcuna responsabilità, scelte nel mucchio per una rappresaglia peraltro ormai senza senso dal punto di vista militare. Senza senso anche se il sottotenente che accompagnava Kurt non fosse solo rimasto ferito. Ma in quel frangente drammatico emergono altre figure, anch’esse caratteristiche dell’Italia di allora.
Il delatore. Vittorio Roncigli – padre di Guglielmina – ha paura del delatore. Una figura che torna spesso nelle memorie. Un conoscente, un concittadino, forse persino un amico che, magari per salvarsi, fa un nome. Mi viene in mente Celeste Di Porto, la ragazza ebrea che a Roma denunciava ai tedeschi i suoi fratelli di fede.
Il responsabile, che fugge e non si consegna lasciando morire parenti e amici.
Il Vescovo, che tenta senza riuscirci di sostituirsi ai rastrellati. Il ruolo dei religiosi in quel periodo è molto importante. In alcune occasioni arriva al sacrificio di sé. Mi piace segnalare la vicenda di due sacerdoti raccontata da Chiara Genisio nel suo Martiri per amore (Paoline, Alba 2015)
Lo stesso Vittorio, che non è un partigiano combattente. Si sentiva – scrive Marinelli Andreoli – «né rosso né nero». Non è fascista. Ha lavorato in Germania. In fondo quella guerra non gli appartiene. Partigiano diventerà solo da morto, a sua insaputa, sol perché alla vedova sia garantita una pensione. Lo stesso Kurt, che non è certo un nazista, ma solo un medico aggregato alla Wehrmacht, che da tedesco deve partecipare a una guerra scatenata dal suo paese. E che non lascerà neppure una pensione perché la sua famiglia finisce nella Germania Est, una prigione dalla quale non può fuggire per trent’anni.
La complessità della storia…
Il senso del tragico non può che incombere nelle pagine di questo libro, nella storia di Guglielmina e Peter. E tuttavia, pagina dopo pagina, al senso del tragico si sostituisce la speranza. La speranza che viene dalla riconciliazione.
A riconciliarsi non sono, non possono essere, le vittime parallele della tragedia. Ma la riconciliazione tra i loro figli – uniti dal dolore – anch’essi vittime, non è solo commovente, edificante.
Ci spinge, o dovrebbe spingerci, a guardare al passato con maggiore senso della prospettiva. Per non trasmettere di generazione in generazione una memoria divisiva. Per mettere al centro l’uomo.
Giacomo Marinelli Andreoli ha chiesto a Guglielmina se avesse mai odiato. Guglielmina ha risposto:
«Se ho odiato? Sì che ho odiato. Ho odiato la guerra. Le sue uniformi. I suoi fragori. I morti, le croci, le lacrime. Il freddo dell’assenza. Il colore del vuoto. Ho odiato i tedeschi. Fin quando non ho scoperto che anche loro erano padri, mariti, figli. Fin quando ho capito che come me un altro bimbo aveva dovuto accettare di non avere un padre. Senza un perché. […] Ho odiato il silenzio che ha coperto questa storia per decenni. Come se non si dovesse parlare di quanto accaduto, come se non si volesse aprire la porta sui retroscena, sui motivi, sulle circostanze che avevano provocato tutto”. […] Ho odiato la mia incapacità di guardare oltre, di scavalcare il muro, di mettermi alle spalle la sensazione cupa del lutto. E la tentazione della rivalsa».
Credo che dobbiamo essere grati a Guglielmina per queste parole. E all’autore che ce le ha fatte conoscere. Forse esistono altre testimonianze di questo tipo, anche se io non le conosco. Sarebbe importante trovarle e diffonderle.

Gianni Scipione Rossi

Intervento alla presentazione presso la Biblioteca della Camera dei Deputati, Roma, 30 novembre 2017.

Da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX

 

La cultura dell’irredentismo nel Fondo archivistico Ernesto Massi

Ernesto Massi rappresenta uno degli esempi migliori di quello che gli storici e i geografi hanno attribuito alla città di Trieste e alla sua cultura mitteleuropea, ovvero il crocevia di tre diverse tradizioni culturali e politiche: la cultura italiana o latina, la cultura slava e la cultura tedesca.

Ciò emerge con forza non soltanto dalla biografia del geografo e politico triestino, ma anche dalla visione del mondo che animò lo studioso nel corso di tutta la sua esistenza. Elementi questi che troviamo presenti nell’Archivio e nella biblioteca dello studioso triestino, conservati presso la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.

Nel corso della sua esistenza, Massi riuscì infatti a conciliare il cattolicesimo (con la sua giovanile iscrizione alla FUCI) con l’idea di nazione; il corporativismo cattolico e fascista; l’adesione alle idee di Romolo Murri fondatore della Democrazia Cristiana; la visione monarchica e repubblicana; l’adesione all’idea millenaria di Roma che giungeva attraverso il Cristianesimo sino al fascismo; nonché la capacità di conciliare la visione del mondo dello Stato etico di origine gentiliana con quella spirituale della tradizione cattolica (ovvero sintesi fra idealismo e cattolicesimo); e ancora una visione di sintesi della tradizione risorgimentale (che contempla tutti i “padri della patria” da Gian Domenico Romagnosi, a Melchiorre Gioia e Carlo Cattaneo, fino a comprendere Giuseppe Mazzini e il socialismo nazionale Carlo Pisacane) che muove dalla Sinistra storica (con le sue componenti: irredentismo; socialismo nazionale; nazionalitarismo dell’anarcosocialista Andrea Costa) e che si salda con la visione soreliana dei sindacalisti rivoluzionari fautori dell’intervento militare nella Grande Guerra, i quali riscoprono l’idea di nazione avvicinandosi alla “religione della patria” nel corso del primo conflitto mondiale e poi confluiscono nel movimento fascista attraverso il sindacalismo nazionale, a partire dal dopoguerra.

È evidente che nel “pantheon ideologico” di Massi tutti i movimenti politici erano ben accetti, purché facessero propria l’idea di nazione e si riconoscessero nella visione dell’Italia generalmente condivisa. La stessa idea di nazione però – nel pensiero di Massi – non poteva esistere senza una visione sociale che rendesse tutti i ceti partecipi del benessere generale.

Ma partiamo dalle origini. Alla base della nazione sociale del geografo triestino vi è l’irredentismo, che è stato un grosso fattore di nazionalismo, come hanno sottolineato alcuni storici come Giovanni Sabbatucci. Una delle condizioni necessarie per lo sviluppo della componente irredentista è stata la presenza nella fase risorgimentale di un nazionalismo d’ispirazione democratica e mazziniana.

Nel corso dell’Ottocento, la presenza dei valori del nazionalismo democratico e mazziniano è servita a tener desto un sentimento patriottico che si è tradotto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, in un nazionalismo antidemocratico ed imperialista.

Massi nacque a Trieste nel 1909, quando ancora la città era parte integrante dell’impero austro-ungarico. Il suo vero nome era Ernesto Maček, ereditato dal padre di origine croata o slovena e alto ufficiale della Marina austriaca. La madre invece di origine italiana, si chiamava Enrica Codaglio. L’infanzia e le elementari le trascorse nella città di Graz dove frequentò le scuole elementari del posto, imparando a parlare e a scrivere correttamente la lingua tedesca. Viceversa, frequentò le scuole medie inferiori e superiori a Trieste nella fase in cui terminata la Grande Guerra la città venne annessa al Regno d’Italia. Nel 1926, dopo l’avvenuta iscrizione all’Università di Trieste, cambiò il cognome da Maček in Massi, in linea con il Regio Decreto promulgato in quell’anno.

Nel corso della sua frequenza presso la facoltà di Economia e Commercio, Massi ebbe modo di sostenere anche un paio di annualità di Lingua e Letteratura serbo-croata. A dimostrazione del suo rapporto con la cultura del mondo slavo, per tradizione familiare (il padre era di origine croata).

Durante il suo percorso universitario conobbe Giorgio Roletto, docente all’epoca di Geografia economica all’Istituto di Studi superiori di Trieste, che gli propose di collaborare con lui nella realizzazione di una corrente tutta italiana di geopolitica, traducendo le opere in tedesco del fondatore della geopolitica tedesca Karl Haushofer, che aveva iniziato nel 1924, a Monaco, la pubblicazione della rivista Zeitschrift für Geopolitik, con l’apporto di una serie di allievi e studiosi. Ma la figura di studioso eclettico e multiforme, frutto del suo rapporto con la città di Trieste, emerge anche durante gli anni Trenta, per l’esattezza nel 1934, quando giunto a Milano iniziò a collaborare in qualità di assistente volontario con la cattedra di Libertade Nangeroni all’epoca docente di Geografia presso la facoltà di Lettere della Università Cattolica del Sacro Cuore. Nangeroni aveva chiesto al rettore dell’Università Cattolica Padre Gemelli di poter contare su un assistente per poter affrontare il numero crescente di studenti che sostenevano l’esame con la sua cattedra e aveva segnalato il giovane Massi affermando che era un giovane geografo molto promettente. Gemelli aveva dato il suo assenso sottolineando che però non era in quel momento possibile pagarlo e che forse avrebbe potuto ambire ad uno stipendio solo negli anni a venire.

Due anni dopo, siamo nel 1936, Massi divenne ordinario, ottenendo la cattedra di Geografia economica alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica. Negli stessi anni, lo studioso triestino iniziò a collaborare con l’Istituto Coloniale Fascista di Milano e con i suoi colleghi della Cattolica, soprattutto con Amintore Fanfani e Francesco Vito per la comune adesione al corporativismo cattolico e per un aperto sostegno al colonialismo italiano all’interno dell’ICF lombardo.

Nel 1936 guidò l’ICF milanese in un lungo tour nella Germania nazionalsocialista per celebrare i centocinquanta anni della Società geografica di Francoforte e l’anno dopo (1937) di nuovo per un incontro con il Ministero delle Colonie della Germania nazionalsocialista dove tenne due discorsi in tedesco. Al contempo, nel 1937, iniziò ad insegnare Geografia politica ed economica presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia, entrando in contatto con Nicolò Giani presidente della Scuola di Mistica Fascista di Milano e docente di Sindacalismo e cultura corporativa presso lo stesso Ateneo e il Politecnico di Milano. Sempre nel 1937, divenne presidente dell’INCF (Istituto Nazionale di Cultura Fascista) di Pavia.

Con Fanfani e Vito frequentò l’Istituto coloniale fascista di Milano, tenendo conferenze sulle colonie e il colonialismo italiano e a partire dal 1935 assumendo la carica di direttore culturale dello stesso. Allo stesso tempo tenne una serie di relazioni sempre nel capoluogo lombardo e in altre città della Lombardia per la Scuola di Mistica Fascista, collaborando e intrattenendo relazioni politico-culturali con Giani, che rinsaldò dopo l’avvenuta nomina di quest’ultimo alla direzione del quotidiano “La Cronaca Prealpina” di Varese nel novembre del 1937.

Nel frattempo, Massi proseguì a collaborare con il suo mentore Roletto tenendo conferenze presso l’Università di Trieste, dove per un breve periodo di tempo insegnò presso la facoltà di Giurisprudenza, ancora con l’Istituto Coloniale Fascista della stessa città e in altre città dell’Italia del Nord, come Trento, Gorizia ecc. Nel 1940, partecipò al Convegno della Mistica Fascista in qualità di collaboratore della rivista della Mistica “Dottrina Fascista” e di rappresentante della rivista “Geopolitica”, fondata nel gennaio 1939 insieme a Roletto, dopo aver ottenuto il sostegno di Padre Gemelli che lo aveva inviato con una breve lettera di presentazione dall’allora ministro dell’Educazione nazionale, Giuseppe Bottai, che diede il placet alla pubblicazione del periodico. Partito volontario nel marzo del 1941 per partecipare alla Seconda guerra mondiale, venne inviato prima in Jugoslavia, come tenente dei bersaglieri e dove lavorò con l’intelligence italiana per favorire i rapporti fra italiani, tedeschi e croati, grazie alla sua perfetta conoscenza del tedesco e del serbo-croato. Nella Jugoslavia dell’epoca intrattenne rapporti con gli ustascia visitando anche il quartier generale di Ante Pavelic. Successivamente venne inviato sul fronte russo per favorire le relazioni con il comando tedesco della Wehrmacht. Dopo essersi distinto per coraggio e disciplina sul fronte orientale e nello scacchiere della Sicilia occidentale ricevendo tre medaglie al valor militare, nel 1943 aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Nel secondo dopoguerra venne epurato per aver aderito alla RSI, perdendo la possibilità di insegnare all’Università e iniziando a lavorare per l’imprenditore Pernigotti. Solo nella seconda metà degli anni Cinquanta, grazie all’interessamento di Ardito Desio, geologo e alpinista italiano, ottenne di nuovo la possibilità di insegnare presso l’Università Statale di Milano.

Nel 1946 partecipò alla fondazione del Movimento sociale italiano, soprattutto mettendo insieme le forze rimaste a Milano e in tutta la Lombardia, venendo nominato vice segretario nazionale. Negli anni successivi diede il suo apporto alla formazione dei giovani militanti e aderenti al Msi, partecipando ai campi estivi che si tenevano annualmente in Italia settentrionale (San Genesio).

Durante la sua militanza prima nel Msi, poi nel Partito nazionale del lavoro e infine in Nazione sociale, proseguì a supportare le sue tesi politiche connotate da un deciso eclettismo e da una componente culturale multiforme, che sosteneva lo sviluppo dei Nuclei Aziendali di Azione Sociale (Nadas), costituiti all’interno delle imprese dal Msi, subito dopo la nascita del partito, avvenuta il 26 dicembre 1946. Tali organismi dovevano riunire imprenditori e maestranze in un rapporto di collaborazione reciproca, in funzione del bene superiore della nazione, con evidenti analogie con la forma di governance della compartecipazione (Mitbestimmung), applicata con successo in Germania a partire dal secondo dopoguerra.

Andrea Perrone 

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX, pp. 173-177.

Per approfondire:

a Ernesto Massi è dedicata la sezione monografica Ernesto Massi tra geografia e politica in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX, pp. 9-183, con contributi di Arrigo Bonifacio, Michele Pigliucci, Andrà Perrone, Lorenzo Salimbeni, Gianni Scipione Rossi, Rodolfo Sideri, Gaetano Rasi.

Ugo Spirito, Filosofia della grande civilizzazione. La “rivoluzione bianca” dello Scià: in uscita l’inedito del 1978

In uscita a settembre l’inedito di Ugo Spirito

– Nel quadro delle iniziative che la Fondazione sta intraprendendo a quarant’anni dalla morte di Ugo Spirito e a novant’anni dalla nascita di Renzo De Felice, per ricordare e valorizzare l’opera del filosofo e dello storico, particolare rilievo assume il programma di pubblicazione di una serie di volumi in co-edizione con la casa editrice Luni di Milano. 

Il primo volume a vedere la luce –  nel mese di settembre 2019 – sarà l’inedito di Ugo Spirito Filosofia della grande civilizzazione. La “rivoluzione bianca” dello Scià, a cura e con introduzione di Gianni Scipione Rossi e con una postfazione di Hervé A. Cavallera.

Il libro

Negli ultimi mesi di una vita segnata da una speculazione che tende a inverarsi nell’azione politica, Ugo Spirito ha lavorato a un volume sull’Iran governato da Mohammad Reza Pahlavi. Un libro rimasto inedito nella sua stesura integrale e oggetto, in tempi diversi, di manipolazioni e censure, Conservato nel suo archivio privato, a quarant’anni di distanza il testo appare per la prima volta nella sua versione originale, che rivela il reale pensiero del filosofo.

Lo sforzo compiuto da Spirito è stato volto, nell’autunno del 1978, a comprendere e illustrare criticamente le linee guida della “rivoluzione bianca” dello Scià – avviata nel 1963 – inquadrandole nella storia della Persia e valutandone le possibili evoluzioni, mentre il Paese era sconvolto dalle proteste di piazza sfociate nel 1979 nella rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeyni.

Lo Scià appare a Ugo Spirito come un sovrano illuminato e ne valuta positivamente il sogno di trasformare l’Iran in una sorta di Città del Sole, nella quale regnino l’armonia e la collaborazione tra le classi sociali, nella prospettiva di un intenso sviluppo industriale. Una “città” laica, in cui non vi siano più sfruttatori e sfruttati, ricchi e poveri, proprietari e servi, secondo la tradizione socialista dalla quale, secondo Spirito, lo Scià ha tratto ispirazione per tracciare una “terza via” tra liberismo e comunismo. Per quanto illuminato, Spirito giudica il regime iraniano un dispotismo dittatoriale, errato sul piano teorico e fatalmente destinato a terminare con la scomparsa del suo protagonista.

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Ugo Spirito, Filosofia della grande civilizzazione. La “rivoluzione bianca” dello Scià, a cura di Gianni Scipione Rossi. Postfazione di Hervé A. Cavallera, Luni Editrice, Milano 2019, pp. 192, € 22.00 

collana Contemporanea, diretta da Ester Capuzzo e Giuseppe Parlato, n. 18

isbn: 978-88-7984-650-9

Il volume sarà acquistabile attraverso i normali canali di distribuzione e presso la sede della Fondazione.

Per prenotarlo:

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L’edizione avviene nel quadro dalle previsioni ex Art. 1, comma 416 della Legge 30 dicembre 2018, n. 145.

La cultura della destra cattolica nell’Archivio della Fondazione

di Giuseppe Parlato

Primo Siena

//La cultura cattolica di destra è rappresentata, nell’Archivio della Fondazione Spirito – De Felice, da alcuni fondi archivistici di intellettuali e politici che, pur collocandosi rigorosamente a destra, ebbero matrici, collegamenti e relazioni con il mondo cattolico. In alcuni casi, tali relazioni furono prevalenti e si può parlare di intellettuali cattolici senza problemi, come Attilio Mordini, Primo Siena; in altri casi la figura intellettuale di alcuni personaggi è talmente composita – è il caso di Giano Accame o di Emilio Cavaterra – da non potersi utilizzare tale definizione. In altri casi ancora, si tratta di politici di formazione sicuramente cattolica ma nei quali l’attività politica ha sovrastato il dato meramente religioso: è il caso di Vanni Teodorani, di Nino Tripodi e di Gaetano Rasi.

Tuttavia, nei fondi archivistici dei personaggi citati è possibile rintracciare fili conduttori di carattere culturale che richiamano legami e comportamenti politici in linea con il pensiero cattolico. Da aggiungere poi un fondo relativo a un centro culturale come l’Inspe (Istituto  nazionale di studi politici ed economici), fondato nel 1959 da Nino Tripodi.

A questi elementi di carattere archivistico, non si può non ricordare che la Biblioteca della Fondazione conserva alcune riviste che sono estremamente utili per disegnare il percorso del rapporto tra cattolicesimo politico e destra italiana, soprattutto negli anni che vanno dal 1952 al 1976: mi riferisco a «Cantiere» di Primo Siena, «Carattere» di Primo Siena e Gaetano Rasi, «Idea» di padre Raimondo Spiazzi, «Rivista Romana» di Vanni Teodorani, «Il Conciliatore», «il Borghese», «Italia settimanale», la «Voce della Giustizia» del giudice Giovanni Durando, «Prospettive nel mondo», «Alleanza italiana» di Mario Eichberg e Carlo d’Agostino, soltanto per citarne alcune.

Il mondo cattolico di destra e nella destra è stato studiato, con risultati molto stimolanti e condivisibili, da Giovanni Tassani in diverse opere, la prima delle quali fu una sorta di libro pilota sull’argomento, La cultura politica della destra cattolica. Non si tratta, come si è detto, di un mondo omogeneo ma di un mondo che si riconosce in alcuni punti di cui si parlerà appresso. Esso “confina” a destra con il tradizionalismo cattolico, che nella destra italiana (e non solo italiana) spesso si manifesta in chiave neoborbonica e antiunitaria, differenziandosi non poco dal tradizionale spirito nazionale (e nazionalista) della destra: il riferimento d’obbligo è Silvio Vitale, esponente di primo piano del Msi partenopeo e fondatore e direttore per decenni de «L’Alfiere», organo dei filo borbonici napoletani; altro riferimento è il toscano Pucci Cipriani, autore de L’altra Toscana, fautore dei Lorena.

A sinistra, invece, questa linea confina  con le posizioni di Massi, cattolico e docente alla Università cattolica di Milano, il quale non solo rifiuta la definizione di “destra” per sé e per il Msi (tanto da abbandonarlo nel 1956) ma addirittura si ritrova in sintonia con il filone del mondo cattolico democratico e con Romolo Murri, fondatore della Democrazia Cristiana di fine Ottocento, scomunicato e infine fascista.

La corrispondenza di Accame con Primo Siena, con Piero Buscaroli e con Sigfrido Bartolini, solo per citare i più significativi, la corrispondenza di Siena con Melchionda, così come gli appunti e le riflessioni di Mordini,  o le relazioni ai convegni dell’Inspe offrono un quadro valoriale significativo soprattutto perché non necessariamente legato alle vicende politiche del Msi. I valori di riferimento sono sicuramente il nazionalismo, con una forte venatura in chiave europea, un originale anticlericalismo cattolico, alla Mordini per intenderci, erede di quel cattolicesimo non guelfo ma ghibellino che ha sempre informato la destra italiana anche prima del fascismo (si pensi alle posizioni del nazionalismo italiano del primo Novecento), e infine un gentilianesimo, per molti il punto d’approdo dopo un periodo di militanza culturale evoliana (come per Rasi) o punto d’incontro fra due tradizionalismi, come per Siena e Melchionda.

Venendo a tempi più recenti, si sente profonda la lettura di Augusto Del Noce, non tanto per la interpretazione del fascismo (sulla quale il filosofo torinese influì più su Renzo De Felice che sulla destra politica), quanto per la visione di una storia d’Italia fortemente segnata dalla secolarizzazione e dalla progressiva perdita del sacro anche in campo politico. In questo senso, la triangolazione Accame – Del Noce – Baget Bozzo offre spunti di riflessione non di poco momento, da Genova ’60 fino all’esperienza di «Prospettive nel mondo» e di Comunione e Liberazione nella metà degli anni Settanta.

E’ il periodo storico nel quale si viene formando, a livello identitario, la destra cattolica contro lo spirito del Concilio Vaticano II e soprattutto contro la teologia della liberazione. In questo senso, «il Borghese» e «Il Conciliatore» rappresentano bene i punti avanzati di una polemica che cerca di recuperare da un lato l’identità politica della destra cattolica e dall’altro i motivi di una rottura verso la chiesa post-pacelliana nella quale si distingue, fra gli altri, la penna di Emilio Cavaterra, “Lo Svizzero” del giornale di Mario Tedeschi.

Le analisi politiche e storiche della destra italiana negli anni Settanta hanno in genere trascurato il problema dei cattolici, soffermandosi soprattutto sull’ambiente rivoluzionario, da Ordine Nuovo agli altri movimenti dell’eversione di destra. Questo interesse verso l’evolismo applicato allaprogettualità rivoluzionaria della destra ha offerto della destra stessa una immagine distorta. Da parte degli studiosi che dalla destra provengono (si pensi agli ottimi lavori di Rao, ad esempio) l’interesse verso la componente evoliana offre la possibilità di dimostrare che il neofascismo non era conservatore o reazionario ma anzi previde crisi e difficoltà in merito alla rappresentanza politica quando altri mostravano di aderirvi. Per chi invece alla destra non appartiene e anzi ha come riferimenti culturali modelli opposti, occuparsi della componente rivoluzionaria e cioè dei “veri fascisti” offre la possibilità di dimostrare la distanza siderale fra il neofascismo e il sistema democratico e quindi permette la condanna morale prima che politica della destra nel suo insieme.

Luigi Gedda

In realtà, l’analisi di questi materiali, certamente discontinui e bisognosi di ulteriori, seri approfondimenti in settori più propriamente cattolici (mi riferisco ad esempio alle carte di Luigi Gedda), potrebbe rappresentare una pista di ricerca in buona misura inedita: al di là dei già citati studi di Tassani e di quelli di Riccardi sul partito romano, infatti, manca a tutt’oggi l’analisi dei rapporti fra mondo cattolico e destra italiana.

A ben vedere, il momento in cui il Msi ha avuto la possibilità di esprimere un abbozzo di strategia politica è stato dopo la fine della prima segreteria Almirante (gennaio 1950), allorché De Marsanich e Michelini (con l’aiuto di De Marzio e di Tripodi) impostarono una linea che privilegiava proprio l’elemento cattolico. Si trattava di allargare il partito dai reduci della Rsi alla grande massa cattolica che si sentiva poco  (sempre meno) rappresentata dalla Dc. Emerse così la possibilità di formulare una strategia che, senza perdere di vista l’identità dettata in qualche modo dal fascismo e dal suo modello, potesse realizzare l’ossimoro: essere fascisti in democrazia.

Si è trattato di una strategia che durò dal 1950 al 1976, concludendosi definitivamente con la scissione di Democrazia Nazionale, e cioè per 26 dei 49 anni della storia del Msi e cioè per più della metà della sua vicenda politica.

Ernesto De Marzio

La destra cattolica divenne così il veicolo culturale di tale modello politico: se pensiamo ai Centri di vita italiana di De Marzio e al già citato Inspe vediamo che la linea culturale che Micheliniimpresse al partito fu quella della vicinanza al mondo cattolici. Al congresso milanese del 1956, Michelini esordì affermando che il Msi era un partito di cattolici e i rautiani di Ordine Nuovo, evoliani e pagani, se ne adontarono, per poi uscire subito dopo quel congresso. Attorno a De Marzio si venne formando un gruppo di giovani che poi ebbe notevole importanza nel partito: Fausto Gianfranceschi, Giano Accame, suo cugino Franco, Piero Vassallo, Sergio Pessot, Gianfranco Legitimo, Fausto Belfiori, Enzo Erra, Carlo Casalena, Gaetano Rasi, Francesco Zusich. Essi affinarono la posizione culturale del Msi e dei suoi organismi giovanili e sindacali sottolineando le vicinanze fra il pensiero del Msi e la dottrina sociale della Chiesa. Il corporativismo cattolico, la partecipazione agli utili e alla gestione delle imprese erano temi fascisti, anzi erano i cavalli di battaglia della “sinistra” socializzatrice dei Massi e dei Palamenghi Crispi; ma fu messo in evidenza che proprio i cattolici alla Toniolo erano stati i primi a parlarne. E ciò per dimostrare, da parte degli intellettuali della destra vicini al mondo cattolico, che la dottrina sociale dei Papi era la meno distante dal corporativismo fascista.

Insomma, quella che era stata interpretata dagli ambienti nostalgici e identitari del partito come un progressivo scivolamento verso la Dc era in realtà la preparazione di una soluzione politica diversa dall’irrigidimento  e dalla trascurabilità politica, che prevedeva la nascita di un secondo partito cattolico, posizionato decisamente a destra.

Ciò sarebbe dovuto avvenire allorché la tensione fra destra e sinistra Dc si fosse fatta insostenibile. I contatti tra Gedda e ambienti del Msi (Vanni Teodorani e Michelini fra tutti) stavano a dimostrare l’attenzione del presidente dell’Azione Cattolica e dei Comitati Civici alla evoluzione del Msi da partito di mera testimonianza a partito attivo politicamente e determinante anche dal punto di vista parlamentare.

Dal punto di vista storico sono molti gli interrogativi che queste carte potrebbero aiutare a risolvere. Ad esempio capire quale sia stato in tutto questo il ruolo svolto dal card. Siri, arcivescovo di Genova, sul quale la letteratura storica oggi tende a sorvolare gli aspetti prettamente politici, preferendo concentrarsi su quelli pastorali e spirituali. La medesima operazione si sta facendo su Gedda e tutto questo rende la ricostruzione un poco sospetta. Secondo alcune ricostruzioni da parte della destra, si cerca, comprensibilmente, di coinvolgere in alcuni eventi dell’immediato dopoguerra anche il cardinale di Genova: probabilmente esiste la possibilità di una interpretazione più articolata che, pur nella evidente differenza delle finalità, possa ammettere contiguità e contatti fra la destra e il mondo cattolico soprattutto di curia. Andrebbero verificati i contatti dell’ambiente missino o comunque della destra culturale con i già citati Gedda e Siri, ma anche con il card. Micara, con padre Spiazzi, della cui simpatia verso la destra non dovrebbero esserci dubbi, e con Francesco Leoni, uomo di fiducia del card. Ottaviani, il cui archivio è ancora da analizzare e sul quale non esiste alcuno studio.

I momenti caldi di questo percorso sono sicuramente l’Operazione Sturzo (1952), nella quale l’uomo vero di riferimento fu Gedda e Sturzo rimase pochi giorni al vertice dell’operazione – dandole anche il nome – il tempo necessario per comprenderne l’impossibilità; poi vi furono i governi nei quali il Msi ebbe comunque un ruolo politico (Pella 1953-54, Zoli 1957-58, Segni 1959-60, Tambroni 1960); quindi la segreteria democristiana di Moro, con le maggiori possibilità che si venissero a creare le condizioni per la nascita del secondo partito cattolico. Infine i fatti di Genova del 1960 che sembrarono chiudere tale esperimento. In realtà non fu così perché da parte missina e da parte degli ambienti moderati cattolici si riteneva che l’apertura a sinistra preludesse a un irrigidimento del Vaticano che non ci fu.

La morte di Pio XII fece vanificare il piano del vertice missino e con Giovanni XXIII venne meno anche l’opposizione a un governo aperto ai socialisti; il che fece naufragare le prospettive missine. Ma a dimostrazione che questa linea era probabilmente l’unica percorribile, essa fu perseguita anche oltre la scomparsa del segretario che l’aveva inventata e cioè Michelini. Con Almirante, in maniera meno coerente e più spregiudicata, in qualche modo fu mantenuta, come la creazione della Destra nazionale nel 1973, la campagna referendaria contro il divorzio del 1974 e infine la  Costituente di destra del 1975 stettero a dimostrare.

Da questo punto di vista la figura di Primo Siena è fondamentale per rispondere a una domanda di fondo. L’apertura ai cattolici e la costruzione di una strategia filocattollica nel Msi rispondeva a una esigenza meramente pragmatica, era frutto di una semplice logica dell’inserimento (come si è spesso sostenuto) o rispondeva invece anche a una esigenza di carattere culturale?

Sappiamo che nel Msi il rapporto, per dirla alla marxista, tra teoria e prassi è tra i meno coerenti che esistano nella storia dei partiti della prima Repubblica. Il messaggio culturale che il Msi presentava era quanto di meno legato alla realtà di un partito che sedeva in Parlamento e che contribuiva a elaborare le leggi. Il bagaglio culturale del partito andava da Gentile a Evola, da Prezzolini a Bottai, dal sindacalismo rivoluzionario al conservatorismo liberale, dalla reazione controrivoluzionaria al socialismo in chiave nazionalista.

Ma tra il 1952 e il 1960 si assiste a un tentativo di riepilogare e definire meglio non solo l’offerta politica del Msi, ma anche quella culturale. I due piani, in questo caso, s’intrecciano: la linea politica di Michelini impone, in qualche modo, alla sinistra di Pettinato e Pini, nonché a quella di Massi, l’uscita dal partito, anche se in tempi diversi; allo stesso modo, il congresso di Milano impone a Rauti e al gruppo di Ordine Nuovo l’abbandono del partito. Non si tratta solo di correnti politiche che abbandonano la casa madre ma di due modi di intendere il partito incompatibili con la linea del segretario. Da un lato viene abbandonata l’idea che il Msi possa arroccarsi nel binomio nostalgia-terzaforzismo, che è quella dei socializzatori della sinistra, che si rifà alla Rsi e vede equidistanti Usa e Urss; dall’altro, viene esclusa l’idea che il Msi possa, culturalmente più che politicamente, inseguire il mondo di Evola, il tradizionalismo antimoderno, il rifiuto di una visione storica in divenire, in nome della Tradizione che rassicura nella sua fissità e immobilità .

Quale allora l’alternativa? Occorre tornare alla figura di Primo Siena che, in anticipo su altri, colse la necessità di una precisazione culturale rigorosa e senza equivoci. Già nel volume Le alienazioni del secolo, uscito nel 1959 e che aveva ottenuto significativamente il premio “Angelicum”  dueanni prima (quando il volume era ancora solo un saggio) dato all’autore da una giuria presieduta dal filosofo cattolico Guido Manacorda e composta da altri filosofi cattolici di altissimo livello come Michele Federico Sciacca e Marino Gentile, dal traduttore di Eliot e Shakespeare Alfredo Orbetello e dal teologo padre Raimondo Spiazzi.

Nel volume Siena affrontava sistematicamente le tre alienazioni contemporanee (quella laicista, quella liberale e quella marxista) e la «perennità dei valori cristiani» all’interno dei quali vedeva sostenuta, dalla dottrina sociale della Chiesa quel solidarismo cristiano che poteva rappresentare una alternativa anche a livello politico. Contestando Mounier e il progressismo cattolico, Siena si collocava in una posizione di forte sintonia con la sociologia cattolica (qualche anno più tardi, Legitimo individuava in de Maistre, Taparelli d’Azeglio e Toniolo i sociologi cattolici italiani più significativi per un impegno di carattere politico) e sosteneva che l’espressione cattolicesimo sociale fosse una tautologia, non potendosi ammettere un cattolicesimo non sociale.

E’ significativo che Siena ricordi il convegno nazionale dei giovani universitari di destra, tenutosi a Firenze nel novembre 1957 sul tema “La scelta dei Cattolici”: vi parteciparono diversi intellettuali di area, a cominciare dallo stesso Primo Siena e da Attilio Mordini, e fu presieduto da P. Agostino di Cristo Re, al secolo Umberto Visetti, già valoroso ufficiale della seconda guerra mondiale, medaglia d’oro, poi diventato monaco agostiniano.

Un quadro complessivo di questo percorso – e del quale esiste puntuale riscontro fra le carte – è il volume di Siena, Incontri nella terra di mezzo, che costituisce una rassegna dei contatti, dei riferimenti culturali di questa area politica: ne emerge un quadro estremamente ricco con richiami a maestri e amici come Giovanni Gentile, Marino Gentile, Julius Evola, Guido Manacorda, Silvano Panunzio, Michele Feederico Sciacca, Vintila Horia, Russel Kirk, Giovanni Papini, Attilio Mordini, Ferdinando Tirinnanzi, Romano Guardini, Emilio Bodrero, Charles Maurras e carlo Alberto Disandro.

In questo quadro si inseriva il recupero del concetto di democrazia, che costituiva il vero elemento politico qualificante di questo gruppo. Rispetto al nostalgismo dei socializzatori e all’altrove evoliano dei rautiani, il concetto di democrazia desunto dal solidarismo cristiano rappresentava il vero quid novi in campo neofascista. Si trattava – Siena lo aveva spiegato più volte – di una concezione che vedeva la democrazia come metodo non come fine assoluto; in questo larga parte del mondo cattolico moderato si ritrovava. Si trattava di una concezione organica della democrazia che partiva dalla contestazione del principio illuminista della mera rappresentanza politica sulla base delle posizioni ideologiche dell’elettore. A questa visione Siena contrapponeva la rappresentanza duplice, politica e professionale, nella quale tutte le dimensioni del reale fossero rappresentate. Era evidente l’assonanza con analoghe esperienze iberiche, in particolare nel Portogallo di Salazar, che fu per molta cultura cattolica di destra un modello di riferimento per certi versi ancora più indicativo dello stesso fascismo. Ed è molto significativo che Siena individui questa evoluzione nell’arco del fascismo tale da comprendere anche la Repubblica sociale, che Siena vede, in alcuni personaggi che ne fecero parte, avviata verso una concezione pluralistica e non più totalitaria.

Su questa linea, che Malagodi e Togliatti, da punti di vista poi non così differenti, definirono clericofascismo, si ritrovarono, alla fine degli anni Cinquanta Gedda, Siri, Baget Bozzo, Teodorani e lo stesso Michelini. Fu questo cattolicesimo nazionale, solidarista e anticomunista, democratico efondato sui corpi sociali intermedi, di destra ma anticapitalista, conservatore e nettamente ostile a simpatie o condiscendenze naziste o razziste, contro il quale si schierarono quasi tutte le forze politiche a Genova per impedire formalmente il congresso del Msi nel quale Michelini avrebbe annunciato una trasformazione significativa del partito, ma in realtà per impedire che prendesse piede ulteriormente un governo Tambroni che di questo cattolicesimo nazionale – lui, esponente non a caso della sinistra Dc – finiva col diventare la sintesi e la legittimazione.

Una linea, questa, destinata come si è detto a proseguire nel tempo: nelle carte di Siena vi è un importante appunto relativo al Convegno corporativo che si tenne, su iniziativa di Michelini, ad Arezzo nel maggio 1967. Ci pare opportuno riportarlo come memoria perché dà conto della linea politica che  in quel momento il Msi stava perseguendo.

Il convegno, presieduto dall’on. Franco Franchi in rappresentanza dell’on. Michelini, si svolse su cinque relazioni, coronate da un interessante dibattito seguito da un pubblico qualificato. La prima relazione incentrata sul tema “La Carta del Lavoro e lo Stato Corporativo” fu svolta dal Dr. Diano Brocchi, il quale sviluppò un’ampia analisi della genesi della Carta del Lavoro, mettendone in evidenza i punti salienti sui quali venne costituendosi lo Stato Corporativo quale profonda trasformazione sociopolitica della società nazionale.

Il Dr. Ugo Clavenzani, antico sindacalista corridoniano, trattò  successivamente della “socializzazione” considerandola un naturale sviluppo della Carta del Lavoro nel processo di superamento della lotta di classe apportatrice di odio e di scompiglio sociale; superamento che nella partecipazione dei lavoratori al processo produttivo sigilla il traguardo istituzionale della collaborazione sociale.

L’on Achille Cruciani trattò dell’azione parlamentare condotta dal Msi per l’attuazione degli articoli della Costituzione italiana rimasti ostinatamente lettera morta, per la partecipazione dei lavoratori agli utili delle imprese, per il miglioramento della previsione sociale e contro il blocco delle retribuzioni.

L’On Franco Franchi, portando a testimonianza una serie di scritti e documenti,  rilevava come la Carta del Lavoro contenga  delle indicazioni di mirabile vitalità ed attualità,   tuttora idonee a risolvere molti problemi determinati dalla crisi della società moderna.

Fu poi la volta della relazione svolta dal prof. Primo Siena sul tema “Corporativismo e libertà: verso un nuovo tipo di rappresentanza”. Prendendo in esame i falsi assiomi del democratismo, Siena appoggiandosi sulle testimonianza di intellettuali insospettabili di “lesa democrazia” quali Benedetto Croce,  Salvador de Madariaga, Simone Weil, Walter Lippmann,rilevava maliziosamente la separazione di fatto tra le libertà concrete e  la democrazia illuminista fondata sul sofisma della “volontà generale”; la quale,  monopolizzata dai partiti, ha preso in ostaggio la libertà dei cittadini-produttori trasformando lo Stato democratico moderno in un “tiranno senza volto” secondo la denuncia del costituzionalista Giuseppe Maranini, dove lo statalismo diventa la caricatura dello Stato. Avvertendo che l’immoralismo dei sistemi politici vigenti deriva dai filosofemi di Rousseau, perché la partitocrazia devasta come un tumore maligno i tessuti organici della società e dello Stato,  il relatore  sosteneva: «Oggi è necessario partire dalla libertà per avviare il processo di rinnovamento dello Stato  e dell’ordine civile», e  proseguiva affermando: «La rappresentanza corporativa è l’alternativa che la libertà nell’ordine oppone al tirannico regime fondato sulle oligarchie di partito e sulla entocrazia (cioè sulla giungla degli enti di sottogoverno infeudati ai partiti e che vivono parassitariamente  sulla comunità nazionale)». Di conseguenza, il metodo elettorale (oggi basato sul “principio del numero”) andava riorientato verso il criterio della competenza (cioè il “principio del meglio”). Il che, sottolineava il relatore, non significava contravvenire al principio del suffragio universale del voto a tutti., ma mediante l’adozione del voto plurimo da esercitare sia in sede politica che sindacale, ci si avvierebbe verso quella rappresentanza organica che, poco a poco, potrebbe sottrarre ai partiti il monopolio della rappresentanza, restituendoli al ruolo di stimolatori del pubblico dibattito politico.

Qual era la novità di tale intervento? Essa era nel fare del tema della libertà – fino ad allora abbastanza trascurato nel dibattito interno del popolo missino – l’argomento principe della proposta alternativa rappresentata dal Msi, dimostrando, così, di mantenere su un terreno di permanente attualità il suo impegno costituente: non rinnegare, ma non restaurare.

Il convegno veniva chiuso da Augusto De Marsanich, presidente del Msi, il quale illustrò i principi economici e sociali dell’ordinamento corporativo, saldamente ancorato alla parità dei fattori della produzione, sulla giustizia ed equità nei rappporti di lavoro scaturenti dalla volontà delle parti sociali, sull’autogoverno delle categorie socioeconomiche, sulla rappresentanza organica scaturita dalla volontà effettiva di tutte le forze vive della nazione.

L’Italia, con la Carta del Lavoro, nel 1927 si era spinta molto in avanti sulla via dell’evoluzione sociale avviando un rinnovamento della società e dello Stato, di cui la dittatura era stata solo un capitolo irripetibile, essendo legato storicamente all’autobiografia politica di Mussolini; rinnovamento che meritava profonda attenzione da parte di chi, rifiutando desueti nostalgismi, intendeva trarre dal passato elementi di giudizio ed indicazioni positive da proiettare nel futuro.  

Come si può vedere, il programma e la prospettiva del Msi erano, alla fine degli anni ’60, assolutamente legati alla condivisione dei un metodo democratico e al superamento – difficile e faticoso – del bagaglio fascista, a cominciare dalla dittatura, per finire con lo Stato etico. Riteniamo che lo studio di queste carte possa aprire nuovi e innovativi scenari alla ricerca storica, scopo questo precipuo del lavoro che la Fondazione Spirito – De Felice va svolgendo da diverso tempo non soltanto nell’ambiente accademico.

 

Relazione al convegno “Le culture politiche nell’archivio della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice”, svoltosi nella sede della Fondazione, in Roma, il 15 dicembre 2017.

Il testo completo di apparato di note e bibliografia è disponibile in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX, pp. 153-164.

 

 

Le guerre viste da un ospedale da campo: dalla Libia a Caporetto

Filippo Petroselli, Ospedale da campo. Memorie di un medico cattolico, dalla guerra di Libia a Caporetto, a cura di Gianni Scipione Rossi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017

// La personalità di Filippo Petroselli è stimolante, complessa. Si articola attraverso diversi livelli identitari. È infatti un medico, un cattolico, è originario di Viterbo, la Città dei Papi. È un patriota che ama l’Italia, il suo paese, e che vive i turbolenti primi decenni del 900 dai quali è coinvolto in prima per- sona, come medico militare e come attivista politico, prima nel Partito Popolare Italiano e poi nella Democrazia Cristiana. È anche uno scrittore, un romanziere stimato. I suoi pensieri, le sue riflessioni, i suoi sentimenti sono, ovviamente, il riflesso del tempo che vive. La sua è la storia di un singolo, la storia di un individuo, ma proprio le sue varie sfaccettature identitarie ci consentono di tratteggiare un esempio, un “idealtipo” più completo. Attraverso la sua figura e il suo sguardo sugli avvenimenti, è possibile seguire da vicino, e meglio, le vicende di allora e come si svilupparono, i cambiamenti che originarono e le mentalità che produssero. È possibile comprendere il percorso esistenziale di un uomo, la maturazione delle sue idee a seguito delle atrocità della guerra.
Petroselli fu medico militare prima in Libia e poi nella Prima Guerra Mondiale. Prende appunti di quelle esperienze. Appunti che rielabora suc- cessivamente, tra il 1920 e il 1921, inediti, praticamente, fino ad oggi. Quello di Petroselli non è un caso singolare: la grande guerra, in particolare, aveva provocato una notevole mole di lettere e diari. Anche per l’armata italiana, se pur in grandissima parte analfabeta, il primo conflitto mondiale si rivelò un’esperienza tanto straordinaria e sconvolgente da sentire il bisogno di raccontarla attraverso epistole, appunti e note.
Fra i due conflitti mondiali è sorta una vera e propria letteratura di guerra, anche se i testi destinati a circolare furono pochi, per il perdurare delle forti limitazioni imposte alla stampa anche dopo la fine della guerra e per la censura messa poi in atto dal regime fascista. Forse è per questo che Petroselli non ha voluto pubblicare il suo diario, dove non ci sono pagine edulcorate o inneggianti il conflitto. La sua scrittura è il riflesso caleidoscopico delle immagini e delle sensazioni a cui hanno dato luogo le sue diverse sensibilità. Non solo: la scrittura si rivela strumento particolarmente efficace proprio per seguire le evoluzioni del suo pensiero sul tema della guerra, che emergono tra l’impresa coloniale e il trauma inferto dall’inutile strage che allontana definitivamente i ricordi esotici di Tripoli.
Quando parte per la Libia, come medico militare, Petroselli ha ventisette anni. La politica italiana coloniale non è mai stata una grande politica, ispirata a chiare e ben determinate direttive, mossa da un grande, o anche piccolo, principio generale coerente con gli ideali, o le ideologie, dei gruppi o partiti al potere. Non ci fu alcun disegno ispiratore, dunque. Ci fu, invece, un fenomeno emotivo prima ancora che politico e strategico. Nasceva allora la così detta “opinione pubblica”, fenomeno incoraggiato dalla campagna di stampa organizzata dai grandi quotidiani. Da qualche anno ormai i nazionalisti italiani auspicavano una guerra. Una guerra a qualunque costo e di qualunque tipo, che servisse a demolire il pacifismo, l’umanitarismo, il democraticismo, l’internazionalismo e tutti quegli ismi, insomma, che, ai loro occhi, stavano avvelenando la vita del paese, succube e depresso da anni da governi considerati deboli, “molli”, senza spina dorsale. Anche gli intellettuali non furono immuni da queste velleità. Si pensi solo a Corradini e a Marinetti (che due anni prima dell’impresa coloniale in Libia aveva pubblicato il suo manifesto futurista), i nomi più illustri, ma anche al Pascoli, che si esprimevano soprattutto attraverso riviste come “Il Regno”.


Il movimento nazionalista andò alla ricerca della “sua” guerra, di una guerra che svegliasse le addormentate energie nazionali. Il movimento era diviso tra la concezione nazionale-irredentista, che mirava alla difesa e al riscatto delle nazionalità italiane soggette ancora all’Austria, e la tendenza imperialistica, abbracciata da Corradini, che vedeva nell’espansionismo coloniale e nella guerra di conquista un “ordine morale” ed un “metodo di redenzione nazionale”. Il 1910 segna la nascita ufficiale del movimento sul piano organizzativo. Si comincia a vedere il prevalere della corrente corradiniana e, da questo momento, possiamo dire, prende le mosse la campagna nazionalista a favore della conquista della Libia, con una martellante azione di stampa condotta per influenzare l’opinione pubblica e fiancheggiata da importanti giornali come “La Stampa”, “Il Messaggero”, “Il Resto del Carlino” e poi, da ultimo, anche “Il Corriere della Sera”. Si potrebbe quasi dire che l’impresa coloniale e, in particolare, la Prima Guerra Mondiale siano sta- te volute e preparate anzitutto dai grandi organi di informazione o, almeno, da una parte di essi. Come disse Gaetano Salvemini, senza il contributo del “Corriere della Sera”, diretto allora da Luigi Albertini, l’intervento dell’Italia nel primo conflitto non sarebbe stato possibile. Era la fase, come si espresse con molta lucidità un altro contemporaneo di allora, Giovanni Amendola, della formazione dell’opinione pubblica, ossia della creazione dei motivi determinanti di una decisione.
La propaganda nazionalista cercò di infiltrarsi in ogni manifestazione della vita pubblica nazionale, ove fosse possibile inserire in qualche modo la questione tripolina. Sia in D’Annunzio che in Pascoli ci troviamo di fronte ad una stessa matrice di ispirazione nazionalistica, che in Pascoli si colorava di un vago umanitarismo, ma che, in concreto, offriva argomenti alla predicazione nazionalista. Il soldato italiano, il soldatino come lo chiamava Pascoli, fu al centro di questo grande battage che venne creato attorno all’impresa giolittiana, fra letteratura, giornalismo, pubblicistica e perfino cinematografica alle sue prime esperienze. Il soldato fu oggetto di storie mitiche ed eroiche, drammatiche e romantiche. Il paese si trovò, insomma, allo scoppio della grande guerra con un apparato di slogans e di temi già sperimentato e collaudato ampiamente.
Come s’è detto, Petroselli era un cattolico e un patriota. Non era, però, un nazionalista. Amava la sua patria e, coinvolto nel clima culturale dell’epoca, non fu estraneo ai richiami alle crociate che l’impresa libica suggeriva. Come non era estranea in lui la commozione a sentir parlare degli alpini, tra romanticismo e retorica dell’epoca:
<Fu allora che conobbi gli alpini. Italiani! Inchiniamoci a questo nome. Suona così grande! Vuol dire: valore, sacrificio, generosità, lavoro, bontà, tenacia, amore di patria. Grandi e buoni alpini, ben piantati sui polpacci gonfi dell’acciaio.>
Sono sentimenti che forse, se presi singolarmente, perdono di efficacia, ma che, se valutati assieme come un tutto, ci rendono più facile il compito della comprensione. C’era la patria con la sua retorica e il suo romanticismo, appunto, e poi c’erano la fede e la religione. Richiami sacri e profani convi- vevano e accanto al ricordo delle crociate affiorava quello della grandezza della Roma imperiale:
<Le lagrime mi velarono gli occhi quando, a sera, la fanfara intonò da prua e dominò le deserte vastità del mare e del cielo. L’inno si svolse lento, maestoso come la cadenza del vostro (degli alpini) passo potente e ferrato… (il piroscafo) avanzava sovrano nell’Ave-Maria cantata dalla fanfara: canto fermo nella Cattedrale che aveva per cupola il cielo e per lampade le prime stelle. A prua era la santa immagine della Patria.>
C’era l’entusiasmo per i propri soldati quando riuscivano vittoriosi nelle battaglie, come in quella di Ettangi, alla fine di maggio del 1913:
<Come i Crociati in vista di Gerusalemme, ognuno ha le ali al cuore, ali ai piedi. L’entusiasmo serpeggia tra le file. Gli ascari son frenati a stento dagli ufficiali.>
Ma subito dopo, Petroselli annotava:
<Il velo misterioso s’è alzato. Ettangi è solo un nome ed un pianoro rossiccio. Desolazione e deserto a perdita di vista.>

E, ovviamente, c’era l’orrore che riportava alla realtà:
<è il primo morto… altro ferito… è una ferita di striscio. Lo disinfet- tiamo con la tintura di iodio, il sanguigno disinfettante della guerra moderna. Ne ho a tracolla una fiasca. Tintura d’odio. Così spesso la chiamano i soldati analfabeti; ma fabbri inconsapevoli di una più veritiera parola…>
Un lavoro febbrile è cominciato. Il medico in battaglia non è infuocato dall’ardore del combattente… «Qui no, qui si vedono i tristi effetti del furore dell’uomo divenuto bestia. Occorre freddezza, calma, umanità per amici e nemici. Non è fascino di gloria o di morte, non c’è impeto di sangue». E ancora, più avanti nel diario, Petroselli ricorda la cattura e la tortura di un soldato turco:
<Brutta roba la guerra! La scena divenne ripugnante. Urlai, minacciai, cercai di convincerli che dopo tutto quel disgraziato difendeva la sua patria. Gli alpini, tra brontolii e sordi bestemmioni, mollarono. Gli ascari, inferociti per la morte del compagno, non volevano sapere di clemenza.>
Quel disgraziato difendeva la sua patria: un’espressione carica di significato. Indica le ragioni degli uni e degli altri, la validità, per chi le fece, di quelle scelte, a fianco della propria patria. Indica anche, forse, una maturazione ancora da venire: si vuole riscattare il compagno morto per orgoglio e il soldato turco è, appunto, considerato un soldato, non una persona. Il fattore umano deve ancora emergere. Ci penserà il primo conflitto mondiale e, ancor di più, il secondo, con i suoi cinquanta milioni di morti, a far cadere definitivamente la distinzione, adottata dalla Chiesa, tra belligeranti e civili. Ma già la Prima Guerra Mondiale, come poi riconobbe anche Sturzo, che pure ne era stato un sostenitore, così come aveva sostenuto l’impresa coloniale libica, dimostrò l’impraticabilità della dottrina della guerra giusta, tesa a moralizzare il ricorso alla forza armata. La Prima Guerra Mondiale fu una guerra secolare non riconducibile ad alcun riferimento religioso e la Chiesa non fece alcun ricorso a tale dottrina. I cattolici, infatti, vi aderirono per le ragioni patriottiche dei propri paesi. Anzi, con Benedetto XV, e con la sua nota definizione del conflitto come inutile strage, iniziava ad incrinarsi il concetto di guerra giusta. Si avviava, così, all’interno della cultura cattolica, il difficile cammino che avrebbe trovato esito nell’inammissibilità del ricorso alla religione per giustificare l’impiego delle armi (ricorso che aveva consentito di ricondurre i conflitti all’interno della morale cattolica) e poi nel riconoscimento della prassi della non violenza come criterio su cui costruire l’ordine giuridico della società. Con Benedetto XV era stato compiuto un decisivo passo avanti per sottolineare quel nesso inscindibile tra religione e pace che inevitabilmente finiva per gettare interrogativi sulla possibilità di una legittimazione della guerra da parte della Chiesa. Già durante il primo conflitto, tra l’altro, era in discussione la legalizzazione dell’obiezione di coscienza. I soldati di ritorno dalla Libia, come annota Petroselli, erano guardati con rispetto e devozione, circondati da un’aurea di sacralità, complici, anche, i reportages della stampa assolutamente lontani dalla realtà. Non fu così per i soldati di ritorno dalla Prima Guerra Mondiale. Il primo conflitto segna una cesura. Il registro stilistico della scrittura di Petroselli cambia, come si può osservare sin dalle prime frasi del suo diario. Non si lasciò prendere dall’entusiasmo irrazionale e, con una consapevolezza che non tutti i contemporanei seppero dimostrare, scriveva:
<Nessun canto… C’è la guerra che guarda… C’è molto artifizio. Entusiasmo non c’è… Leggiamo sui giornali, che Giolitti a Roma, perché dice d’andar cauti, di veder chiaro prima di giocar la carta e forse dannar l’Italia, è vilipeso, sputacchiato, accaneggiato… Lontano già brontola il cannone… C’è della gente in buonissima fede che crede la durata della guerra appena di due mesi… è moneta corrente. Guai a contraddirli! Chi osa, timidamente, osservare qualcosa che logica ed onestà suggeriscono, è jettatore, gufo, vigliacco e nemico della patria… E poi, a chi giova? Ormai il freno è spezzato, siamo sulla china.
Ancora si trovano i toni aulici e retorici, ancora si rammentano Sparta e Roma:
Da una fenestrella ammiro i fanti che salgono all’attacco. È uno spettacolo sublime. Ogni fibra mi trema d’orgoglio. È una visione di Sparta e di Roma. Ma il trauma inferto dalla grande guerra è diverso.>

All’entusiasmo, si affianca la pietas cristiana e il termine famiglia, ad indicare il rapporto coi soldati e col reparto, ritorna più volte in questa parte del racconto, a differenza della prima, sulla Libia, dove il termine non compare. Più che entusiasmo, c’è partecipazione umana.
E poi c’è Caporetto che diventa un simbolo. La disfatta di Caporetto non lascia indifferente nessuno, a prescindere dagli orientamenti politici. Per ognuno diviene simbolo di qualcosa. Per molti, sicuramente, diviene il simbolo del risveglio. Per Malaparte, ad esempio, fu il risveglio del proletariato. Per i nazionalisti e gli irredentisti fu il risveglio del sentimento patriottico.
Apparentemente e temporaneamente la guerra aveva creato un più forte sodalizio e sentimento di fratellanza. Come s’è detto, Petroselli non era un nazionalista. Era un patriota. Quale fu la sua reazione? È interessante leggerla e, quindi, “osservarla dall’esterno”: si avverte un climax, in termini di crescita personale.
Dopo Caporetto, i suoi toni e le sue emozioni sono riconducibili alla patria “offesa e calpestata” e, non a caso, il ricordo va al grande spirito di Garibaldi di fronte al quale Petroselli si commuove. E pure, la ferita di Caporetto è il salasso, che apre gli occhi ed infiamma il cuore d’Italia. A proposito di un alpino che esclama “Resistere dovemo e anca forse copar par l’Italia, no se pol tirarse in drio!” commenta:
<Segni dei tempi. È la prima volta che sentiamo parlar così. È il primo benefico effetto della disfatta… Caporetto ha stappato il cerume a molti orecchi, ha sollevato le cataratte a parecchi occhi, ha forse sve- gliato qualche cuore…
Il soldato non è più soltanto la bestia da soma e da sangue…
Timidi e valorosi, audaci e spavaldi, malaticci o feriti. Sentono la Patria che li chiama a gran voce. In ogni sguardo brilla una nota della Mar- sigliese. È la prima volta che la loro fronte è lucente. C’è la volontà di vincere o di morire. C’è l’offerta del corpo e dell’anima, c’è l’orgoglio, c’è la fede, c’è la sicurezza nello sguardo e nel cuore. Sentono premere sul petto il tallone straniero che, al di là del fiume, calpesta la patria.>
Ma poi, con toni feroci che erano stati assenti dopo l’esperienza in Libia, scriveva:
<La guerra non purifica. È una menzogna! La guerra è una melma che tutto copre e tutto imputridisce.>
E concludeva:
<Ma ora che il bavaglio è stato tolto, vorrà l’Italia una buona volta, udire la verità, la verità vera, quella che noi italiani non vogliamo mai udire.>

Caporetto è il contesto drammatico che, più di altri, porta alla luce quel caleidoscopio di sentimenti e ragioni di cui s’è detto: la patria, la fede, l’orgoglio, le atrocità del conflitto, e che porta altresì ad una lenta maturazione, in Petroselli come in tanti altri cattolici, tra i quali il già citato Sturzo, dal con- cetto di guerra come castigo di Dio al concetto di guerra come evento frutto del libero arbitrio dell’uomo che costringe, perché elemento imprescindibile, ad una decisa valorizzazione del concetto di persona, come soggetto morale con una propria dignità, anzitutto, come individuo responsabile dei propri atti e come luogo di conciliazione fra l’uomo e il patriota. Avrebbe scritto Sturzo nel ‘41: «Sento tutta la ripugnanza spirituale dell’olocausto di milioni di giovani… Anche se essi siano tutti convinti nazisti e comunisti, il che è assai dubbio, essi sono uomini come noi, hanno un’anima come la nostra; la loro morte ci deve contristare e perché uomini e perché cristiani… Non potremmo mai renderci conto delle vie della Provvidenza se non partiamo da un principio indiscusso che Dio, permettendo il male, perché rispetta la nostra libertà di agire, ne fa motivo di bene per coloro che ascoltano la voce e adempiono la sua volontà» (Le vie della Provvidenza, in “Commonweal”, New York, 21 novembre 1941). Il male, allora, non è più un castigo divino, e può diventare occasione di riflessione e di miglioramento.
La guerra è finita. «Il reparto si scioglie. Quattro anni di pene comuni, quattro anni di famiglia… Abbiamo trovato il mondo sconvolto, la parola coscienza cancellata dal vocabolario». Il diario di Petroselli si inserisce nel filone letterario della letteratura di guerra, che conta circa 1.500 opere pub- blicate. A cosa può servire questa ulteriore testimonianza? Ci sono momen- ti della storia particolarmente difficili da comprendere, perché complessi e perché molto lontani dal nostro presente. Qui si sono accennati solo pochi aspetti dei tanti che caratterizzarono quei primi decenni del ‘900, decenni così intensi in cui nacquero le grandi idee e la loro circolazione coinvolse un numero sempre maggiore di individui. Le grandi sintesi in questi casi non ci vengono incontro nel nostro sforzo di comprensione. Al contrario, è la cronaca minuta, la storia del singolo, di ogni singolo, a darci tutte le sfumature necessarie a comporre il contesto in cui si svolsero gli eventi e in cui uomini e donne si trovarono ad agire. Ecco, allora, che anche la storia di Filippo Petroselli è l’utile tassello di questa composizione.

Maria Chiara Mattesini

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX

Donato alla Fondazione l’archivio di Roberto Melchionda

La Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ha acquisito l’archivio di Roberto Melchionda, grazie alla donazione fatta dallo stesso studioso. L’archivio consta di 6 fascicoli di corrispondenza con moltissimi esponenti dell’area politica e culturale della Destra del Novecento, da Luciano Lucci Chiarissi a Primo Siena, da Giovanni Volpe a Fausto Gianfranceschi e ancora Attilio Mordini, Giano Accame, Fabio De Felice, Gian Franco Lami, Franco Cardini, Enzo Erra e molti altri. Tutt’altro che infrequente è imbattersi in minute dello stesso Melchionda, non sempre reperibili negli archivi privati, i cui produttori spesso non conservano proprie missive a terzi.

Nel fondo archivistico sono presenti anche suoi scritti, ritagli stampa, brochures di libri, inviti a convegni. Non c’è dubbio che lo studio di queste carte possa illuminare un ambiente, il milieu politico-intellettuale del tradizionalismo cattolico incrociantesi con l’area politica conservatrice, e un periodo, quello degli anni Cinquanta-Settanta del XX secolo, non di rado di difficile esplorazione, per ricostruire gli stati d’animo, i desideri, gli intendimenti e i sentimenti di uomini dediti allo studio in uno spazio culturale spesso ignorato.

Nato nel 1927, Roberto Melchionda ha collaborato con numerose testate giornalistiche, tra le quali sono da ricordare «Tabula rasa» e «Totalità». Nei suoi studi si è occupato in particolare del pensiero filosofico di Julius Evola.

 

Terni, i garibaldini e la battaglia di Mentana

D.S. Pirro, F. Canali (a cura di), Correva l’anno 1867. Terni e l’impresa di Mentana nel 150esimo anniversario, Amici della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, Terni 2018

// Nel generale distacco della memoria storica nazionale dalle vicende del Risorgimento, il 150esimo anniversario della Campagna dell’Agro Romano è trascorso nella più generale indifferenza. Opportuno e meritevole, dunque, il Convegno tenutosi a Terni – città che vide raccogliersi i volontari garibaldini per tentare la conquista di Roma – il 7 ottobre 2017 che ha coinvolto anche il locale Liceo Classico “Tacito” e di cui sono stati pubblicati recentemente gli atti a cura della Delegazione di Terni degli Amici della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. Sia pure in dimensioni contenute, il volume consente di lumeggiare molti aspetti, non scontati, relativi alle res gestae che culminarono nella battaglia di Mentana; gli interventi riguardano infatti la situazione del Regno e dello Stato pontificio alla vigilia delle drammatiche vicende; la discussione in Parlamento prima, durante e dopo Mentana; il ruolo di Francesco Crispi nella Campagna; un ampio ritratto di un genius loci, il ternano Ottavio Coletti, patriota partecipe della spedizione e di molte altre vicende risorgimentali; infine un’interessante ricognizione dei monumenti garibaldini a Terni e provincia. Un volume che, fermo restando il carattere scientifico degli interventi, può essere un efficace strumento didattico per coltivare quelle che una volta si chiamavano le memorie della storia patria. (R.S.)

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX

25 luglio 1943: l’impossibile verità e la percezione dei contemporanei

La Sala del Pappagallo
(Archivio Fotografico Polo Museale
Roma – Fondo Hermanin)

di Gianni Scipione Rossi

//In Rosso e Nero Renzo De Felice definì “romanzo di Benito” l’insieme delle ricostruzioni – vere, verosimili, palesemente false – che per decenni hanno alimentato una corposa letteratura intorno alla morte di Mussolini. Di questo “romanzo” – o se si vuole di un altro “romanzo di Benito” – può essere considerata parte l’altrettanto ampia letteratura relativa al crollo del regime fascista, cioè alla preparazione e allo svolgimento della seduta del Gran Consiglio che ebbe luogo nella sala del Pappagallo di Palazzo Venezia tra il pomeriggio del 24 e la notte del 25 luglio 1943, con l’appendice dell’incontro di Mussolini con Re Vittorio Emanuele III, la nomina di Badoglio a Capo del Governo e l’arresto dello stesso Mussolini.

Di “romanzo” si può in qualche modo parlare perché gli storici si sono dovuti confrontare con due ostacoli insormontabili. Come è noto della seduta del Gran Consiglio non fu redatto verbale, che comunque era sempre stato molto stringato. D’altro canto il colloquio tra Mussolini e il Re a Villa Savoia avvenne senza testimoni, salvo l’aiutante di Campo di Vittorio Emanuele generale Puntoni, che tuttavia si limitò ad ascoltare con difficoltà da dietro una porta. Origliando, si potrebbe dire. <Il colloquio è breve, ma non sarà mai possibile ricostruirlo nei suoi termini esatti>, ammetteva Domenico Bartoli nella sua biografia del Re fin dall’aprile 1946. E così è stato.

Tutto ciò che è stato scritto su quelle 24 ore cruciali per la storia d’Italia si basa non su resoconti oggettivi, bensì sulle memorie divulgate a posteriori, in tempi diversi, dai protagonisti – Mussolini compreso –, da comprimari o da persone in qualche modo a loro legate, spesso sulla base di vere o presunte testimonianze prive di riscontri documentali. Per quanto concerne il Gran Consiglio, come ha confermato Emilio Gentile in una preziosa ma fatalmente non conclusiva indagine comparativa, <cosa veramente accadde in quelle dieci ore, prima della votazione finale, è tutt’ora avvolto nell’incertezza di testimonianze contraddittorie>.

Rimane dunque insuperata la ricostruzione di Renzo De Felice dei fatti accertati e del quadro politico d’insieme in cui maturò il crollo del regime fascista. Approssimativi restano i dettagli. Il che può apparire un paradosso storiografico se si ha presente come gli accadimenti del 25 luglio abbiano suscitato un comprensibile immediato e generale interesse negli italiani, e di conseguenza abbiano prodotto un fiorire incontenibile di pubblicistica. <I primi resoconti abbastanza ampi sulla seduta del Gran Consiglio – sottolinea De Felice – apparvero nella “Nueu rcher Zeitung” del 16 agosto 1943, successivamente pubblicato in Italiano col titolo 25 luglio 1943. L’ultima seduta del Gran Consiglio del Fascismo (s.l. e d.), e nella “Gazzetta Ticinese” del 9 settembre 1943>. Testi semplicemente rimaneggiati apparvero in contributi posteriori. Per quanto concerne la produzione italiana, De Felice segnalava <una pubblicistica coeva in genere poco o per nulla attendibile>. Ma tuttavia assai numerosa e capace di circolare ampiamente tra un pubblico affamato di notizie e retroscena. <Così come quella straniera, alla quale talvolta si rifà, questa pubblicistica – avverte De Felice è quasi sempre caratterizzata da un tono generale e da particolari drammatico-granguignoleschi del tutto fantastici: Mussolini che avviandosi alla riunione dice a Scorza “andiamo nella trappola” e che a un certo punto della seduta sussurra al segretario del partito “forse dovrò darvi l’ordine di arrestare questi messeri; e, ancora, Mussolini che cerca di scagliarsi contro Grandi ma è trattenuto da Scorza e Galbiati; Bottai che lo chiama “pagliaccio” e fa pesanti allusioni alle “sorelle Petacci” e a Magda Fontanges; Mussolini e De Bono (che a un certo punto estrae la pistola) che si scambiano reciprocamente accuse di tradimento; Marinelli che rinfaccia a Mussolini l’uccisione di Matteotti; Grandi che si è portato due bombe a mano e ne passa una a De Vecchi (che proclama di aver preveduto nel 1934 la rovina alla quale Mussolini avrebbe portato l’Italia); Pareschi che agli attacchi contro Mussolini sviene; Farinacci che a un certo punto della seduta fugge; Grandi e Federzoni che appena finita la riunione si recano dal re; ecc.>.

D’altronde le fonti erano – come si è detto – poche e scarsamente affidabili. Si pensi che nel notissimo discorso che il maresciallo Badoglio tenne agli ufficiali a San Giorgio Jonico il 18 ottobre 1943, lo stesso neo presidente del Consiglio sostiene che <La mattina del 25 luglio Mussolini si presentò a Villa Savoia a S. M. il Re e comunicò la mozione del Gran Consiglio>. Nella mattina, dunque, e non nel pomeriggio come fu nella realtà. Nella prima ricostruzione svizzera si afferma che il ministro della Real Casa Acquarone chiamò tre volte Mussolini, dalla mattina del 25, per chiedergli di andare a conferire con il Re. Un particolare che non ha mai avuto riscontri.

Solo nel giugno-luglio 1944 Mussolini pubblica la sua “verità” – la Storia di un anno – sul “Corriere della Sera”: una serie di articoli poi raccolti in un supplemento al quotidiano in agosto e, a novembre, nella prima edizione Mondadori. Mentre il primo memoriale Grandi – sei articoli scritti a Lisbona – apparve in Italia in una edizione Documenti nel gennaio 1945.

Tra i fascicoli coevi citati da Renzo De Felice, il più elaborato ma non per questo attendibile – è forse quello intitolato Dal 25 luglio al 10 settembre. Nuove testimonianze, privo di autore e di editore, ma che risulta stampato in Roma il 31 agosto 1944 nella tipografia S.A.I.G. Una prima edizione risulta curiosamente e forse solo formalmente stampata il 1° gennaio 1944. Entrambe hanno una copertina e un frontespizio interno. Nella prima edizione la copertina reca il titolo dal 25 luglio al 10 settembre. Nella seconda il titolo è semplicemente dal 25 luglio. In entrambi i casi il sottotitolo esterno recita: un organico complesso di documenti editi ed inediti sulla seduta del Gran Consiglio, l’arresto e il “prelievo” di Mussolini, e l’abbandono di Roma.

Misterioso resta l’autore. Una breve prefazione (non aggiornata tra gennaio e agosto) è firmata con le iniziali G. M. L’ignoto prefatore avverte correttamente e lucidamente che <gli avvenimenti italiani che vanno dal 25 luglio all’8 settembre 1943 sono tanto vicini a noi, e non ancora per così dire “scontati”, che difficile riuscirebbe volerli inquadrare nella storia. È per questo che le pagine che seguono altro fine non hanno se non quello di una cronaca pura e semplice, una cronistoria degli avvenimenti secondo le fonti sin’ora apparse, fonti per lo più incrinate da preconcetti di parte o sfasate da interessi di singoli>. Le identità di autore e prefatore restano per ora ignote. Potrebbero essere la stessa persona, ma non vi è alcun indizio in questo senso. G. M. potrebbero essere le iniziali di tale Giulio Mariotti, che ha firmato un fascicolo Verità sugli avvenimenti del 25 luglio e 8 settembre 1943, stampato nel 1946 nella tipografia Pozzolini di Livorno. Ma si tratta di una semplice congettura.

D’altronde, in quei mesi, e per qualche anno, prodotti editoriali di questo tipo – sempre presentati come una più vera verità – spesso sono non firmati o firmati con pseudonimi. Gli autori sono altrettanto spesso giornalisti che, nel trapasso di regime, hanno difficoltà a conservare il posto di lavoro o a trovarne uno nuovo. E si dedicano a questi lavori per integrare o garantirsi un reddito. Utilizzando lo stile dell’indagine scandalistica che caratterizzerà per anni, su questi temi, i diffusissimi rotocalchi.

Talvolta – e riguarda non solo la pubblicistica minore – vi sono anche ragioni di opportunità politico-editoriale. Si pensi al caso del volume agiografico Io difendo la monarchia, pubblicato nel marzo 1946 a firma di Pietro Silva (Parma, 1887 – Bologna, 1954), in vista del referendum istituzionale, ma in realtà commissionato da Alberto Bergamini e Mario Missiroli e scritto – come ha scoperto e spiegato Francesco Perfetti – non dallo storico Silva, bensì dal giornalista Ugo D’Andrea (L’Aquila, 1893 Roma, 1979), che già nel 1945 aveva utilizzato uno pseudonimo – Filippo Giolli – per firmare Come fummo ridotti alla catastrofe.

Una curiosità ulteriore riguarda l’editore del volume“monarchico”, stampato nella tipografia Novissima perdf de Fonseca Editore in Roma”, cioè da Giorgio de Fonseca. Figlio dell’intellettuale anglo-italiano Edoardo de Fonseca, profeta del modernismo d’inizio secolo con le riviste “Novissima” e “La Casa”, era sposato con la marchesa Angela d’Albertas, cugina dei Calvi di Bergolo. Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, marito di Iolanda di Savoia, era il genero di Vittorio Emanuele III. Un editore di estrema fiducia, dunque. E questo non sorprende. Ma Giorgio de Fonseca, fino al crollo del regime, con la sua Novissima, pubblicava i discorsi di Mussolini. Poi, nel febbraio 1945 dà vita alle Nuove Edizioni Italiane con Enrico Falqui, che dirige i trimestrali letterari “Poesia” e Prosa”. Nel maggio 1945 pubblica il fascicolo anonimo L’ultima ora di Mussolini, sulla cui fine si scrive che è stata <orrenda ma… meritata>. Nello stesso periodo la sorella di Giorgio, Alice de Fonseca, è ancora rifugiata a Lezzeno, sul lago di Como, dopo aver raggiungo Mussolini nella Repubblica Sociale. Alice de Fonseca era stata fin dal 1923 amante del duceforse padre di due dei suoi tre figli – e non aveva mai interrotto il rapporto. Grazie al quale, dopo vari rovesci di fortuna, riusciva anche a garantire al fratello la committenza pubblica per Novissima.

Vite e storie che si intrecciano. E che spiegano e giustificano gli pseudonimi. Come un Lorenzo Barbaro, citato dall’ignoto autore di dal 25 luglio al 10 settembre come fonte autorevole, poiché <cela la personalità di un giornalista molto noto>. Il riferimento è all’articolo “La giornata degli inganni”, apparso sul quotidiano“Risorgimento Liberale” il 25 luglio 1944. Che tuttavia contiene almeno un errore, perché indica in 45 minuti la durata del colloquio tra Mussolini e il Re a villa Savoia, piuttosto che in soli 20 minuti, come sembra accertato da successive convergenti testimonianze.

Siamo ancora nel campo delle congetture. Ma non è improprio immaginare che la citazione del <giornalista molto noto> sia una civetteria destinata a chi – e non era difficile per i contemporanei – ben conosceva l’identità celata: una sorta di compiaciuta autocitazione. Lorenzo Barbaro non era che lo pseudonimo del giovane Domenico Bartoli (Torino, 1912 Roma, 1989), da tempo collaboratore del “Corriere della Sera” e tra i fondatori di “Risorgimento Liberale”. Il futuro direttore del “Resto del Carlino” e de “La Nazione” scriveva corrispondenze per il Corriere dall’Italia occupata. Ma fu tra i primi a tentare di chiarire i misteri del 25 luglio, come ebbe a ricordare Enzo Forcella: <Un giorno sulla prima pagina del Corriere della Sera appare una particolareggiata ricostruzione di come erano andate effettivamente le cose nella famosa riunione del Gran Consiglio. [] Quali che fossero le sue fonti, comunque, per noi giovani nutriti sino ad allora con le veline del regime fu una grande lezione di giornalismo>. Il pezzo era uscito il 18 settembre 1943 con il titolo “Il 25 luglio a Villa Savoia”. Con lo pseudonimo Lorenzo Barbaro, svelato da Gerardo Nicolosi, Bartoli firmò nel luglio dell’anno successivo su “Risorgimento Liberale” l’articolo citato nel fascicolo anonimo. Tra il primo e il 19 agosto dedicò sullo stesso quotidiano quattro puntate al tema “Come si giunse al 25 luglio”. Materiali ancora grezzi, poi affinati nella sua biografia di Vittorio Emanuele uscita per Mondadori nell’aprile del 1946.

La diffusione degli anonimi e degli pseudonimi – e anche delle rifusioni da una sede all’altra di presunte scoperte giornalistiche – non consente, almeno per ora, di attribuire la paternità del fascicolo prefato da M.C. a Domenico Bartoli. Sarebbe, peraltro, solo una curiosità storiografica, anche se ulteriormente rivelatrice di come fosse in ebollizione e in perpetuo movimento l’ambiente giornalistico italiano nel lungo passaggio dal regime fascista alla Repubblica. Un mondo, come si è detto, che tentava con gli strumenti a disposizione di costruire una narrazione capace di rispondere alle domande che si poneva la gente comune.

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Testo completo di riferimenti bibliografici e documento allegato in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX, pp. 201-218.