Divenire storico e conservazione

Niccolò Mochi-Poltri, Società. Divenire storico e conservazioneIntroduzione di Franco Cardini, Nazione Futura, Roma-Cesena 2018//

Assai spesso si sente parlare della gioventù odierna con toni che vanno dal biasimo alla commiserazione. Elementi fattuali non mancano per alimentare giudizi di segno negativo. Ogni volta che si ascolta o legge notizia di giovani che sbagliano, immediatamente mi chiedo però chi sono stati gli adulti dietro e intorno a loro, se ne hanno o meno accompagnato un processo di crescita. Per fortuna non esiste solo la cronaca che i mass media prediligono: quella nera, anzi nerissima. Esiste la vita di tutti i giorni, in cui hai l’occasione di incontrare e conoscere ventenni nelle cui passioni intravedi il senso compiuto di alcune riflessioni che José Ortega y Gasset vergava tra 1929 e 1931.

Scriveva il pensatore spagnolo, rispondendosi alla domanda “che cos’è la vita?”: «Affermo, quindi, che io ora sono insieme futuro e presente. Questo mio futuroesercita una pressione sull’ora e da questa pressione sulla circostanza scaturisce la mia vita presente». E concludeva, provvisoriamente: «io sono chi inesorabilmente esige d’essere realizzato, quantunque sia impossibile la sua realizzazione = io sono… vocazione».

Come insegnante ho il privilegio di incontrare tali vocazioni, e di provare ad intuirle, suscitarle, rafforzarle. Perché è così che si semina il bene di domani. Che è bene nella misura in cui si afferma la costruzione contro la distruzione, il vivo pensiero storico contro l’immobilismo di una ragione spenta, l’entusiasmo creativo contro la rassegnazione e l’apatia.

Tra i vari incontri che incoraggiano a ben sperare c’è questo testo di piccolo formato, ma che racchiude molta generosità di pensiero e desiderio di comprensione delle radici del proprio tempo. L’autore ha 27 anni. Si chiama Niccolò Mochi-Poltri. Sin dal titolo del libretto si chiariscono i termini delle questioni che ne hanno motivato la stesura: la genesi e il destino della società, di ogni società, sono racchiusi tra divenire storico e istinto di conservazione. Racchiusi come dentro un campo magnetico, qualcosa capace di trattenere a lungo una forma, ma sempre a rischio di perdere presa, disgregarsi, spegnersi. Questo libro è un vademecum, letteralmente.

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Danilo Breschi

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n.1, 2019, nuova serie, a. XXXI

L’attentato a Togliatti e la rivoluzione mancata

Giuseppe Pardini, Prove tecniche di rivoluzione. L’attentato a Togliatti, luglio 1948, Luni Editrice, Milano 2018//

di Alberto Mario
Sono trascorsi poco più di settanta anni dal grave attentato perpetrato il 14 luglio 1948 ai danni del segretario del Partito comunista italiano Palmiro Togliatti da un giovane nazionalista Antonio Pallante, iscritto all’Uomo qualunque, ma ancora non era stata fatta piena luce sulle attività insurrezionali del PCI dei giorni successivi.
Ad aprire uno squarcio sulle vicende avvenute nel luglio 1948 abbiamo finalmente a disposizione lo studio, da poco apparso in libreria, realizzato da Giuseppe Pardini, che spiega le origini dei gravi disordini avvenuti, fra il 14 e il 17 luglio dello stesso anno, dopo l’arresto dell’attentatore, grazie all’utilizzo dei documenti provenienti dagli uffici di informazione dello Stato maggiore dell’esercito, che ci permettono di fare maggiore chiarezza sulle violenze di quei giorni di luglio e sul ruolo del PCI.
Finora, la vulgata ufficiale aveva ribadito che i moti di protesta in tutta Italia erano avvenuti spontaneamente, non avendo – a detta della storiografia – alcuna finalità eversiva e senza alcuna organizzazione alle spalle. Ma i documenti utilizzati da Pardini dimostrano che i moti furono il prodotto di un’azione insurrezionale organizzata dalla struttura paramilitare del PCI, che mise a dura prova la tenuta del nuovo sistema democratico, a pochi mesi dall’avvio della prima legislatura.

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Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2019, n. 1, nuova serie, a. XXXI, pp. 339-342.

Quella voglia di libertà che da Praga brucia ancora

di Danilo Breschi

 

Juan Palach

//Farsi torcia umana per scuotere le coscienze, per svegliare l’anelito di libertà sopito nei cuori impauriti del proprio popolo schiacciato dal potente invasore straniero. Era il 19 gennaio del 1969. Esattamente cinquant’anni fa. Moriva alle ore 15:30, dopo tre giorni di agonia. 73 ore, per la precisione. Il suo nome era Jan Palach. Studente di filosofia, era nato a Praga l’11 agosto del 1948, Aveva dunque vent’anni da poco compiuti, quando vide i carri armati del Patto di Varsavia, inviati da Mosca per porre fine a quell’esperimento cecoslovacco di riforme e introduzione di libertà civili e politiche che è passato alla storia con il nome di “Primavera di Praga”. Il 20 agosto del ’68 la Cecoslovacchia era invasa e Mosca ne ribadiva la condizione servile di satellite dell’imperialistica Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS).
Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 Jan si recò in piazza San Venceslao, al centro di Praga. Si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Questo fu il suo modo di protestare contro l’occupazione sovietica. Nelle 73 ore di agonia Jan ebbe alcuni momenti di lucidità, tanto da avere notizia dell’eco internazionale che quel suo gesto estremo aveva suscitato. Riuscì anche a rilasciare alcune interviste. Pochissime parole, esalate dal suo corpo ustionato quale testamento delle ragioni che portarono ad un simile martirio.

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Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2019, n. 1, nuova serie, a. XXXI, pp. 305-309.

Autoritarismo(s), clases medias y el problema de las generaciones

di Ana Grondona//

El texto que presentamos (“Ceti e generazioni alla vigilia della Marcia su Roma”) forma parte del Fondo documental de Gino Germani, custodiado por la Fondazione Ugo Spirito e Renzo de Felice. Este sociólogo ítalo-argentino (1911-1979) ha sabido cosechar, al menos hasta ahora, más interés entre públicos latinoamericanos que europeos. Sin embargo, buena parte de sus preguntas e intuiciones mantienen una inocultable vigencia a ambos lados del Atlántico. Si en el caso de la Argentina, país en el que, quizás, su inter vención en el campo cultural haya resultado más prolífica, nos enfrentamos al desafío de desestabilizar ciertos clichés con los que suele asociarse su figura (por ejemplo, como mero “importador” de la sociología funcionalista), en el caso de Italia el reto es atraer la atención sobre su trabajo. Paradójicamente, el éxito de su trayectoria latinoamericana parece haberlo relegado, frente a algunos ojos, al papel de sociólogo estricta y estrechamente ocupado en asuntos exóticos. Por el contrario, su trajín de (doblemente) exiliado lo convierte, para miradas más dispuestas a romper con el eurocentrismo, en un sociólogo universal. Al decir del filósofo latinoamericano Eduardo Grüner (2010) la periferia, de la que (a su modo) Germani hizo su punto de vista, constituye una perspectiva privilegiada, pues desde allí puede observarse el todo (por caso, la modernidad capitalista), la parte (por caso, lo que otrora se denominaban los “países semi-coloniales”, “periféricos” o “dependientes”) y la relación entre ambos.
Por cierto, Germani fue un autor “obligado” a la traducción en múltiples sentidos. La experiencia imborrable del exilio, tal como ha señalado agudamente Ana Germani (2015), lo impulsó a la comparación entre culturas, historias y experiencias.

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Ceti e generazioni alla vigilia della Marcia su Roma

di Gino Germani

La crisi del primo dopoguerra fu l’espressione di un profondo “spostamento” di tutti gli strati sociali e specialmente delle generazioni più giovani – sul piano psicologico, economico, politico e sociale. Anche se fortemente aggravato da caratteristiche proprie dello sviluppo storico dell’Italia, si trattava di un fenomeno comune a molti paesi. Due componenti strettamente intrecciati sono la sua radice. Il più visibile, il trauma della guerra, si inseriva in un processo di lunga durata. Al vertice della piramide sociale, la crescente concentrazione tecnico-economica e l’incipiente trasformazione della classe politica con l’emergere dei primi partiti di massa. Alla base, una potente spinta verso la conquista dei pieni diritti, nell’ordine politico, economico e sociale, in cui erano coinvolte tutti gli strati popolari, compresi gli agricoli. Al centro infine, il declinare di settori arcaici, il sorgere di nuovi, e soprattutto, il contraccolpo dei mutamenti ai due estremi. Per i ceti medi, minacciati dall’alto e dal basso, non si trattava solamente di perdite economiche, ma anche di potere politico e di prestigio. La guerra aveva accelerato il processo: l’immersione delle classi popolari nella vita nazionale, culminata politicamente con il suffragio universale e lo spettacolare aumento dell’organizzazione sindacale, si rendeva socialmente più visibile con la partecipazione attiva di settori fino allora del tutto marginali.

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I testi completi del saggio di Ana Grondona e dell’inedito di Gino Germani in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2019, n. 1, nuova serie, a. XXXI, pp. 257-276.

 

Perugia, il capodanno perduto del 1947. Una tentata pacificazione tra partigiani ed ex fascisti

di Leonardo Varasano

Il cimitero monumentale di Perugia

Tra le specificità storiche e sociali italiane rientra anche un livello di contrapposizione lacerante e singolarmente alto. La storia d’Italia, a ben vedere, sembra infatti condensare due nazioni, per buona parte ostili nei ricordi e inconciliabili nei progetti. Fattori divisivi di spiccatissima natura politico-ideologica hanno prodotto e perpetuato contrapposizioni in serie. Tutta la vicenda del paese può in fondo essere caratterizzata da una lunga, corrosiva teoria di coppie di opposti: monarchici/repubblicani, laici/cattolici, interventisti/neutralisti, fascisti/antifascisti, comunisti/anticomunisti.

In questa forte propensione alla «divisività» – alla traduzione in forma permanente e patologica delle inevitabili, fisiologichefratture proprie di ogni storia nazionale –, un ruolo di particolare rilievo è rivestito dalla radicale polarità che ha contrapposto fascisti e antifascisti. Anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il fascismo è stato a più riprese immaginato come un pericolo incombente: se ne è paventata la possibilità di rinascita, se ne è denunciata la minacciosa sopravvivenza in varî ambiti e in varie forme. Un fatto storico «morto» e «irresuscitabile», limitato – secondo l’interpretazione defeliciana ad un dato momento storico, racchiuso tra il 1919 e il 1945, ha finito per diventare un elemento centrale del discorso pubblico e della mobilitazione politica dell’Italia repubblicana. Non solo: la presunta, ineliminabile perennità del pericolo fascista è riuscita a rendere plausibile una perenne, strutturale necessità dell’antifascismo, legando fascismo e antifascismo in un binomio strettissimo, così largamente accettato da divenire il sostrato di un senso comune di massa. La potenziale, continua sopravvivenza del fascismo, a lungo addebitata anche all’esistenza e al ruolo della Democrazia cristiana, ha dunque portato ad una funzionale necessità dell’antifascismo. Il paradigma fascismo/antifascismo è stato, a ben vedere, il paradigma ideologico originario della Repubblica, in grado di resistere e rinnovarsi nel tempo. Con esiti divisivi,dolorosi e, come ha rilevato Francesco De Gregori, decisamente parossistici: il nostro paese ha ancora «un grosso problema a parlare di fascismo» – così si è espresso il cantautore romano, nel 2016, intervenendo alla presentazione del volume Mio padre era fascista, di Pierluigi Battista – perché «da noi la riconciliazione non c’è ancora stata» e «persino a una riunione di condominio se a uno gli gira, può dare a un altro del “fascista” usando quel termine come un insulto».

La tenace difficoltà del discorso pubblico italiano a storicizzare il Ventennio, è un tema di persistente attualità. Da più parti si continua a pensare secondo la dicotomia fascismo/antifascismo, nel solco di una strisciante, irriducibile guerra civile della memoria. Eppure questa lacerante contrapposizione tra antifascismo e fascismo (inteso, nel tempo, in una serie di significati enormemente dilatati e metapolitici) avrebbe potuto ben presto essere se non superata almeno attutita, in modo tale da provocare un’eco meno duratura e meno dannosa. Ci fu infatti chi, nell’immediato dopo guerra, tentò una sollecita pacificazione, un avvicinamento di buon senso nel nome della nazione italiana, dell’ideale risorgimentale e delle necessità della ricostruzione. Forse – si può pensare – non si sarebbe assistito ad unaimmarcescibile contesa ideologica, se solo si fosse dato seguito e concretezza ad una piccola-grande iniziativa, finora dimenticata e nascosta dalla polvere, avvenuta nell’immediato dopoguerra in quella che era stata la “capitale della rivoluzione fascista”, la città fascistissima per eccellenza da cui era partita la marcia su Roma. Forse, nel 1947, un lungo, complesso e doloroso capitolo di storia italiana avrebbe potuto chiudersi proprio a Perugia, proprio nello stesso luogo in cui era stato concretamente aperto nel 1922. Forse avrebbero potuto prevalere le ragioni della fraternità, della riconciliazione, dell’unione nel nome della Patria. Forse. Non è dato sapere: si tratta solo di un’ipotesi controfattuale, poiché la vicenda italiana ha avuto, com’è noto, un’evoluzione diversa, vivendo nel solco del binomio fascismo/antifascismo. Le buone intenzioni – manifestate in una temperie storica avvelenata dai frutti amari della dittatura e della morte della patriafallirono. Cionondimeno quell’episodio che poteva contribuire a cambiare il corso degli eventi merita di essere conosciuto, ricordato, compreso nelle ragioni profonde. Quelle sì, immortali.

1. «Gli italiani agli italiani», una corona di alloro simbolo di fraternità e amor patrio

All’alba del 1947, con l’Italia ancora ricoperta di macerie fumanti, lacerata nello spirito e nella carne, Perugia fu teatro di un singolare e positivo esperimento di riconciliazione tra partigiani ed ex fascisti, oggi presso che misconosciuto.

A prendere l’iniziativa furono Corrado Sassi classe 1923, antifascista, il partigiano “Zuavo” della banda “Francesco Innamorati” operante nei boschi sopra Deruta e l’ex combattente della Repubblica sociale italiana Bruno Cagnoli, uomo dall’«intelligenza acuta e sensibile». A soli venti mesi dalla fine della Seconda guerra mondiale, con la prospettiva di una difficile ricostruzione affidata al primo governo De Gasperi un governo di unità nazionale di cui ancora facevano parte Dc e Pci insieme , i due giovani, all’insaputa di tutti i partiti, ma con l’indirettosostegno di altri uomini di buona volontà, promossero una manifestazione semplice e clamorosa al contempo. Nel primo, freddo giorno del 1947, quasi a simboleggiare l’inizio di una nuova era, una cesura della Storia, un centinaio di perugini «che fino al giorno prima si sarebbero volentieri sbudellati l’un l’altro», decise di lasciarsi alle spalle il fardello dei rancori, si radunò in piazza Piccinino, nel cuore del capoluogo umbro, e di lì, in rigoroso silenzio, raggiunse il cimitero monumentale. Arrivati al camposanto, partigiani ed ex fascisti parteciparono ad una Messa di suffragio officiata da Padre Angelini; poi raggiunsero il monumento ai caduti di tutte le guerre e lì deposero una corona di alloro, con nastro tricolore, recante la significativa scritta, a caratteri d’oro, «Gli Italiani agli Italiani»; quindi sostarono per un po’, muti, «davanti a molte croci» di entrambe le fazioni politiche, prima di coprire la ghirlanda funebre con una bandiera nazionale. La cerimonia, arricchita dai discorsi di Luigi de Florentis per i partigiani e di Mario Fettucciari per gli ex fascisti, fu infine suggellata da una solenne stretta di mano con cui i componenti delle due schiere cessarono di essere nemici per diventare semplicemente avversari. […]

Leonardo Varasano, Il capodanno perduto del 1947. Una tentata pacificazione tra partigiani ed ex fascisti nel nome degli ideali risorgimentali

Il testo completo del saggio in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, a. 2019, nuova serie, a. XXXI, pp. 191-206

 

Ugo Spirito e l’Iran, esce il libro “fantasma”

Può già essere ordinato nelle librerie online il saggio che Ugo Spirito scrisse nel 1978 sull’Iran – Filosofia della grande civilizzazione – che vede la luce per la prima volta nella sua versione integrale, grazie alle iniziative prese dalla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice nella quarantennale della scomparsa del filosofo aretino. 

Il libro “fantasma” di Ugo Spirito

Nel gennaio del 1979, mentre il regime dello Scia’ stava cedendo il passo alla rivoluzione islamica, il testo apparve in una parziale e manipolata versione inglese, mai entrata nel mercato editoriale.

Il libro

Negli ultimi mesi di una vita segnata da una speculazione che tende a inverarsi nell’azione politica, Ugo Spirito ha lavorato a un volume sull’Iran governato da Mohammad Reza Pahlavi. Un libro rimasto inedito nella sua stesura integrale e oggetto, in tempi diversi, di manipolazioni e censure. Conservato nel suo archivio privato, a quarant’anni di distanza il testo appare per la prima volta nella sua versione originale, che rivela il reale pensiero del filosofo.

Lo sforzo compiuto da Spirito è stato volto, nell’autunno del 1978, a comprendere e illustrare criticamente le linee guida della “rivoluzione bianca” dello Scià – avviata nel 1963 – inquadrandole nella storia della Persia e valutandone le possibili evoluzioni, mentre il Paese era sconvolto dalle proteste di piazza sfociate nel 1979 nella rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeyni.

Lo Scià appare a Ugo Spirito come un sovrano illuminato e ne valuta positivamente il sogno di trasformare l’Iran in una sorta di Città del Sole, nella quale regnino l’armonia e la collaborazione tra le classi sociali, nella prospettiva di un intenso sviluppo industriale. Una “città” laica, in cui non vi siano più sfruttatori e sfruttati, ricchi e poveri, proprietari e servi, secondo la tradizione socialista dalla quale, secondo Spirito, lo Scià ha tratto ispirazione per tracciare una “terza via” tra liberismo e comunismo.

Per quanto illuminato, Spirito giudica il regime iraniano un dispotismo dittatoriale, errato sul piano teorico e fatalmente destinato a terminare con la scomparsa del suo protagonista.

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Ugo Spirito, Filosofia della grande civilizzazione. La “rivoluzione bianca” dello Scià, a cura di Gianni Scipione Rossi. Postfazione di Hervé A. Cavallera, Luni Editrice, Milano 2019, pp. 192, € 22.00

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Il ruolo di Ugo Spirito nell’Enciclopedia Italiana

//di Alessandra Cavaterra

Una fotografia, conservata nell’archivio personale di Ugo Spirito, risalente al 10 gennaio 1931, ritrae, nell’ordine, da sinistra, Giovanni Treccani, Benito Mussolini, Calogero Tumminelli, Giovanni Gentile in occasione della visita del Duce all’Istituto Giovanni Treccani, promotore della Enciclopedia italiana. Accanto a Gentile, in primo piano a destra ma con l’immagine fuori fuoco, vi è Ugo Spirito. Questa rappresentazione è assai significativa del ruolo avuto da Spirito nella realizzazione dell’opera enciclopedica: i responsabili e fondatori dell’Istituto sono i soggetti principali (Treccani fu il finanziatore dell’impresa, Tumminelli ne era il direttore editoriale, Gentile, con la carica di direttore scientifico, il deus ex machina, l’ideatore e l’animatore princeps), ma il filosofo aretino, benché ritratto come un ectoplasma, era pur sempre immortalato con li superiori, accanto al suo maestro, il quale riponeva in lui la massima fiducia e ne aveva fatto il suo ambasciatore presso alcune figure di spicco della redazione dell’opera. Ma vale la pena dare un’occhiata all’organizzazione del complesso sistema editoriale enciclopedico, così come si era formato dopo la costituzione dell’Istituto, nel febbraio 1925, per inquadrare meglio il ruolo ricoperto da Spirito nel sistema Enciclopedia.
L’idea di una enciclopedia che avesse un fondamento scientifico era nata in Gentile, e in altri intellettuali, in particolar modo dopo la guerra e dopo l’avvento del fascismo, per celebrare la nuova Italia, l’italiano nuovo o rigenerato dalla guerra, dalla vittoria e dalla rivoluzione fascista. Non si può non ricordare le parole di Ugo Spirito che rievocano l’entusiasmo che percorse l’Italia all’avvento del nuovo regime: «Erano i primi anni dopo il 1918 e la confusione dei motivi postbellici non consentiva di avere idee chiare e orientatrici. Ma dappertutto era vivo il bisogno di un rinnovamento generale che fosse illuminato da una fede profonda e costruttrice. E nel bisogno erano unite la vecchia e la nuova generazione, in un’azione concorde che si esprimeva in programmi comuni. […]. Basta ricordare gli anni dal 1918 al 1924 per comprendere cosa significasse la fede fascista nella nuova classe dirigente […]». Sono parole sentite, spontanee, scritte molti anni dopo gli avvenimenti e dunque di ancor maggiore interesse. Descrivono bene il clima del momento, da cui tanti italiani si fecero coinvolgere, convinti di essere protagonisti di un passaggio epocale. Questo passaggio comprese nuove iniziative, grandi e piccole, nella costruzione di un nuovo modello di Stato come nella diffusione della cultura. L’Enciclopedia italiana rientra in iniziative, subito compresa nelle altre sfere come opera di spessore elevato, forse anche perché volle presentarsi fin dall’inizio come indipendente da qualunque influenza, politica, ideologica, sociale, religiosa, quindi credibile.

Gioacchino Volpe

L’organizzazione interna prevedeva che le materie fossero raccolte in “sezioni”, affidate a un direttore, scelto tra i massimi esperti di ciascuna disciplina: per esemplificare, il direttore della sezione Storia medievale e moderna fu Gioacchino Volpe, la sezione Musica fu posta nelle mani di Ildebrando Pizzetti, della sezione Fisica fu responsabile Enrico Fermi. Gentile ricopriva la carica non solo di direttore scientifico, ma anche di direttore della sezione Filosofia e pedagogia e compilò alcune voci. I direttori davano l’impronta alla propria sezione, stabilivano le trattazioni necessarie e i relativi autori. Accanto ai direttori, vi erano i redattori, che avevano compiti di carattere scientifico quali la revisione dei manoscritti che giungevano dagli autori chiamati a compilare le voci, con il controllo della congruità del contenuto e dell’effettivo peso scientifico dell’argomento trattato. A Spirito fu affidata una vasta area redazionale, che comprendeva Filosofia e pedagogia, Economia e statistica, Materie ecclesiastiche e le quattro sezioni di diritto, cioè Diritto privato, Diritto e procedura penale, Diritto pubblico, Storia del diritto. Il suo ricordo gli fece dire in seguito di essere stato “segretario generale” dell’opera; alcuni studiosi lo definiscono “segretario particolare” di Gentile. Ma, al di là delle locuzioni che qualificano il suo compito, è indubbio che l’azione di Spirito nella redazione enciclopedica significò un contatto quotidiano con Gentile, con l’attuazione e talvolta l’interpretazione del pensiero del direttore scientifico circa l’impostazione da conferire alla complessa impresa editoriale. […]

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX

Geopolitica e “interesse nazionale”

Alessandro Aresu, Luca Gori, L’interesse nazionale: la bussola dell’Italia, il Mulino, Bologna 2018

//È apparso nelle librerie il volume L’interesse nazionale: la bussola dell’Italia, pubblicato dalle edizioni Il Mulino e realizzato con il contributo di un analista e consigliere scientifico di Limes, Alessandro Aresu, e di un diplomatico di carriera, Luca Gori, che hanno analizzato il problema, sottolineando le difficoltà che si incorrono nel promuovere l’argomento e ricordando come sia assolutamente necessario superare questo limite di fronte a un ritorno del tema nelle agende governative e nel dibattito pubblico internazionale.
Dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda in Italia, come nel resto del mondo, abbiamo assistito a un rinnovato interesse nei riguardi dell’idea di nazione, sia nella sua proiezione interna che nella sua proiezione internazionale. Il nuovo scenario internazionale geopolitico e geo-economico ha imposto agli Stati di ricercare la propria identità nazionale e di definire i propri interessi e le proprie priorità.
In Italia, lo studio di un tema complesso come quello dell’interesse na- zionale, è emerso dopo la pubblicazione di un discreto numero di saggi e di volumi sull’argomento iniziata agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso sull’onda di un convegno, che si tenne a Trieste nel 1994, organizzato da Giovanni Spadolini e con la partecipazione, fra gli altri, di Renzo De Felice, Ernesto Galli Della Loggia, Emilio Gentile e Arduino Agnelli. Si discusse non soltanto di nazione e delle sue diverse valenze e declinazioni, ma si cerco’ di fare il punto anche sul tema della “morte della patria”.
Nel 1996 e nel 1997, si sono tenuti due Convegni, con la pubblicazione degli Atti, che videro impegnati studiosi ed esponenti di vari settori, dai politologi agli economisti, dai politici agli esperti strategici.
Sempre nel 1997, venne editato il volume di Galli Della Loggia La morte della patria e un libro-intervista a De Felice, Rosso e Nero, che analizzava fra i molti temi quello della crisi dell’idea di nazione.
Ancora nel 1997, Carlo Jean si occupò dell’argomento in uno studio sulla geopolitica, inserendo il tema nei capitoli riguardanti “L’interesse nazionale”. A partire dal nuovo secolo, l’argomento ha interessato ancora Jean, che ha inserito il tema nel quadro della geopolitica attuale di crisi del sistema unipolare a conduzione statunitense, in quella che viene definita la geopolitica del caos, immettendola nel contesto delle strategie di sicurezza nazionali e di riscoperta dello Stato-nazione. […]

Andrea Perrone 

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX