Michela Nacci, Storia culturale della Repubblica (Bruno Mondadori) con Giovanni Dessì

Venerdì 9 aprile 2010, nell’ambito degli incontri Un Libro un Autore fra storia e attualità, la Fondazione Ugo Spirito ha presentato il volume di Michela Nacci, Storia culturale della Repubblica (Bruno Mondadori).

L’incontro è stato introdotto da Giovanni Dessì che ha sottolineato come il punto di forza di questo libro consista nel “mappare” i punti nodali del dibattito culturale italiano dal secondo dopoguerra ad oggi, rifuggendo da un’impostazione ideologica o accademica.

Michela Nacci ha poi spiegato le ragioni che l’hanno spinta ad intraprendere questo lavoro. Innanzitutto l’assenza di una storia della cultura italiana nell’epoca della Repubblica, che si fondi su una visione interdisciplinare, in grado quindi di cogliere il progressivo allargamento di ciò che è “cultura” fino a settori non tradizionali come la musica e la cucina.

In secondo luogo, l’esigenza di ripercorrere l’evoluzione degli strumenti di diffusione della cultura, dagli originari ambiti della scuola e dell’università fino alla televisione ed internet, per tentare di comprendere come, in funzione degli strumenti, siano stati modificati gli stessi contenuti culturali.

In terzo luogo, il desiderio di comprendere le trasformazioni determinate sulla cultura alta dall’affermarsi della cultura di massa.

La Nacci ha poi ripercorso alcuni dei momenti cruciali della dibattito culturale italiano: il confronto con il fascismo, che ha coinvolto, con prospettive diverse, Bobbio, Garin, Del Noce e De Felice; il rapporto tra gli intellettuali e la modernizzazione economica e sociale degli anni Sessanta; la complessa reazione del mondo della cultura di fronte all’avvento dell’elettronica e dei nuovi mezzi di comunicazione.

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Alessandro Orsini, Anatomia delle Brigate Rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario (Rubbettino) con Giuseppe Parlato e Danilo Breschi

Giovedì 18 marzo 2010, nell’ambito degli incontri Un Libro un Autore fra storia e attualità, la Fondazione Ugo Spirito ha presentato il volume di Alessandro Orsini, Anatomia delle Brigate Rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario (Rubbettino).

L’incontro è stato introdotto da Giuseppe Parlato e Danilo Breschi, che hanno sottolineato come il volume tenti di giungere alla radice del fenomeno terroristico (sia “rosso” che “nero”), seguendo un’analisi sociologica ed antropologica.

Prendendo la parola, Orsini ha innanzitutto criticato le tre interpretazioni (complottista, stragista e del “blocco di sistema”) che avrebbero minato la comprensione del fenomeno brigatista in Italia ed in particolare le motivazione della sua longevità.

Passando ai contenuti del lavoro, l’autore ha spiegato di averlo articolato in tre parti:
1) chi sono i brigatisti;
2) perché uccidono;
3) da dove vengono.

La prima parte consiste in una descrizione della vita quotidiana dei brigatisti e di come si è strutturato il loro movimento.

Passando alla seconda, Orsini ha esposto la sua teoria del feedback eversivo-rivoluzionario, che attraverso una ricostruzione psicologica del terrorista, ne rintraccia la motivazione ad uccidere nella volontà di “purificare” il mondo dalle ingiustizie.

Orsini si è posto dunque in radicale contrapposizione con la tesi secondo cui è possibile spiegare in maniera razionale il fenomeno terroristico. Al contrario – e passando alla terza parte della ricerca – ha spiegato che il sistema di pensiero dei brigatisti coincide con quello dei militanti delle sette religiose rivoluzionarie, ossessionati dalla purezza e dalla convinzione che esistano degli eletti chiamati a salvare un mondo sull’orlo di uno scontro apocalittico tra le forze del bene e del male. È da questa tradizione mistico-religiosa che proverrebbero le Br.

 

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Stefano Biguzzi, Cesare Battisti (Utet, 2009) con Franco Tamassia

Mercoledì 10 febbraio 2010, nel quadro degli incontri “Un libro, un autore tra storia e attualità“, è stato presentato il libro di Stefano Biguzzi, Cesare Battisti (Utet, 2008).

Ha introdotto l’incontro Franco Tamassia che ha ricordato come il volume di Biguzzi sia la prima opera sistematica dedicata a Cesare Battisti, che comprenda sia la figura del patriota, dell’eroe e del martire della patria, sia la figura del politico socialista. Attraverso la lente di Battisti, il libro riesce a dipingere un grande affresco della prima parte della storia d’Italia sotto molteplici aspetti (politici, economici, sociali e della storia culturale) e contribuisce alla demitizzazione del “buongoverno” austriaco.

Prendendo la parola, Biguzzi ha innanzitutto spiegato la strumentalizzazione della figura di Battisti che è stata compiuta prima dal fascismo, che lo ha trasformato in un’icona del nazionalismo e dell’imperialismo, e poi dalla resistenza partigiana, che ne ha utilizzato le posizioni antigermaniche nell’ambito della lotta contro il nazismo.

Come ha evidenziato l’Autore, si tratta di due strumentalizzazione che, fino ad oggi, hanno reso impossibile la corretta comprensione della figura battistiana. “Ultimo eroe del Risorgimento”, Battisti durante la prima guerra mondiale si schierò a favore dell’intervento in guerra con l’obiettivo di emancipare la popolazione italiana dal giogo della tirannia asburgica. Ma ciò non significa che egli deviasse verso il nazionalismo o addirittura su posizioni imperialistihe, dal momento che il suo orientamento patriottico si sposò sempre con un socialismo “umanitario” che aveva a cuore la sorte dei più deboli.

Biguzzi ha poi esaminato il rapporto tra Battisti ed altre due figure chiave della storia d’Italia. La prima è quella del Mussolini socialista, internazionalista e fortemente anticlericale che soggiornò diversi mesi a Trento nel 1909 e collaborò con il “Popolo” diretto proprio da Battisti. La seconda è Alcide De Gasperi, di cui Biguzzi ha fornito un’interpretazione opposta rispetto alla tradizionale agiografia che ne ha fatto sin da giovane un “eroe” della patria. Il giovane De Gasperi descritto da Biguzzi è soprattutto un cattolico – tra l’altro formatosi in un ambiente fortemente antisemita come quello viennese – ed in quanto tale rispettoso suddito della dinastia asburgica.

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Lorenzo Cuocolo, Tempo e potere nel diritto costituzionale (Giuffrè, 2009) con Danilo Breschi

Giovedì 27 gennaio 2010, nell’ambito degli incontri “Un libro, un autore tra storia e attualità“, è stato presentato il volume di Lorenzo Cuocolo, Tempo e potere nel diritto costituzionale (Giuffré, 2009).

L’incontro è stato introdotto da Danilo Breschi, che ha sottolineato come il volume di Cuocolo, pur partendo da solide basi di diritto costituzionale, segua la strada intrapresa in età più matura da Kelsen e Carl Schmitt, mescolando varie discipline, tra cui diritto, storia, letteratura, sociologia e antropologia.

Prendendo la parola, Cuocolo ha spiegato di voler indagato lo stretto legame esistente tra tempo e potere, ipotizzando che se si vuole mantenere un tasso di costituzionalità costante, all’aumentare del potere occorre aumentare anche la garanzie costituzionali.

Per verificare l’esattezza di questo assunto, il libro ricostruisce innanzitutto dal punto di vista storico il rapporto tra tempo e potere, partendo dalla Magna Carta (1215). Con questo documento, emerge nella storia costituzionale il concetto di limitazione del potere sovrano mediante strumenti temporali di varia natura: dalle consuetudini a embrionali forme di disciplina dei procedimenti, che si contrappongono all'”istantaneità” e dunque all’arbitrarietà del potere sovrano. Un secondo importante passo per il rafforzamento delle garanzie temporali contro l’esercizio del potere fu compiuto sempre in Inghilterra nel 1641, con l’emanazione del Triennal Act, in base al quale il Parlamento sarebbe stato convocato ogni tre anni. Nell’ambito di questa ricostruzione storica l’Autore ha richiamato l’attenzione anche sull’esperienza francese, dove la mancata convocazione degli Stati generali dal 1614 al 1788 è ulteriore testimonianza dell’intimo legame tra garanzie temporali e rappresentanza politica. Cuocolo ha poi sottolineato che il fattore temporale è un elemento centrale anche del costituzionalismo nord americano, dove si stabilisce, ad esempio, la periodica rieleggibilità dei poteri esecutivo e legislativo. Un criterio che invece è assente nei regimi totalitari, legati ad una sorta di “eterno presente”.

Infine, Cuocolo ha toccato un aspetto di grande attualità, soffermandosi sul rapporto tra tempo e istituzioni alla luce della globalizzazione. Al riguardo, ha evidenziato come la forte accelerazione dei rapporti socio-economici caratteristica del nostro tempo contrasti con la tradizionale lentezza delle istituzioni, favorendo quelle spinte che chiedono una modifica delle forme di governo in senso presidenzialista e monocamerale.

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Alessandra Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista (Il Mulino, 2009) con Giuseppe Parlato

Giovedì 14 gennaio 2010 nel quadro degli incontri “Un libro, un autore tra storia e attualità“, è stato presentato il libro di Alessandra Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista (Il Mulino, 2009).

L’incontro è stato introdotto da Giuseppe Parlato, che ha ricordato l’immagine controversa di Giovanni Gentile, guardata con sospetto anche da settori della destra, in particolare dagli ambienti evoliani, che lo consideravano “un pericoloso arnese della rivoluzione”. Affermazione successivamente comprovata dal percorso seguito dagli allievi di Gentile nel dopoguerra, quando tutti, o quasi, passarono al marxismo e al comunismo, continuando a seguire un orientamento rivoluzionario evidente già nel pensiero del maestro.

L’intervento della Tarquini ha dunque trattato del rapporto tra Gentile e i fascisti, con l’obiettivo di rispondere ad alcuni interrogativi: Gentile è stata l’unica vera espressione della cultura fascista, come sostenuto da Augusto Del Noce? Oppure, come ha sostenuto Eugenio Garin, il fascismo ha avuto una cultura ben definita che però era molto diversa da quella gentiliana?

L’Autrice ha sintetizzato la sua analisi suddividendola in due periodi temporali: gli anni ’20 e gli anni ’30.

Il primo è il decennio in cui ha origine il conflitto tra i fascisti e Gentile, a proposito della legge sulla riforma della scuola. Il progetto di Gentile – ministro dell’Istruzione nel primo governo Mussolini – si fondava sulla concorrenza tra istituti pubblici e privati nel settore dell’educazione, cozzando con il programma del partito che invece affermava il primato dello Stato. A prevalere fu comunque la posizione di Gentile e dei suoi allievi e collaboratori (Ernesto Codignola e Armando Carlini), che fino alla fine degli anni Venti riuscirono a respingere l’offensiva degli intransigenti, secondo cui il fascismo avrebbe dovuto abbattere ogni ponte con le ideologie e le figure della vecchia Italia liberale, per dar vita ad uno Stato nuovo.

La Tarquini ha poi evidenziato il mutamento dei rapporti di forza negli anni Trenta, quando molti allievi si allontanarono da Gentile per avvicinarsi a Giuseppe Bottai (su tutti Ugo Spirito), che riuscì a coinvolgere gli intellettuali nel percorso rivoluzionario invocato dagli intransigenti. In questo modo Bottai riuscì ad avviare un progetto volto ad identificare cultura e politica (a vantaggio ovviamente del secondo termine). Progetto che doveva trovare il suo compimento nell’adozione di una riforma sulla completa “fascistizzazione” della scuola, in sostituzione della legge Gentile. Si trattava di un disegno che coinvolse un fronte composto da antigentialiani ed ex-gentiliani, dimostrando, secondo l’Autrice, che se da una parte il fascismo non può essere incarnato nella figura di Gentile, dall’altra il pensiero del filosofo non ne può neanche essere escluso.

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Giuseppe Bedeschi, Liberalismo vero e falso (Le Lettere, 2009) con Stefano De Luca

Giovedì 12 novembre 2009 è stato presentato il volume di Giuseppe Bedeschi, Liberalismo vero e falso (Le Lettere 2009) con Stefano De Luca.

L’incontro è stato introdotto da Stefano De Luca, il quale ha ricordato come Bedeschi sia già stato l’autore di una Storia del pensiero liberale (Laterza, 1992) che al momento della sua pubblicazione andava a coprire un vuoto di studi nel settore. Successivamente sono poi usciti un gran numero di lavori in questo ambito ed il pensiero liberale si è affollato di presenze prima estranee, che ne hanno “intorbidito” il significato. Il volume di Bedeschi ha dunque l’obiettivo di individuare e separare il “vero” dal “falso” liberalismo.

Prendendo la parola, l’Autore ha prima di tutto sottolineato la difficoltà di riconoscere il vero pensiero liberale, ricordando come gli stessi classici del liberalismo (Locke, Montesquieu, Kant) non abbiano mai utilizzato questo termine per indicare un orientamento di pensiero. Per questo motivo Bedeschi ha affermato di non ritenere corretto l’approccio di Barberis, secondo cui la storia del liberalismo dovrebbe iniziare da quando certi pensatori hanno cominciato a definirsi “liberali”. Una seconda difficoltà evidenziata dall’Autore consiste nell’inquadrare il “vero” liberalismo a fronte della presenza di una molteplicità di posizioni che si fanno rientrare in questo quadro.

Al riguardo, rifiuta l’impostazione proposta da Nicola Matteucci, secondo cui non si potrebbe parlare di un “liberalismo”, ma di vari e diversi “liberalismi”. Per Bedeschi, l’uso al plurale del sostantivo starebbe comunque a dimostrare “l’esistenza di qualcosa di comune che ne giustifica l’uso e che dovrebbe dunque essere esplicitato”. Bedeschi propone così di delineare un tipo ideale di liberalismo derivandolo dalle varie e diverse forme che esso ha assunto nel corso della storia. Questo tipo ideale sarebbe contraddistinto dalla presenza di due elementi, sui quali avevano già richiamato la loro attenzione i classici:
1) la presenza di garanzie che il potere politico riconosce ai cittadini contro gli abusi del potere politico stesso a danno dei diritti naturali imprescindibili dell’uomo;
2) la tutela della proprietà privata. Individuati questi due elementi, secondo Bedeschi è gioco facile riuscire a “smascherare” i falsi liberalismi.

Come quelli proposti in Italia da Piero Gobetti e Norberto Bobbio, che consideravano la rivoluzione bolscevica e le democrazie popolari degli esperimenti liberali per il semplice motivo che si proponevano di liquidare delle situazioni di oppressione sociale, senza però considerare che esse andavano a cancellare proprio i due elementi che Bedeschi considera costitutivi dell’idealtipo liberale.

 

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Aldo G. Ricci, Pino Bongiorno, La rinascita dei partiti in Italia. 1943-1948 (Ugo Spirito/Edizioni Nuova Cultura, 2009) con Giuseppe Parlato

Giovedì 29 ottobre 2009 è stato presentato nell’ambito dei Giovedì della Spirito il volume di Aldo Giovanni Ricci e Pino Bongiorno, La rinascita dei partiti in Italia. 1943-1948 (Fondazione Ugo Spirito/Edizioni Nuova Cultura, 2009).

Ha introdotto l’incontro Giuseppe Parlato – presidente della Fondazione Ugo Spirito – che ha sottolineato come questo lavoro rappresenti il ritorno ad una “storia dei partiti” che mancava da molto tempo, dopo la ricca stagione degli anni Settanta. Parlato ha poi richiamato l’attenzione sugli elementi di interesse del volume: la lettura del periodo di transizione dal fascismo al post-fascismo effettuata dal punto di vista interno dei partiti; il ruolo centrale giocato dai partiti politici già nella fase costituente, che preannuncia il loro potere dopo il 1948; il plasmarsi di questi partiti sul modello del “partito tutto” fascista.

Ricollegandosi all’introduzione di Parlato, l’Autore ha affermato che “il momento migliore per scrivere una storia dei partiti è proprio ora che i partiti non esistono più”. Ricci ha dunque riassunto il contenuto del suo lavoro, chiarendo di aver circoscritto l’analisi al periodo 1943-48 proprio perché è quello della strutturazione del sistema di partiti destinato a dominare la scena politica italiana per quasi mezzo secolo. Ha poi spiegato che l’espressione “rinascita” dei partiti trova la sua ragion d’essere nel fatto che la maggioranza dei protagonisti di questa fase ha radici nell’Italia prefascista (PLI, PSI, PCI e DC, che si ricollegava all’esperienza del Partito Popolare) con alcune novità come il Partito d’Azione, l’Uomo Qualunque e i partiti di destra (monarchici e MSI).

Tuttavia, dopo l’esperienza fascista a dominare la scena furono (e non potevano che essere) i tre grandi partiti di massa (socialista, comunista e democristiano) che contrapponendosi alla concezione liberale lavorarono congiuntamente per plasmare uno Stato “pesante”, contraddistinto da una costituzione programmatica con le caratteristiche necessarie all’affermazione di una “repubblica dei partiti”: la debolezza degli esecutivi, che ne favoriva il controllo da parte dei dirigenti di partito, e la mancanza di una regolamentazione della vita dei partiti stessi.

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Roberto Pertici, Chiesa e stato in Italia, (Il Mulino) con Giuseppe Parlato

Giovedì 8 ottobre 2009 è stato presentato nell’ambito dei Giovedì della Spirito il volume di Roberto Pertici, Chiesa e Stato in Italia (Il Mulino).

L’incontro è stato introdotto da Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione Ugo Spirito. Parlato ha evidenziato alcuni aspetti del lavoro di Pertici, in particolare l’approfondimento del problema dell’introduzione del Concordato del ’29 nella Costituzione repubblicana e gli elementi innovativi rispetto agli studi omologhi, che – secondo Parlato – lo rendono quasi una “storia d’Italia” tout court non solo limitata all’ambito descritto dal titolo ma estesa alle culture politiche del nostro Paese nel confronto con la presenza della Chiesa cattolica.

L’Autore ha ampiamente riassunto il contenuto del proprio lavoro, a cominciare dal rapporto contrastato fra nazione italiana e presenza della Santa Sede all’interno del proprio territorio: una storia dunque intrecciata fra le due istituzioni, che ha generato un problema di identità della nazione e di legittimità. Le risposte a questo problema – secondo Pertici – sono state principalmente due, quella neoghibellina, fortemente anti-ecclesiastica, e quella neo-ghibellina, di segno opposto. Una terza via – evidenzia Pertici – è quella assunta pressoché dal solo Cavour, che cercò di realizzare una separazione fra Chiesa e Stato neo-unitario, con una politica quasi pre-conciliaristica e di forte autonomia dell’una rispetto all’altra, non coronata da successo. I successori del Conte, infatti, perseguirono invece una via neoghibellina.

La svolta nei rapporti fra Italia e Chiesa viene identificata da Pertici con la Grande Guerra: con quel conflitto la Santa Sede abbandona l’aspirazione ad una sua restaurazione temporale attraverso una sconfitta militare dell’Italia. La guerra evidenziò la fragilità diplomatica e la dipendenza della Santa Sede, ospitata su territorio italiano “dato in godimento”, e aprì all’unica ipotesi realistica, ossia la realizzazione di uno Stato a sovranità ecclesiastica, sul modello di San Marino, su un territorio ceduto dallo Stato italiano. Con la fine della guerra, la Conciliazione sembrò ad un passo, ma non fu realizzata per l’instabilità politica dei governi italiani. L’avvento di un governo forte – poi della dittatura – con Mussolini consentì alla Chiesa di “trattare con chi avesse possibilità di andare ad una conclusione”.

Pertici ha quindi sottolineato le necessità e le lacune storiografiche nell’approccio allo studio del Concordato e dei rapporti fra Fascismo e Chiesa, notando che “gli storici della Chiesa non hanno ancora avuto il loro De Felice”. Importanti aspetti dei rapporti fra Roma e il Vaticano sono stati messi in luce dall’Autore durante l’incontro, in particolare lo status di “parte debole” rivestito dalla Chiesa nel Concordato e negli anni successivi, con momenti di forte tensione fra Regime e Santa Sede. Un rapporto di disparità che – argomenta Pertici – è alla base dell’articolo 7 della Costituzione repubblicana, che rende il Concordato patto costituzionale: l’inserimento del Concordato nella Carta, infatti, mise la Santa Sede al sicuro da una possibile denuncia unilaterale dell’accordo da parte dello Stato italiano.

Infine Roberto Pertici ha esaminato il problema della laicità del nuovo regime repubblicano alla luce dell’articolo 7 della Costituzione, con il processo di revisione del Concordato iniziato nel 1967 e durato ben diciassette anni. Il dibattito seguito alla presentazione ha gravitato attorno al rapporto fra Chiesa e Risorgimento, con solo l’apparente paradosso del patriottismo manifestato dal clero italiano dalla Grande Guerra in avanti, i progetti di creazione del micro-Stato vaticano prima del Concordato del 1929 e infine l’evoluzione del partito di ispirazione cristiana in Italia – dal Partito Popolare alla Democrazia Cristiana – con i cambiamenti nella sua classe dirigente e il rapporto contrastato fra essa e l’Oltretevere.

 

Recensioni

Sergio Romano, Chiesa e Stato in Italia. Il sogno fallito di Cavour,
in «Corriere della Sera», 18 settembre 2009

Dino Messina, Libera Chiesa in libero Stato: il sogno di Cavour mai pienamente realizzato,
dal blog del Corriere.it “La nostra storia”

 

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Giovanni Mario Ceci, Renzo De Felice storico della politica (Rubbettino, 2008) con Renato Moro e Giuseppe Parlato

Mercoledì 3 giugno 2009, Giovanni Mario Ceci ha parlato agli ospiti della Fondazione Ugo Spirito del suo saggio Renzo De Felice storico della politica (Il Mulino).

Ceci è stato presentato dal presidente della Fondazione Giuseppe Parlato – che ha sottolineato come il metodo defeliciano non invecchi col passare degli anni – e introdotto da Renato Moro (Università di Roma Tre), che ha evidenziato come il saggio di Ceci sia il primo scritto da un autore di una nuova generazione, che non ha conosciuto direttamente lo storico e che ha applicato a De Felice il suo proprio metodo.

L’autore ha quindi esposto una panoramica sull’opera dello storico reatino. “Complessità” è dunque per Ceci la parola chiave per comprendere il lavoro di De Felice come ricercatore e intellettuale. Egli ha infatti basato il proprio lavoro su un approccio molteplice alla storia, con l’attenzione al dato culturale prima che a quello fattuale e introducendo il concetto che i valori soggettivi degli attori politici sono determinanti come e forse più dell’aspetto classista o del sostrato economico di un dato periodo. Grazie all’influenza di storici come Chabod, Bloch, Febvre ma anche di politici come Gramsci e sociologi come Pareto, De Felice ha introdotto nel suo metodo di lavoro anche l’attenzione per la cultura delle masse, giungendo così ad una visione per tessere o “a mosaico” del racconto storiografico. Un metodo che De Felice ha applicato tanto nel suo grande affresco – incompiuto – della biografia di Mussolini, quanto ai suoi studi giovanili sul periodo giacobino. Uno dei contributi fondamentali di De Felice al nuovo metodo storiografico è quello di aver posto l’accento sul dato culturale piuttosto che sulla lettura ideologica dei fatti e sugli uomini protagonisti degli eventi piuttosto che sui concetti.

Ceci ha quindi evidenziato che De Felice è stato il primo storico italiano a riconoscere l’esistenza di una cultura fascista tout court, ed il primo a fornire delle definizioni di fascismo come cultura, come atteggiamento mentale o stato d’animo. Un’importanza tale – quella dello stato d’animo e dell’atteggiamento mentale – per De Felice, da portarlo al famoso paradosso che molti hanno poi strumentalmente usato per attaccarlo: quello della Rsi, ai protagonisti della quale lo storico riconosce delle aspirazioni patriottiche, ma – per converso – vede poi l’eterogenesi dei fini e i risultati disastrosi, primo fra tutti l’esser causa dello scoppio della Guerra civile.

Ultimo punto messo in luce da Ceci del percorso di De Felice come storico della politica è l’analisi del fascismo come fenomeno duplice, diviso in regime e movimento. Il primo caratterizzato da forza d’inerzia e aspirazioni autoritarie e reazionarie, oltreché da una notevole presenza di fiancheggiatori in ultima analisi antifascisti. Il secondo caratterizzato da aspirazioni totalitarie e vis rivoluzionaria. Due forze fra le quali Mussolini si trova a dover mantenere un equilibrio.

 

Recensioni

Giovanni Belardelli, Quando De Felice per capire il fascismo s’ispirava a Gramsci,
in «Corriere della Sera», 14 ottobre 2008
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Eugenio Capozzi, Il sogno di una costituzione. Giuseppe Maranini e l’Italia del Novecento (Il Mulino, 2008) con Stefano De Luca

Giovedì 7 maggio 2009, la Fondazione Ugo Spirito ha ospitato la presentazione del volume dello storico Eugenio Capozzi (docente di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli) Il sogno di una costituzione. Giuseppe Maranini e l’Italia del Novecento (Il Mulino, 2008).

L’appuntamento è stato introdotto da Stefano De Luca (docente di Storia delle Dottrine Politiche presso l’Università degli Studi “Suor Orsola Benincasa” di Napoli).

La figura del politologo Giuseppe Maranini viene tratteggiata da Capozzi alla luce del suo dato biografico: un uomo che ha attraversato varie esperienze nell’Italia del Novecento, dall’attivismo socialista del padre nella Trento ancora sotto il dominio asburgico all’interventismo nella Grande Guerra; dall’avventura giovanile a Fiume con D’Annunzio alla carriera accademica durante il ventennio fascista nell’ambito della Facoltà di Scienze politiche di Perugia.

Il dopoguerra – quindi – con l’epurazione e la riabilitazione, la critica alla partitocrazia e le esperienze politiche con Randolfo Pacciardi. Maranini rappresenta dunque – per Capozzi – una rara eccezione nel panorama politologico italiano: uno dei pochi pensatori ad aver affrontato con franchezza la mancanza di una discussione aperta sulle cesure costituzionali che l’Italia del Novecento ha attraversato. Il trapasso dal regime liberale a quello del suffragio universale, il trauma della Grande Guerra e quindi l’avvento del fascismo. La sconfitta, la guerra civile e la nascita della Repubblica con la nuova costituzione antifascista, sono tutte rotture traumatiche mai davvero metabolizzate dalla nazione e dalla sua classe intellettuale e politica, che ha sempre evitato un reale dibattito sui principi costituzionali alla base delle varie costituzioni formali e materiali che si sono succedute.

Nonostante le varie fasi attraversate da Maranini, Eugenio Capozzi identifica nel suo pensiero una “idea fissa”, quella della cornice di diritto pubblico che costituisca non un mero fatto formale ma sostanziale e legato alle contingenze sociali, culturali ed economiche di una nazione. Per questo Maranini sarà un intellettuale integrato – ma non organico – al regime fascista, del quale coglierà la necessità come difesa dello Stato dalla disgregazione minacciata dal bolscevismo, e nel dopoguerra si dichiarerà nemico della costituzione del ’48, nella quale vedeva una carta solo formale, incapace di contenere il parlamentarismo. Una presa di posizione che subirà una brusca inversione di marcia allorché – durante la presidenza della Repubblica di Gronchi (1955-1962) – Maranini appoggerà apertamente le tesi del presidente per una totale applicazione degli articoli della Carta nel senso di rafforzamento dell’esecutivo. Rafforzamento delle prerogative presidenziali e obbligo di sfiducia costruttiva rappresentavano per Maranini la via per trasformare una costituzione formale in una sostanziale. Gli ultimi anni della vita di Maranini lo vedono protagonista di una breve esperienza accanto al movimento Nuova Repubblica di Randolfo Pacciardi.

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