Trieste: la Fondazione alla mostra su Camillo Castiglioni

Il 29 giugno 2019 è stata inaugurata a Trieste la mostra “Camillo Castiglioni e il mito della BMW”, organizzata dalla Fondazione Franco Bardelli e dal Comune di Trieste, con la collaborazione di BMW Group Archiv e della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. La Fondazione ha contribuito con il prestito di numerosi documenti d’archivio conservati nel fondo dello storico e diplomatico Attilio Tamaro.
All’inaugurazione hanno partecipato il vicepresidente della Fondazione Gianni Scipione Rossi, i curatori, l’assessore alla cultura del Comune di Trieste Giorgio Rossi, l’assessore all’ambiente della Regione Friuli Venezia Giulia Fabio Scoccimarro, Claudia Castiglioni, pronipote di Camillo, e i responsabili di BMW Group Archiv.
La mostra, curata da Mauro Martinenzi e Susanna Ognibene, si terrà dal 29 giugno al 21 luglio nella sala Attilio Selva di Palazzo Gopcevich, via G. Rossini, 4.
L’inaugurazione è stata fissata in concomitanza con l’arrivo a Trieste del “Fiva world motorcycle” il più importante evento mondiale di moto d’epoca, che quest’anno si svolge in Slovenia e Croazia, con tappa finale in Piazza Unità. Alla manifestazione saranno presenti anche moto provenienti dal Museo BMW di Monaco.
La mostra, allestita da Omniarem, si pone l’obiettivo di raccontare la straordinaria vita di Camillo Castiglioni, uno dei più grandi finanzieri e industriali europei negli anni Dieci e Venti del Novecento, con un particolare approfondimento relativo al periodo in cui come proprietario della BMW ne favorisce la trasformazione in una fabbrica motociclistica. L’intento è quello di realizzare un’esposizione che valorizzi e ponga in risalto sia la singolare storia umana del Castiglioni, che va oltre la connotazione politica dell’epoca, sia la società, il contesto culturale, politico ed economico attraverso cui il nostro personaggio si muove e vive, con particolare riferimento alle sue radici triestine ed ebraiche.
Camillo Castiglioni nacque a Trieste il 22 ottobre del 1879 da Vittorio, pedagogista ed ebraista (vice rabbino di Trieste, poi rabbino capo di Roma dal 1903 al 1911), e morì a Roma il 18 dicembre del 1957.
Il catalogo della mostra – Camillo Castiglioni e il mito della BMW, Goliardica Editrice, Trieste – è curato da Susanna Ognibene e Mauro Martinenzi, con introduzioni di Fred Jakobs, Head BMW Group Archiv, e di Gianni Scipione Rossi, autore della biografia Lo “squalo” e le leggi razziali. Vita spericolata di Camillo Castiglioni(Rubbettino, 2017).

 

Catello Cosenza, il professore tra accademia e umanità

Mercoledì 19 giugno 2019, presso la sede della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, si è tenuto un commosso e sentito ricordo del Prof. Catello Cosenza, ordinario di Economia Politica alla Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza di Roma, a dieci anni dalla scomparsa.

Ad aprire la discussione sul contributo umano e scientifico di Cosenza è stato il Dott. Nicola Benedizione, consigliere di amministrazione della Fondazione che, introducendo all’uditorio presente la figura del Professore, ha evidenziato in particolare il rapporto di amicizia con la Fondazione.

Il primo contributo del pomeriggio è stato affidato al Prof. Adriano Giannola dell’Università Federico II di Napoli. Da economista, Giannola ha ricordato, con particolare vicinanza umana e partecipazione alla vicenda, il rapporto tra Cosenza e il Banco di Napoli, soffermandosi sull’eredità umana e culturale della complessa fase di liquidazione del Banco stesso che li vide partecipi. Il professore, in chiusura, ha dato spazio ai ricordi personali, in particolare ai reciproci stimoli culturali e al legame tra Cosenza e la città di Napoli.

L’Ambasciatore Maurizio Serra, secondo contributo del “Ricordo”, ha richiamato in apertura del suo intervento gli anni di formazione universitaria e il primo incontro con il Prof. Cosenza. Molto interessante lo spunto di riflessione fornito dall’Ambasciatore sulla dimensione pedagogica di Cosenza, particolarmente umile e attento ai giovani.

Il terzo contributo, quello del Dott. Paolo Massa, si è incentrato sull’aspetto culturale e sulla figura di “Maestro” non convenzionale di Cosenza. Particolarmente significativo il parallelo tra lo stesso e l’indimenticabile Keating, interpretato da Robin Williams nell’Attimo fuggente di Peter Weir. In chiusura, Massa ha indicato nella multidisciplinarità la chiave di lettura del pensiero di Cosenza.

Il profilo multidisciplinare del Prof. Cosenza è stato evidenziato anche dalla Prof.ssa Cristiana Abbafati della Sapienza, allieva del Professore e sua stretta collaboratrice scientifica. La professoressa ha presentato, in una sintetica ed esaustiva relazione, l’opera scientifica di Cosenza. Diversi i temi segnalati: dall’economia alla figura dell’economista, fino ad arrivare al complesso rapporto tra politica e scienza economica. La testimonianza della Prof.ssa Abbafati si è conclusa, con un momento di commozione, sul ricordo del carattere spigoloso e sincero del Prof. Cosenza.

Un gradito “fuori programma” è stato affidato a due spontanei contributi sulla figura di Cosenza: quelli del Prof. Augusto Sinagra e del Prof. Gianfranco Lizza, amici, prima che colleghi presso l’A­teneo romano, del Professore. Sinagra si è soffermato sulle idee politiche di Cosenza e sulla sua lettura del fascismo, vissuto non solo come ideale, ma soprattutto come attenzione primaria alle problematiche sociali. Lizza ha invece parlato della collaborazione universitaria con Cosenza e delle peculiarità culturali del Professore, racchiuse nell’espressione “genio e sregolatezza”.

Dopo i due sentiti ricordi appena citati, la parola è passata al Prof. Paolo Simoncelli che, con il rigore che lo contraddistingue, ha ricostruito in maniera dettagliata la biografia di Cosenza, evidenziando, oltre ai ricordi accademici – frutto di un rapporto maturato nell’arco di moltissimi anni di vicinanza –, alcune interessanti e significative vicende familiari.

L’incontro si è concluso con la testimonianza del Prof. Francesco Pezzuto e con il commosso ricordo familiare di Bruno Cosenza, fratello del Professore, presente tra il pubblico.

Le svolte del 1919 nel convegno in Fondazione

Giovedì 13 giugno 2019, dalle ore 16.00, si è tenuto nella Sala della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice il Convegno di studi “La svolta del 1919”.

II convegno si è articolato sulle quattro date principali dell’anno, a livello politico: 18 gennaio, nascita del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo; 23 marzo, nascita dei Fasci di Combattimento di Benito Mussolini; 12 settembre, entrata in Fiume di Gabriele d’Annunzio; 16 novembre, elezioni politiche per la prima volta con il sistema proporzionale voluto da Francesco Saverio Nitti.
Quello fu l’anno della nascita dei partiti di massa in Italia e la risposta delle istituzioni fu la trasformazione in senso proporzionale del sistema elettorale; ma fu anche l’anno di d’Annunzio e della impresa di Fiume, il secondo grave vulnus all’Italia liberale (il primo fu la dichiarazione di guerra e il terzo fu la marcia su Roma). Il 1919 fu anche l’anno del massimalismo socialista, quel massimalismo che nei fatti impedì la creazione di un governo stabile e autorevole in Italia dopo le elezioni; ma fu l’anno in cui gli intellettuali pensarono che la rivoluzione fosse possibile, non quella socialista, più volte sbandierata e mai realizzata, ma quella “nazionale”, erede della guerra e del clima di battaglia del dopoguerra.
Del 1919, anno di nascita di due delle grandi famiglie politiche del Novecento, i cattolici democratici e i fascisti, si è dunque parlato  nel convegno,  così articolato:

Giovanni Dessì, docente di Storia delle dottrine politiche, Università di Roma Tor Vergata, segretario generale dell’Istituto Luigi Sturzo.
La nascita e il significato del Partito Popolare Italiano

Giuseppe Parlato, docente di Storia contemporanea, Unint di Roma, presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice
Da San Sepolcro a Fiume

Simonetta Bartolini, docente di Letteratura Italiana contemporanea, Unint di Roma
Il diciannovismo degli intellettuali

Andrea Ungari, docente di Storia contemporanea, Università Guglielmo Marconi di Roma
Il ‘19 del Re

Silvio Berardi, docente di Storia contemporanea, Università Niccolò Cusano di Roma
Nitti e la proporzionale, con uno sguardo all’Europa

Ha coordinato
Gianni Scipione Rossi, vice presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.

Gli atti del convegno saranno pubblicati nel n. 2/2019 degli Annali della Fondazione.

Attualità del pensiero di Augusto del Noce: convegno a Trieste

La Fondazione ha patrocinato il convegno di studi “Augusto Del Noce. Attualità del suo pensiero”, svoltosi a Trieste il 30 e 31 maggio 2019, per iniziativa della Lega Nazionale e della Fondazione Augusto Del Noce. Il convegno ha ottenuto il patrocinio anche del Senato della Repubblica, del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, del Cnr, del Comune di Trieste, dell’Università di Trieste e della Regione Friuli Venezia Giulia. Il presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, Giuseppe Parlato, ha tenuto la relazione Del Noce, Baget Bozzo, Gedda: Resistenza, “partito cristiano” e crisi del centrismo.

La transizione dal fascismo e dal franchismo alla democrazia, convegno Italo-spagnolo

Presso la Escuela Española de Historia y Arqueología en Roma (EE- HAR), organismo della Agencia Estatal Consejo Superior de Investigaciones Científicas (CSIC), si è tenuto il 14 maggio 2019 a Roma il convegno internazionale sul tema “La transizione del fascismo e del franchismo alla democrazia”. Il convegno è stato organizzato, oltre che dall’ente spagnolo ospitante, dall’Università della Tuscia, dall’Università di Navarra, dalla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, con il sostegno del Governo di Spagna e dell’Unione Europea. Giuseppe Parlato, ordinario di Storia contemporanea nella Unint di Roma e presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ha tenuto la relazione “Pro aris et focis”. Luigi Gedda e il progetto cattolico nazionale nell’Italia degli anni Cinquanta. Andrea Ungari, docente di Storia contemporanea nella Università Guglielmo Marconi di Roma e componente il CdA della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, ha tenuto la relazione I monarchici e la Chiesa Cattolica negli anni della transizione 1944/1946.

Il Novecento attraverso i giornali, il caso di Mino Pecorelli

Giovedì 28 marzo 2019 si è tenuto nella sala della Fondazione un incontro sul tema Inchieste, scoop, impegno civile. Il giornalismo di Mino Pecorelli: “Op-Osservatore Politico” 1978-1979.
Ha coordinato Nicola Rao, vicedirettore Tgr Rai, saggista, consigliere d’amministrazione Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. Sono intervenuti Paolo Patrizi, giornalista, già caporedattore di “OP-Osservatore Politico”, e Gianni Scipione Rossi, direttore del Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo e vicepresidente Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.
Il settimanale “OP-Osservatore Politico” fu fondato e diretto dall’avvocato e giornalista Carmine (Mino) Pecorelli (1928-1979). Nato a Sessano del Molise, nel 1944 Pecorelli, appena sedicenne, si arruolò nel II Corpo d’armata polacco in quel periodo attivo nella zona nella guerra contro i tedeschi. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale si diplomò a Roma; successivamente si trasferì a Palermo, dove si laureò in legge.
Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta lavorò nella capitale come avvocato. Divenne esperto di diritto fallimentare e fu nominato capo ufficio stampa del ministro Fiorentino Sullo, iniziando così ad entrare nell’ambiente del giornalismo.
Dopo un periodo a “Nuovo Mondo d’Oggi”, nel 1968 Pecorelli fonda “OP” come agenzia di stampa ciclostilata, che si distinse per le informazioni su politici, militari e magistrati, grazie anche alle relazioni del direttore con esponenti dei servizi segreti. All’inizio del 1978 “OP – Osservatore Politico” si trasformò in una rivista. Il primo numero uscì il 28 marzo il sottotitolo “Settimanale di fatti e notizie”. Privo di pubblicità, il settimanale ebbe un notevole successo e arrivò a diffondere in edicola 20mila copie. Fu un giornale di inchiesta e denuncia della corruzione e dei legami tra affari e politica, nel solco dell’antipartitocrazia che si era andata diffondendo con la crisi del centro sinistra.
Gli scoop più rilevanti di “OP” furono le ultime lettere di Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse e un’inchiesta sulle presunte attività illecite di esportazione di valuta e contrabbando condotte dalla Guardia di Finanza sotto il comando del generale Raffaele Giudice. L’assassinio del direttore Pecorelli, avvenuto a Roma il 20 marzo 1979 e rimasto impunito, causò la cessazione della rivista. L’ultimo numero uscì il 27 marzo di quell’anno.
La collezione 1978 della rivista è conservata nell’emeroteca della Fondazione. Disponibile è anche la collezione del settimanale “OP nuovo”, che vide la luce tre anni dopo l’omicidio di Pecorelli, con la direzione di Paolo Patrizi, affiancato da Adelchi Perissinotto, Stefano Rossi e, per un periodo, da Sergio Tè. Fu un’esperienza editoriale di breve durata. Ne uscirono undici numeri (31 marzo-9 giugno 1982).

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L’intervento introduttivo di Nicola Rao

40 anni fa, esattamente il 20 marzo 1979, in via Orazio, quartiere Prati, a due passi dalla sede del suo giornale (via Tacito), 5 km in linea d’aria da questa sala, il giornalista cinquantenne Mino Pecorelli veniva ucciso con 4 colpi di pistola sparati a distanza ravvicinata attraverso il finestrino della sua auto, subito dopo essere salito a bordo.

Oggi ci ritroviamo qui, non per parlare della sua morte ( né delle ipotesi e delle inchieste su mandanti ed esecutori, che purtroppo non hanno ancora accertato nulla) ma per parlare della sua vita. Soprattutto della sua vita professionale. Ci sono delle persone che spesso vengono identificate con un’etichetta, un aggettivo, una definizione che le accompagnano per tutta la vita e oltre. E che vengono ricordate o conosciute con quel marchio perenne. Nel bene e nel male. Io, per cultura, ma anche per formazione e per deformazione professionale, ho sempre diffidato dei luoghi comuni e delle verita’ assiomatiche. Ho sempre coltivato il dubbio e pensato che non sempre le cose stanno come ce le raccontano o come tutti credono. Ecco, Mino Pecorelli è vissuto, morto ed ancora oggi, dopo 40 anni, ricordato con una serie di etichette o definizioni che vengono ripetute e si tramandano di padre in figlio: ricattatore, uomo della massoneria e/o dei servizi segreti, portavoce e portatore di affari e gruppi di pressione e/o interessi. Provocatore e chi più ne ha più ne metta. Gianni ed io, come componenti del cda di una fondazione di ricerca storica sul Novecento, come la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, abbiamo pensato che fosse interessante ed ancora corretto, storicamente e giornalisticamente, provare a scardinare la corazza del luogo comune e vedere se dentro o dietro ci fosse qualcos’altro a proposito di Mino Pecorelli. Ed abbiamo trovato molto altro. In effetti.

Sinteticamente, chi era Mino Pecorelli? Nato in un paesino del Molise nel v1928 ha vissuto tante vite diverse dentro una sola vita, come molti della sua generazione.

Comincia presto ad aggredirla, la vita. Appena quindicenne, lui giovane molisano, ad aggregarsi, come volontario al Secondo Corpo Polacco, comandato dal generale Anders, che combattè a fianco degli inglesi a Cassino, Montelungo e Ancona. Tenete a mente questo episodio, perchè è importante per il suo futuro e ne riparleremo.

Dopo la guerra si laurea in legge, diventa avvocato e contemporaneamente si avvicina agli ambienti dell’allora ministro democristiano Fiorentino Sullo. Anche questa esperienza sara’ importante. Poi la passione prevale sul resto. E nel 67, lascia di fatto l’attività legale per tuffarsi nel giornalismo. Fonda, con altri colleghi, il settimanale ‘Nuovo mondo d’oggi’, il 19 novembre fa il suo primo grande scoop: un’intervista all’ufficiale dei parà Roberto Podestà che sostiene di essere stato incaricato di rapire e uccidere l’allora premier Aldo Moro nel 64 e darne la colpa all’estrema sinistra. Fino a quando, il 20 ottobre 1968, non dà vita ad una nuova testata: l’agenzia settimanale Op. Prima con Franco Simeoni, che come lui veniva da Nuovo Mondo d’Oggi, poi, per qualche mese, con l’ufficiale del Sid, Nicola Falde ed infine con colui che sarà il suo braccio destro, ma anche sinistro, fino alla fine: Paolo Patrizi.

Dal 68 al 78, per dieci anni, Pecorelli invierà ad un migliaio di persone, tra addetti ai lavori e ad abbonati, il ciclostile della sua agenzia, piena di scoop, anticipazioni, retroscena, sul mondo della politica, delle forze armate, dei servizi segreti, dei misteri d’Italia, ma anche della chiesa e della massoneria. Le fonti da cui Pecorelli attinge le notizie sono tante e le più disparate. Ma sono tutte fonti di prima mano e, spesso, di grande spessore.

Vorrei citarne alcune che, a mo’ di esempio, enuclea un atto ufficiale e terzo, come la sentenza di primo grado per il suo omicidio, emessa 20 anni dopo la sua morte. Leggo testualmente: i generali Miceli, Falde e Maletti del Sid, i politici Evangelisti, Bisaglia, Piccoli, colombo, Danesi, Carenini, De Cataldo. Il comandante generale dei Carabinieri Mino. Federico Umberto D’Amato dell’Ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno. I magistrati D’Anna, Alibrandi, Infelisi, Testi. Gli industriali e/o affaristi Walter Bonino e Flavio Carboni. E Inoltre Tommaso D’Addario dell’Italcasse. Ezio Radaelli impresario degli spettacoli, l’avvocato Gregori, gli alti ufficiali dei carabinieri Antonio Varisco e Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Certo, ci sono stati e ci saranno sempre giornalisti politici che hanno rapporti privilegiati con fonti della politica, giornalisti investigativi e giudiziari che ne hanno con fonti dei servizi, forze ordine e magistratura, giornalisti economici con imprenditori e vertici di aziende e banche. Ma che un solo giornalista riesca ad intessere rapporti e ad attingere notizie da tutti questi mondi non ne ricordo a memoria. Forse il solo Bruno Vespa, che infatti, nei suoi libri annuali recupera episodi e retroscena, ma Pecorelli ogni settimana usciva con pagine e pagine di notizie e indiscrezioni continue, un esempio secondo me unico nel panorama giornalistico italiano.

I rapporti con il mondo militare e dei servizi aveva cominciato a crearseli durante la sua esperienza militare durante la guerra. Quelli con il mondo politico e democristiano durante la sua avventura con Fiorentino Sullo. Ma poi questi rapporti li aveva ampliati ed estesi a dismisura.

Brevemente, nel marzo 78, in coincidenza casuale ma inquietante con via Fani, Pecorelli decide di passare dall’agenzia per abbonamenti al settimanale cartaceo da vendere in edicola. A 500 lire a numero. Quasi 60-70 pagine, con tanto di cruciverba finale ed indice dei nomi citati, come se fosse un libro.

Il caso Moro, la strage di via Fani, i 55 giorni della sua prigionia, la sua morte il 9 maggio, saranno il perno attorno a cui ruoterà, fino alla fine l’avventura di Op e di Mino Pecorelli. Il giornalista ne era ossessionato. Capiva e scriveva che dopo quella vicenda, nulla sarebbe stato più come prima. La Democrazia Cristiana, il Palazzo, i sistemi e i gruppi di potere, quella che sarebbe poi passata alla storia come Prima Repubblica, ne avrebbero risentito in maniera devastante e irrimediabile.

Durante i 55 giorni, Pecorelli si schiera con il Psi per la trattativa con le Br. Il 18 aprile primo scoop, copertina con la frase ‘’Il mio sangue ricada sulle teste di Cossiga e Zaccagnini’’ (lettera rimasta segreta, inviata da Moro al professor Tritto l’8 aprile). Poi, dopo il ritrovamente del cadavere del presidente della Dc, comincia a pubblicare scoop. Il 13 giugno pubblica 3 lettere inedite del presidente. Il 1 ottobre, arrestati vertici Br via Montenevoso e trovato parte del memoriale Moro.

Poi il 17 ottobre 1978 nella rubrica lettera al direttore pubblica una strana missiva, di cui non cita il mittente, che recita cosi: ‘’Signor direttore, permetta un piccolo scritto ad un suo affezionato lettore, che dopo l’estate si è posto una domanda: Cossiga sa tutto su Moro ma non parla. E si è risposto da solo: Non parlerà mai, altrimenti…’’.

E più avanti: <Cossiga sapeva tutto, sapeva persino dov’era tenuto prigioniero., dalle parti del ghetto…(ebraico). Dice: il corpo era ancora caldo… Perché un generale dei Carabinieri era andato a riferirglielo di persona nella massima segretezza. Dice: perché non ha fatto nulla? Risponde: il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto, e qui sorge il rebus: quanto più in alto, magari sino alla loggia di Cristo, in Paradiso? Fatto sta, si dice, che la risposta il giorno dopo, quando la sentenziò, fu lapidaria: abbiamo paura di farvi intervenire perché se per caso a un carabinieri parte un colpo e uccide Moro oppure i terroristi lo ammazzano, chi se la prende la responsabilità ? Risposta da prete.

E poi: <Ci sarà solo da immaginare, caro direttore, chi sarà l’Anzà della situazione. Ovvero quale generale dei Cc avrà trovato suicida o morto per veleno (Borghese docet) o in un incidente a Ibiza…

E si conclude: <E se toccasse proprio al ministro? Speriamo di no. Ci è simpatico e poi è il cognato di Berlinguer e l’epoca di Sarajevo è un po’ lontana, non le pare? Purtroppo il nome del generale Cc è Noto: amen. Il fatto è vero, che ne pensa, uscirà  allo scoperto o no?>.

E in apertura dello stesso numero lungo pezzo pro Dalla Chiesa dal titolo: <perché solo adesso? Dalla Chiesa si presenta: arrestati probabili autori del sequestro Moro. Lodi dalla stampa le felicitazioni dal governo. Un solo interrogativo: perché solo ora e non durante il sequestro Moro?>. Del resto, tutto fa ritenere che fosse stato lo stesso Dalla Chiesa la ‘fonte anonima’ della lettera non firmata e che il generale dei Carabinieri, citato come ‘Amen’, fosse lo stesso Dalla Chiesa.

E proprio in questi giorni di ottobre, accanto ad altri giovani colleghi, entra in scena anche un giovane aspirante giornalista, Gianni Scipione Rossi. Che comincia a collaborare con la redazione di via Tacito.

 

La Fondazione a Todi per il Giorno del Ricordo

Il 10 febbraio del 1947, con la firma trattati di pace di Parigi, l’Italia perdeva l’Istria, la Dalmazia e gran parte della Venezia Giulia. La stessa Trieste tornò a essere italiana solo del 1954. Il 10 febbraio è stato scelto nel 2004 come data simbolica nella quale celebrare come solennità civile il “Giorno del Ricordo”, con l’intento di conservare vittime delle foibe, dell’esodo degli istriani, dei fiumani e degli zaratini italiani dalle loro terre durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. Nel biennio 1943-1945 migliaia di italiani – solo perché tali – furono massacrati dai partigiani jugoslavi e gettati nelle doline carsiche chiamate foibe.  Dopo la fine della guerra e fino al 1960 ebbe luogo il doloroso esodo di centinaia di migliaia di italiani che scelsero di ricominciare a vivere in Patria piuttosto che rimanere oppressi dal regime comunista del maresciallo Tito.

Questi drammatici eventi sono da anni oggetto di studio e riflessione. Con il patrocinio e il sostegno del Comune di Todi e la collaborazione del “Comitato 10 Febbraio”, la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice organizza nella città umbra, un evento rivolto alla cittadinanza e in particolare agli studenti, con il titolo “Dighe ai morti che no dimentichemo”. L’iniziativa si terrà sabato 9 febbraio, alle ore 10.00, nella Sala del Consiglio dei Palazzi Comunali.

Intervengono Michele Pigliucci, docente di Geografia economica e politica nell’Università di Sassari e direttore della Fondazione, Raffaella Rinaldi, coordinatore “Comitato 10 Febbraio” Umbria. L’ex sindaco di Orvieto Toni Concina porterà la sua testimonianza di esule da Zara. L’attore Giuseppe Abramo curerà alcune “letture dall’esodo”. Introducono il sindaco di Todi Antonino Ruggiano e l’assessore alla Cultura Claudio Ranchicchio. Coordina Gianni Scipione Rossi, giornalista e storico, vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice e direttore del Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo.

A Todi la Giornata della Memoria

Il 27 gennaio 1945 furono aperti i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz. È la data simbolica scelta dall’Onu per ricordare l’Olocausto del popolo ebraico durante la seconda Guerra Mondiale. Nella Giornata della Memoria 2019 la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, con il patrocinio e il sostegno del Comune e la collaborazione e della Associazione Italia-Israele di Perugia, ha organizzato a Todi una giornata di riflessione dedicata alla cittadinanza e in particolare agli studenti. Nel gennaio del 1939 gli italiani di religione israelitica e di origine ebraica cominciarono a subire le conseguenze delle “leggi razziali” varate tra il novembre e il dicembre 1938, dopo l’espulsione ragazzi e degli insegnati ebrei dalle scuole, disposta nel settembre precedente. Per questo l’incontro è stato intitolato “Dalla discriminazione alla persecuzione”. L’iniziativa si è svolta sabato 26 gennaio 2019 nella Sala del Consiglio dei Palazzi Comunali di Todi. I lavori sono stati introdotti dal Sindaco Antonino Ruggiano e dall’Assessore alla Cultura Claudio Ranchicchio. Hanno tenuto relazioni la storica Ester Capuzzo, ordinario di Storia contemporanea nella Sapienza Università di Roma, sul tema “Gli ebrei italiani dall’emancipazione alle leggi razziali”; l’antropologa Maria Luciana Buseghin, presidente della Associazione Italia-Israele di Perugia, sul tema “L’Umbria ebraica, storie e personaggi verso la discriminazione”; il giornalista e storico Gianni Scipione Rossi, vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice e direttore del Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo, sul tema “Gli intellettuali italiani tra l’indifferenza e mobilitazione razzista”.

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L’intervento introduttivo di Gianni Scipione Rossi

La Giornata della Memoria, che cade domani 27 gennaio, è la data simbolica scelta a livello internazionale perché in quel giorno del 1945 furono aperti i cancelli del campo di concentramento e sterminio nazista di Auschwitz, in Polonia.

Abbiamo scelto come titolo di questo “Dalla discriminazione alla persecuzione” perché non possiamo dimenticare o sottacere che ottanta anni fa, in Italia, cominciarono ad essere applicate nel concreto le cosiddette leggi razziali varate tra il novembre e il dicembre del 1938. Nelle scuole si era cominciato prima, a settembre, quando studenti e professori ebrei furono espulsi. Per gli italiani ebrei cominciò la fase della discriminazione. Nell’ottobre del 1943 si passò alla fase della persecuzione. Si pensi al 16 di quel mese, quando mille ebrei romani furono deportati in Germania.

Giornata della Memoria, dunque, della Shoah, dell’Olocausto ebraico, ma che va inquadrato in un contesto più generale. Di fronte a quel che è accaduto – sei milioni di persone scientificamente eliminate dal regime nazista – ci si chiede sempre – o almeno io me lo chiedo – come sia potuto accadere.

So che questi discorsi stancano. C’è fatalmente qualcosa di retorico nella narrazione di questi giorni. Sui giornali, alla radio, alla televisione. Ci si è anche chiesti spesso se non abbiano un effetto contrario, se non annoino invece che fare riflettere. Spero di no, ovviamente, anche se su questo c’è stato e c’è un largo dibattito.

Nel 2014 la giornalista e scrittrice torinese Elena Loewenthal pubblicò per Einaudi un piccolo libro urticante: Contro il giorno della memoria. Una dolente provocazione intellettuale, direi. Ma non solo.

Scrisse Elena Loewenthal: <Io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica: è soltanto la avvilente consapevolezza di una distanza minima, ma insormontabile. Io che sono nata poco dopo che tutto era finito, che sono vissuta circondata da quel passato, da quei ricordi – per lo più pestati sotto il tallone del silenzio, non per rimuovere quel passato, ma perché per tornare a vivere era fondamentale non lasciarlo parlare, almeno per un po’ di tempo – so per certo un’unica cosa, di quella memoria: che non potrò mai nemmeno lontanamente sentire quello che ha sentito chi è stato dentro quel tempo, quelle cose. Malgrado la mia vicinanza estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di una distanza minima, ma insormontabile> [p. 90]. Sono le considerazioni conclusive con cui Elena Loewenthal chiude Contro il giorno della memoria, un testo di riflessione sul senso del “Giorno della memoria” (che lei chiama, come un prodotto di consumo, GdM) e sui motivi per cui quel giorno, in quella forma, con quel tipo di cerimoniale, non la riguarda, né desidera essere coinvolta.

Io capisco il punto di vista di Elena, ma per me è facile. Non sono ebreo e quella tragedia l’ho studiata senza per fortuna averla del mio bagaglio psicologico personale. Il rischio è invece quello di dimenticare.

La senatrice a vita Liliana Segre lo ha sottolineato qualche giorno fa, il 15 gennaio: <Sarà così, la Shoah si dimenticherà, la storia è sempre cosi>.

Qualche giorno dopo, il 21 gennaio, accompagnando gli studenti in Polonia, un’altra sopravvissuta, Andra Bucci, ha detto che sarebbe meglio ricordare ogni giorno piuttosto che concentrare tutto in una giornata o in una settimana, quasi per lavarsi la coscienza. Anche qui, capisco, ma è meglio una settimana di niente. Perché penso che questo accadrebbe.

C’è anche un altro rischio. Lo ha segnalato il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni in un convegno a Roma, il 18 dicembre 2018.

Questo il resoconto di “Shalom”: <Rav Di Segni ha espresso preoccupazione per un fenomeno che appare in crescita e distante anni luce da un lavoro di Memoria viva e consapevole. E cioè il radicarsi di quello che ha definito “Shoahismo”. Una religione vera e propria, con i suoi luoghi e con i suoi templi. Tappe imprescindibili per chi ha a cuore la Memoria ma che – ha osservato – non possono diventare l’ancoraggio unico della propria identità. “L’ebraismo, che è una identità viva, per alcuni è soltanto un cimitero. Tutto ciò – ha detto – è patologico”>.

È anche questo è un tema centrale, non nuovo. Spesso si è detto che a molti piacciono gli ebrei morti, non quelli vivi. E questo aprirebbe un largo dibattito sull’antisemitismo e l’antisionismo persistenti, che esistono purtroppo fra noi. Non è vero che la storia non possa ripetersi. Lo fa in maniera diversa, ma può accadere. Per questo ogni volta che sento battute antisemite o antisioniste, quando vedo certi striscioni negli stadi, quando vedo svastiche sui muri delle scuole… o leggi riferimento a quel falso storico che furono i Protocolli dei Savi di Sion– come è accaduto in questi giorni – io mi preoccupo. Molto.

Per questo penso che sia giusto ricordare, avere memoria di quel che è accaduto.

Italia 1938, l’invenzione di un nemico

A ottanta anni di distanza dal varo delle “leggi razziali”, la Fondazione, con il sostegno della Regione Lazio e il patrocinio di Roma Capitale, ha organizzato una giornata di studio per ricordare e riflettere su uno dei momenti più oscuri della storia italiana del Novecento. Il convegno, dal titolo Italia 1938, l’invenzione di un nemico, si è tenuto nella Sala della Fondazione giovedì 29 novembre 2018. La giornata ha rappresentato il momento conclusivo di un percorso di studio su vari aspetti del processo di formazione dell’intervento legislativo, sulle conseguenze, sulla storiografia e sulla percezione della popolazione. Di quelle leggi, scrisse Tullia Zevi, «la popolazione in un primo tempo non percepì la gravità». L’iniziativa, pensata anche per coinvolgere gli studenti delle superiori, ha visto gli interventi di Ester Capuzzo, ordinario di Storia contemporanea nella Sapienza Università di Roma, sul tema Gli ebrei dall’Unità al fascismo; di Giuseppe Parlato, ordinario di Storia contemporanea nella Unint di Roma e presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, sul tema Renzo De Felice e l’antisemistimo fascista; di Gianni Scipione Rossi, giornalista e storico, sul tema Gli intellettuali italiani, l’antisemitismo e il caso di Attilio Tamaro; di Aldo G. Ricci, storico e Sovrintendente Emerito dell’Archivio Centrale dello Stato, sul tema La Rsi e le leggi razziali. Il convegno è stato seguito con molto interesse dal pubblico, composto anche da molti studenti. Numerosi gli interventi nel dibattito.

Gli atti del convegno in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX

Todi, la Grande Guerra cento anni dopo

Con il patrocinio e la collaborazione del Comune di Todi (Perugia) la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ha organizzato una iniziativa culturale nel quadro del Centenario della Grande Guerra. L’iniziativa si è articolata – tra il 28 settembre e il 17 novembre 2018 – in una serie di conferenze -incontri di analisi e approfondimento dei temi storiografici relativi al primo conflitto mondiale, con particolare riguardo al coinvolgimento degli studenti degli istituti superiori oltre che della cittadinanza tutta.
Il primo incontro si è tenuto il 28 settembre, nella Sala del Consiglio, Palazzi Comunali della città umbra con il titolo “Nulla sarà più come prima”. Hanno introdotto il sindaco di Todi avv. Antonino Ruggiano e l’assessore alla Cultura dott. Claudio Ranchicchio. Relazioni del prof. Giuseppe Parlato, ordinario di storia contemporanea nella Università degli studi internazionali di Roma, presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, e del dott. Gianni Scipione Rossi, giornalista e storico, vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.
Il 20 ottobre l’incontro è stato sui temi “I cattolici italiani tra patriottismo e fede”, con la dott.ssa Maria Chiara Mattesini, giornalista e storica, Universita’ di Roma Tor Vergata, e “Il dopoguerra dei combattenti: divisioni e stati d’animo”, con la dott.ssa Cristina Baldassini, ricercatrice in Storia delle dot- trine politiche, Università di Perugia. Ha coordinato Gianni Scipione Rossi.
“Quando la letteratura racconta la guerra” il tema del 2 novembre, con la prof.ssa Simonetta Bartolini, docente di letteratura italiana nella Università degli studi internazionali di Roma e con Giuseppe Parlato.
Il programma si è concluso 17 novembre 2018, sul tema “Le conseguenze del conflitto tra scenario internazionale e modernizzazione”. Sono intervenuti il prof. Silvio Berardi, docente di storia contemporanea Università Niccolò Cusano Roma, il dott. Andrea Perrone della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, il prof. Marco Zaganella, docente di storia economica Università dell’Aquila, e Giuseppe Parlato.

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Todi 28/9/2018

L’intervento di Gianni Scipione Rossi

Qualcuno di voi potrebbe pensare, per certi versi legittimamente, <basta, perché ancora la Grande Guerra. Sono cinque anni che ne parliamo>.

Il problema me lo sono posto anch’io.

In effetti sono anni che se ne parla e non si può certo dire che il Centenario sia passato sotto silenzio. Sono stati pubblicate decine di libri – talvolta non all’altezza, semplici sintesi o affreschi puramente divulgativi – e il numero di articoli, di mostre, di iniziative credo sia incalcolabile.

Ne valeva la pena? Era necessario? Naturalmente penso di si e non credo che si debba smettere di parlarne dall’anno prossimo, perché i lasciti della guerra hanno condizionato, nel bene e nel male, le vicende politiche, sociali, economiche, culturali dei decenni successivi, la nostra storia di un secolo. E molto c’è ancora da chiarire e capire.

Che se lo diciamo così – un secolo – sembra un tempo lontanissimo, quasi eterno, ma in realtà copre la storia personale e familiare di appena quattro/cinque, al massimo sei generazioni. Si parla di quello che hanno fatto, subito, costruito, sofferto, pensato, i nostri nonni o bisnonni. Se ci si riflette bene non è così lontano.

Poi, naturalmente, questa iniziativa si svolge in questo autunno che, cent’anni va, segnò la fine della Grande Guerra con la Vittoria dell’Italia.

Al 4 novembre manca ormai poco più di un mese. Ne parleremo.

Il problema è come parlarne, della Grande Guerra. Al di là dei fatti d’arme, delle battaglie, dei generali, del ruolo svolto dai protagonisti politici dell’epoca, dalla Monarchia, dagli interventisti ai neutralisti, agli irredentisti. L’elenco degli attori sarebbe lungo e articolato.

La storiografia, come sapete, è sempre in divenire. Chi pretende di aver scritto la parola fine alla ricostruzione e alla interpretazione di un evento non è un bravo storico. La continua revisione è una necessità e un obbligo, sulla base dei documenti e della loro possibile diversa spiegazione.

Revisione non vuol dire revisionismo. Che pure è un vizio ricorrente. Non solo in Italia.

Qualcuno si diverte anche a riscrivere la storia degli altri.

In questi giorni mi ha colpito una notizia. Nell’Austria guidata dal giovanissimo cancelliere Sebastian Kurz, del Partito Popolare, stanno riscrivendo i libri di storia per le scuole, orwellianamente, si potrebbe dire.

Lo hanno scoperto e rivelato Rita Monaldi e Francesco Sorti, su “La Stampa” del 24 settembre, facendo diversi esempi.

Ve ne leggo uno.

In VG3 Neu (per la scuola media, ancora Lemberger editore) il capitolo sul Risorgimento si apre con un’abile premessa: «Nel XIX secolo, ambiziosi uomini di Stato capirono che l’idea nazionale si adattava in modo eccellente al raggiungimento dei loro personali obiettivi politici. Volevano espandere i loro Stati a costo degli altri, e allo scopo utilizzarono come giustificazione l’idea nazionale. In molte parti del mondo ancora oggi si fa politica in modo simile». 

Il vero obiettivo dei leader italiani sarebbe stato “dividere l’impero asburgico”.

Cavour, Garibaldi e Mazzini diventano così un piccolo club di ambiziosi, e l’unificazione d’Italia una guerra di aggressione. Proseguono gli autori: «Il Piemonte nella seconda metà del XIX secolo si sviluppò in un moderno ed efficiente Stato-modello. Appoggiò l’idea di una divisione dell’Austria». Insomma, Cavour voleva dividere l’impero asburgico, anziché unificare l’Italia… «Con un’abile politica estera, il regno di Piemonte-Sardegna si guadagnò l’alleanza di Francia, Gran Bretagna e Prussia. L’Austria invece era isolata (…). Quando nonostante ciò rischiò e scese in guerra, le truppe alleate di Francia e Piemone-Sardegna sconfissero l’esercito austriaco, male organizzato, a Magenta e Solferino». 

Un resoconto – dicono gli autori dell’articolo e io condivido– che fa a pugni con i fatti storici: a Magenta e Solferino si combatté perché l’Austria aveva imposto ai piemontesi, assai inferiori militarmente ma alleati alla Francia, di disarmarsi entro tre giorni. L’ultimatum non venne rispettato e gli austriaci attaccarono. A Solferino gli eserciti contrapposti erano pressoché equivalenti, gli Austriaci anzi avevano un’artiglieria più consistente, ma la conduzione tattica dei francesi fu vittoriosa. 

Direte, che c’entra ora il Risorgimento e come lo vedono o rivedono gli austriaci?

C’entra, perché questa rilettura del Risorgimento è molto simile a quella che in Italia appartiene a una – per la verità non qualificata ma diffusa – corrente storiografica per così dire neo-borbonica, che ha il palese obiettivo politico-culturale di suscitare un risentimento contro l’unità d’Italia, completata cento anni fa. Una corrente che ebbe un dignitoso precursore in Carlo Alianello, e che oggi vive grazie a piccoli epigoni che ricostruiscono le vicende del Regno delle Due Sicilie infarcendo i fatti con quelle che oggi si chiamano fake news.

Ricorderete che in Puglia si è tentato di istituire una <giornata della memoria delle vittime meridionali dell’unificazione italiana>. Le quali naturalmente ci furono, come ci furono i patrioti meridionali vittime della repressione dello stato borbonico.

Il problema è, come sempre, quale uso si fa della storia. Che non dovrebbe essere politico o ideologico.

Non mancano, naturalmente, i nostalgici dello Stato Pontificio. Qualche tempo fa mi è capitato di ricordare quali erano le condizioni del Regno del Papa prima dell’Unità. Lo feci citando una lettera scritta nel 1837 al fratello dal futuro cardinale segretario di stato di Pio IX, Giacomo Antonelli, che all’epoca era delegato – cioè capo della provincia – di una delegazione pontificia che è qui vicino a noi, quella di Viterbo. Dove rimase impressionato dalla <orribile miseria che regna dappertutto, specialmente nella classe povera (braccianti)>.

Tutto questo c’entra con il nostro argomento perché la lettura della Guerra Mondiale ha attraversato due fasi storiografiche.

Dopo la vittoria prevale – ed è abbastanza scontato – la lettura retorica che ne esalta il significato patriottico dell’immane sacrificio del popolo. Non solo dei combattenti delle trincee, ma anche dalle loro famiglie, dal cosiddetto fronte interno. Esalta, questa lettura, il senso di completamento del Risorgimento insito nel ritorno alla Patria unita di Trento e Trieste.

Sottace, naturalmente, gli errori militari, e anche le speculazioni che circondarono la produzione bellica, e non solo.

Non dimentichiamo che durante la guerra e nei mesi successivi vigeva la censura militare, come in ogni altro paese belligerante. Per farvi un esempio, il libroKobilek. Giornale di battagliadi Ardengo Soffici, nella prima edizione Vallecchi del 1919, è pieno di pagine bianche tagliate dalla censura.

Non furono invece censurate nel 1916 queste pagine di Renato Serra, giovane intellettuale del circolo della Voce, partito volontario e morto combattendo sul Podgora il 20 luglio 1915. Problematico, il testo di Serra, in verità, a leggerlo tutto:

La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; (…) non vi aggiunge; non vi toglie nulle. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo.  (…)

Sempre lo stesso ritornello. La guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia. (…)

Laggiù in città si parla forse ancora di partiti, di tendenze opposte; di gente che non va d’accordo; di gente che avrebbe paura, che si rifiuterebbe, che verrebbe a malincuore. Può esserci anche qualcosa di vero, finchè si resta per quelle strade, fra quelle case.

Ma io vivo in un altro luogo. In quell’Italia che mi è sembrata sora e vuota, quando la guardavo soltanto; ma adesso sento che può esser piena di uomini come son io, stretti nella mia ansia e incamminati per la mia strada, capaci di appoggiarsi l’uno all’altro, di vivere e di morire insieme, anche senza saperne il perché se venga l’ora. Può darsi che non venga mai: tanto che l’aspettiamo e non è mai venuta!  (…) oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza.

 Siamo comunque molto lontani dalla marinettiana guerra sola igiene del mondo.

Anche se quella sortita di Marinetti va contestualizzata nel clima della Belle Époquee del suo scivolare – a parere del poeta futurista – nel decadentismo.

D’altra parte già nel 1921 usciva il famosissimo Le scarpe al soledi Paolo Monelli sulla guerra degli alpini, che non era certo – come si direbbe oggi – politicamente corretto.

E, per fare un esempio, nel 1935 l’ufficio storico dello Stato Maggiore del Ministero della Guerra poteva tranquillamente pubblicare il diario dell’infermiera volontaria della Croce Rossa Mercedes Astuto, che non nascondeva certo le difficolta:

La mia corsia s’è empita tutta: quaranta letti quaranta operati, un’altra fila di letti anche nel mezzo, quasi tutti addominali e qualcuno cranico. Il lavoro mi spaventa; non ho per aiuto che rozzi piantoni, territoriali passati in sanità, inesperti e taluni niente suscettibili.

Questo per dire che la retorica della Vittoria non impedì la circolazione di riflessioni critiche, neppure durante il governo fascista, al quale si imputa la sacralizzazione della Grande Guerra, che, tuttavia, ci fu anche nella Francia democratica. Come era normale che accadesse.

La retorica prevalse e sarebbe stupido negarlo.

Con il passare dei decenni la retorica rimase ma cambiò segno.

È la fase della rilettura per così dire dal basso della guerra. Protagonisti non sono più i generali e i politici, ma il popolo. Non il popolo dei combattenti delusi che saranno i protagonisti del successo del fascismo. Ma il popolo minuto, con i suoi problemi, le sue paure, i suoi dolori.

Una nuova lettura necessaria, ma che col tempo è sfociata in un rovesciamento della complessa verità storica.

I generali diventano tutti incapaci e felloni. Il popolo non vuole la guerra ma semplicemente la subisce e si arrangia come può. Se si arrivò alla vittoria un anno dopo Caporetto non fu per la capacità di reazione italiana sul Piave, ma per una manciata di reggimenti inglesi. E via di questo passo.

Questi sono i paradigmi prevalenti. Che vengono ammantati di strabordante retorica in un film che molti di voi ricorderanno, e si situa nel filone del cinema neo realista.

È il 1959 quando arriva nelle sale La Grande Guerradi Mario Monicelli, con protagonisti indimenticabili Vittorio Gassman, Alberto Sordi e Silvana Mangano. Un film che si divide ex aequo il Leone d’Oro al Festival di Venezia con il bellissimo Il generale Della Roveredi Roberto Rossellini.

Grande film La Grande Guerra. E grandissime le interpretazioni di Oreste e Giovanni da parte degli attori.

Ma qual è il messaggio?

Oreste e Giovanni sono due tragici soldati da operetta. Non credono in niente. Cercano solo di evitare i pericoli e la fatica. Sono due vigliacchi. Cercano di scappare vestiti con cappotti asburgici. Solo l’esatto contrario del soldato valoroso della retorica prima maniera. Sono anti eroici e si riscattano in qualche modo solo accettando la fucilazione, decidendo di non tradire dopo le offese di un ufficiale austriaco. Un finale per altro controverso. Furono le associazioni d’arma a premere perché i vigliacchi si riscattassero.

Ma fu proprio così o invece la rappresentazione deve essere più articolata?

Sentiamo una testimonianza un po’ sorprendente, quella di Rudyard Kipling, che nel 1917 inviava dal fronte trentino le sue corrispondenze ai giornali inglesi:

Oltre all’immane sforzo richiesto (…) quello che continua a colpire l’osservatore sul fronte italiano, è l’asprezza delle condizioni in cui tutti operano: dall’austerità spartana dell’ufficio del generale Cadorna (…) al più umile dei mulattieri, che bianco di polvere da capo a piedi, ma senza una goccia di sudore in fronte, arranca sugli erti sentieri montani dietro il suo animale.  Si nota un’organizzazione flessibile ed equilibrata al cui servizio tutti si prestano con fervida abnegazione.

Kipling non era al servizio dello Stato Maggiore italiano.

Da una retorica all’altra, forse solo a cento anni di distanza si riesce a dare una lettura equilibrata della Grande Guerra. Anche grazie alle memorie dei soldati. Ormai ne sono state pubblicate migliaia.

E tuttavia il mito della guerra non voluta e solo subita dagli italiani è difficile da superare.

I questi anni del centenario è anche accaduto che in Parlamento sia stata presentata una proposta di legge per la riabilitazione dei disertori.

È un capitolo dolorosissimo. Ne furono fucilati un migliaio.

Vi leggo una testimonianza, di un giovane avvocato combattente sul Carso, Tommaso Petroselli, che fu chiamato a difendere in un processo volante alcuni di loro:

Dei miei difesi, i soldati semplici, furono condannati a vent’anni di carcere, i due graduati alla fucilazione immediata. Sentii mancarmi le forze, mentre i votati alla morte mi si gettarono al collo, implorando che presentassi istanza di grazia alla Regia. Ben sapevo però che in questi casi eccezionali vana era ogni speranza di grazia.

Ci furono, dunque i disertori. Come in tutti gli eserciti. In Francia, per la verità, furono più numerosi. La pena nei loro confronti e nei confronti delle loro famiglie è scontata. Ma una riabilitazione sarebbe a mio parere un’offesa a tutti i soldati che fecero fino in fondo il loro dovere, anche morendo sul campo di battaglia.

È anche accaduto, non più tardi di un anno fa, che qualcuno abbia protestato per la decisione di attribuire a papa Giovanni – parlo di San Giovanni XXIII – il ruolo di protettore dell’Esercito Italiano. Come è possibile – si è detto – che il Papa buono protegga un esercito? Lo si è detto negando il ruolo dei cappellani militari in quella guerra, nella quale operarono per altro anche ministri del culto con le stellette ebrei e protestanti. Si è voluto dimenticare che Giovanni XXIII era stato un cappellano militare e su quella sua opera ha scritto pagine splendide.

Mi fermo qui, ma non prima di avervi letto un’altra testimonianza.

È il 4 novembre 1918. Siamo al Lago d’Ampola, in Trentino.

Alle due fulminea voce. Da soldato a soldato, da baracca a baracca, da vetta a vetta: <Armistizio! Vittoria!>. Poi ancora: <Sul Piave le armate austriache sono in rotta>. I soldati si guardano storditi. Non credono.

Poi s’abbracciano, saltano, gridano, pregano, tacciono, s’appartano, ridono. È una commozione ineffabile che ci prende, ci scuote, c’inebria ed illumina.

Queste parole sono state scritte da un pacato medico militare, non da un esaltato ardito volontario, Filippo Petroselli. Fratello dell’avvocato Tommaso.