Le iniziative per gli anniversari di Ugo Spirito e Renzo De Felice

Nel 2019 ricorrono due anniversari di grande rilievo per la Fondazione e per la cultura italiana. L’8 aprile 1929 nasceva a Rieti lo storico Renzo De Felice, prematuramente scomparso il 25 maggio 1996. Il 28 aprile 1979 moriva a Roma il filosofo Ugo Spirito. La Fondazione è nata nel 1981 intorno alla biblioteca e all’archivio del pensatore aretino ed è stata presieduta da De Felice dal 1992 fino alla scomparsa.

In considerazione di questi anniversari il Consiglio di Amministrazione sta predisponendo un vasto progetto di iniziative, che si potranno svolgere anche grazie alle previsioni della Legge di Bilancio, che ha varato il sostegno a un programma “straordinario di inventariazione, digitalizzazione e diffusione dei fondi librari e archivistici posseduti dalla Fondazione, nonché della promozione di ricerche e convegni per ricordare il pensiero del filosofo e l’opera dello storico”.

A questo fine il Consiglio di Amministrazione ha deliberato la costituzione di un Comitato Scientifico e di un Comitato organizzativo per definire e coordinare le varie iniziative che avranno luogo nel biennio 2019-2020.

Saranno bandite due borse di studio per neolaureati in materia storica e filosofica.
Saranno pubblicati in volume le prefazioni scritte da Renzo De Felice e gli articoli giornalistici di Ugo Spirito.
Sarà completata la pubblicazione del carteggio Spirito-Bottai e di altri inediti del filosofo aretino.
Seminari e convegni su Spirito e De Felice si terranno nel corso del biennio.
Alle iniziative sarà dedicato un portale nell’ambito del sito web della Fondazione. Gli Annali pubblicheranno gli Atti dei convegni.

Il Novecento attraverso i giornali, il caso di Mino Pecorelli

Giovedì 28 marzo 2019 si è tenuto nella sala della Fondazione un incontro sul tema Inchieste, scoop, impegno civile. Il giornalismo di Mino Pecorelli: “Op-Osservatore Politico” 1978-1979.
Ha coordinato Nicola Rao, vicedirettore Tgr Rai, saggista, consigliere d’amministrazione Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. Sono intervenuti Paolo Patrizi, giornalista, già caporedattore di “OP-Osservatore Politico”, e Gianni Scipione Rossi, direttore del Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo e vicepresidente Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.
Il settimanale “OP-Osservatore Politico” fu fondato e diretto dall’avvocato e giornalista Carmine (Mino) Pecorelli (1928-1979). Nato a Sessano del Molise, nel 1944 Pecorelli, appena sedicenne, si arruolò nel II Corpo d’armata polacco in quel periodo attivo nella zona nella guerra contro i tedeschi. Dopo la fine del secondo conflitto mondiale si diplomò a Roma; successivamente si trasferì a Palermo, dove si laureò in legge.
Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta lavorò nella capitale come avvocato. Divenne esperto di diritto fallimentare e fu nominato capo ufficio stampa del ministro Fiorentino Sullo, iniziando così ad entrare nell’ambiente del giornalismo.
Dopo un periodo a “Nuovo Mondo d’Oggi”, nel 1968 Pecorelli fonda “OP” come agenzia di stampa ciclostilata, che si distinse per le informazioni su politici, militari e magistrati, grazie anche alle relazioni del direttore con esponenti dei servizi segreti. All’inizio del 1978 “OP – Osservatore Politico” si trasformò in una rivista. Il primo numero uscì il 28 marzo il sottotitolo “Settimanale di fatti e notizie”. Privo di pubblicità, il settimanale ebbe un notevole successo e arrivò a diffondere in edicola 20mila copie. Fu un giornale di inchiesta e denuncia della corruzione e dei legami tra affari e politica, nel solco dell’antipartitocrazia che si era andata diffondendo con la crisi del centro sinistra.
Gli scoop più rilevanti di “OP” furono le ultime lettere di Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse e un’inchiesta sulle presunte attività illecite di esportazione di valuta e contrabbando condotte dalla Guardia di Finanza sotto il comando del generale Raffaele Giudice. L’assassinio del direttore Pecorelli, avvenuto a Roma il 20 marzo 1979 e rimasto impunito, causò la cessazione della rivista. L’ultimo numero uscì il 27 marzo di quell’anno.
La collezione 1978 della rivista è conservata nell’emeroteca della Fondazione. Disponibile è anche la collezione del settimanale “OP nuovo”, che vide la luce tre anni dopo l’omicidio di Pecorelli, con la direzione di Paolo Patrizi, affiancato da Adelchi Perissinotto, Stefano Rossi e, per un periodo, da Sergio Tè. Fu un’esperienza editoriale di breve durata. Ne uscirono undici numeri (31 marzo-9 giugno 1982).

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L’intervento introduttivo di Nicola Rao

40 anni fa, esattamente il 20 marzo 1979, in via Orazio, quartiere Prati, a due passi dalla sede del suo giornale (via Tacito), 5 km in linea d’aria da questa sala, il giornalista cinquantenne Mino Pecorelli veniva ucciso con 4 colpi di pistola sparati a distanza ravvicinata attraverso il finestrino della sua auto, subito dopo essere salito a bordo.

Oggi ci ritroviamo qui, non per parlare della sua morte ( né delle ipotesi e delle inchieste su mandanti ed esecutori, che purtroppo non hanno ancora accertato nulla) ma per parlare della sua vita. Soprattutto della sua vita professionale. Ci sono delle persone che spesso vengono identificate con un’etichetta, un aggettivo, una definizione che le accompagnano per tutta la vita e oltre. E che vengono ricordate o conosciute con quel marchio perenne. Nel bene e nel male. Io, per cultura, ma anche per formazione e per deformazione professionale, ho sempre diffidato dei luoghi comuni e delle verita’ assiomatiche. Ho sempre coltivato il dubbio e pensato che non sempre le cose stanno come ce le raccontano o come tutti credono. Ecco, Mino Pecorelli è vissuto, morto ed ancora oggi, dopo 40 anni, ricordato con una serie di etichette o definizioni che vengono ripetute e si tramandano di padre in figlio: ricattatore, uomo della massoneria e/o dei servizi segreti, portavoce e portatore di affari e gruppi di pressione e/o interessi. Provocatore e chi più ne ha più ne metta. Gianni ed io, come componenti del cda di una fondazione di ricerca storica sul Novecento, come la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, abbiamo pensato che fosse interessante ed ancora corretto, storicamente e giornalisticamente, provare a scardinare la corazza del luogo comune e vedere se dentro o dietro ci fosse qualcos’altro a proposito di Mino Pecorelli. Ed abbiamo trovato molto altro. In effetti.

Sinteticamente, chi era Mino Pecorelli? Nato in un paesino del Molise nel v1928 ha vissuto tante vite diverse dentro una sola vita, come molti della sua generazione.

Comincia presto ad aggredirla, la vita. Appena quindicenne, lui giovane molisano, ad aggregarsi, come volontario al Secondo Corpo Polacco, comandato dal generale Anders, che combattè a fianco degli inglesi a Cassino, Montelungo e Ancona. Tenete a mente questo episodio, perchè è importante per il suo futuro e ne riparleremo.

Dopo la guerra si laurea in legge, diventa avvocato e contemporaneamente si avvicina agli ambienti dell’allora ministro democristiano Fiorentino Sullo. Anche questa esperienza sara’ importante. Poi la passione prevale sul resto. E nel 67, lascia di fatto l’attività legale per tuffarsi nel giornalismo. Fonda, con altri colleghi, il settimanale ‘Nuovo mondo d’oggi’, il 19 novembre fa il suo primo grande scoop: un’intervista all’ufficiale dei parà Roberto Podestà che sostiene di essere stato incaricato di rapire e uccidere l’allora premier Aldo Moro nel 64 e darne la colpa all’estrema sinistra. Fino a quando, il 20 ottobre 1968, non dà vita ad una nuova testata: l’agenzia settimanale Op. Prima con Franco Simeoni, che come lui veniva da Nuovo Mondo d’Oggi, poi, per qualche mese, con l’ufficiale del Sid, Nicola Falde ed infine con colui che sarà il suo braccio destro, ma anche sinistro, fino alla fine: Paolo Patrizi.

Dal 68 al 78, per dieci anni, Pecorelli invierà ad un migliaio di persone, tra addetti ai lavori e ad abbonati, il ciclostile della sua agenzia, piena di scoop, anticipazioni, retroscena, sul mondo della politica, delle forze armate, dei servizi segreti, dei misteri d’Italia, ma anche della chiesa e della massoneria. Le fonti da cui Pecorelli attinge le notizie sono tante e le più disparate. Ma sono tutte fonti di prima mano e, spesso, di grande spessore.

Vorrei citarne alcune che, a mo’ di esempio, enuclea un atto ufficiale e terzo, come la sentenza di primo grado per il suo omicidio, emessa 20 anni dopo la sua morte. Leggo testualmente: i generali Miceli, Falde e Maletti del Sid, i politici Evangelisti, Bisaglia, Piccoli, colombo, Danesi, Carenini, De Cataldo. Il comandante generale dei Carabinieri Mino. Federico Umberto D’Amato dell’Ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno. I magistrati D’Anna, Alibrandi, Infelisi, Testi. Gli industriali e/o affaristi Walter Bonino e Flavio Carboni. E Inoltre Tommaso D’Addario dell’Italcasse. Ezio Radaelli impresario degli spettacoli, l’avvocato Gregori, gli alti ufficiali dei carabinieri Antonio Varisco e Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Certo, ci sono stati e ci saranno sempre giornalisti politici che hanno rapporti privilegiati con fonti della politica, giornalisti investigativi e giudiziari che ne hanno con fonti dei servizi, forze ordine e magistratura, giornalisti economici con imprenditori e vertici di aziende e banche. Ma che un solo giornalista riesca ad intessere rapporti e ad attingere notizie da tutti questi mondi non ne ricordo a memoria. Forse il solo Bruno Vespa, che infatti, nei suoi libri annuali recupera episodi e retroscena, ma Pecorelli ogni settimana usciva con pagine e pagine di notizie e indiscrezioni continue, un esempio secondo me unico nel panorama giornalistico italiano.

I rapporti con il mondo militare e dei servizi aveva cominciato a crearseli durante la sua esperienza militare durante la guerra. Quelli con il mondo politico e democristiano durante la sua avventura con Fiorentino Sullo. Ma poi questi rapporti li aveva ampliati ed estesi a dismisura.

Brevemente, nel marzo 78, in coincidenza casuale ma inquietante con via Fani, Pecorelli decide di passare dall’agenzia per abbonamenti al settimanale cartaceo da vendere in edicola. A 500 lire a numero. Quasi 60-70 pagine, con tanto di cruciverba finale ed indice dei nomi citati, come se fosse un libro.

Il caso Moro, la strage di via Fani, i 55 giorni della sua prigionia, la sua morte il 9 maggio, saranno il perno attorno a cui ruoterà, fino alla fine l’avventura di Op e di Mino Pecorelli. Il giornalista ne era ossessionato. Capiva e scriveva che dopo quella vicenda, nulla sarebbe stato più come prima. La Democrazia Cristiana, il Palazzo, i sistemi e i gruppi di potere, quella che sarebbe poi passata alla storia come Prima Repubblica, ne avrebbero risentito in maniera devastante e irrimediabile.

Durante i 55 giorni, Pecorelli si schiera con il Psi per la trattativa con le Br. Il 18 aprile primo scoop, copertina con la frase ‘’Il mio sangue ricada sulle teste di Cossiga e Zaccagnini’’ (lettera rimasta segreta, inviata da Moro al professor Tritto l’8 aprile). Poi, dopo il ritrovamente del cadavere del presidente della Dc, comincia a pubblicare scoop. Il 13 giugno pubblica 3 lettere inedite del presidente. Il 1 ottobre, arrestati vertici Br via Montenevoso e trovato parte del memoriale Moro.

Poi il 17 ottobre 1978 nella rubrica lettera al direttore pubblica una strana missiva, di cui non cita il mittente, che recita cosi: ‘’Signor direttore, permetta un piccolo scritto ad un suo affezionato lettore, che dopo l’estate si è posto una domanda: Cossiga sa tutto su Moro ma non parla. E si è risposto da solo: Non parlerà mai, altrimenti…’’.

E più avanti: <Cossiga sapeva tutto, sapeva persino dov’era tenuto prigioniero., dalle parti del ghetto…(ebraico). Dice: il corpo era ancora caldo… Perché un generale dei Carabinieri era andato a riferirglielo di persona nella massima segretezza. Dice: perché non ha fatto nulla? Risponde: il ministro non poteva decidere nulla su due piedi, doveva sentire più in alto, e qui sorge il rebus: quanto più in alto, magari sino alla loggia di Cristo, in Paradiso? Fatto sta, si dice, che la risposta il giorno dopo, quando la sentenziò, fu lapidaria: abbiamo paura di farvi intervenire perché se per caso a un carabinieri parte un colpo e uccide Moro oppure i terroristi lo ammazzano, chi se la prende la responsabilità ? Risposta da prete.

E poi: <Ci sarà solo da immaginare, caro direttore, chi sarà l’Anzà della situazione. Ovvero quale generale dei Cc avrà trovato suicida o morto per veleno (Borghese docet) o in un incidente a Ibiza…

E si conclude: <E se toccasse proprio al ministro? Speriamo di no. Ci è simpatico e poi è il cognato di Berlinguer e l’epoca di Sarajevo è un po’ lontana, non le pare? Purtroppo il nome del generale Cc è Noto: amen. Il fatto è vero, che ne pensa, uscirà  allo scoperto o no?>.

E in apertura dello stesso numero lungo pezzo pro Dalla Chiesa dal titolo: <perché solo adesso? Dalla Chiesa si presenta: arrestati probabili autori del sequestro Moro. Lodi dalla stampa le felicitazioni dal governo. Un solo interrogativo: perché solo ora e non durante il sequestro Moro?>. Del resto, tutto fa ritenere che fosse stato lo stesso Dalla Chiesa la ‘fonte anonima’ della lettera non firmata e che il generale dei Carabinieri, citato come ‘Amen’, fosse lo stesso Dalla Chiesa.

E proprio in questi giorni di ottobre, accanto ad altri giovani colleghi, entra in scena anche un giovane aspirante giornalista, Gianni Scipione Rossi. Che comincia a collaborare con la redazione di via Tacito.

 

Giuseppe Pardini, Prove tecniche di rivoluzione (Luni Editrice, Milano 2018)

 

Mercoledì 20 marzo, alle ore 17.30, nella Sala della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, in piazza delle Muse 25, è stato presentato il volume di Giuseppe Pardini, Prove tecniche di rivoluzione. L’attentato a Togliatti, luglio 1948, Luni Editrice, Milano 2018.

Alla presentazione sono intervenuti oltre all’autore:

Giuseppe Parlato, ordinario di Storia contemporanea nella Unint di Roma, presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice;

Giovanni Cerchia, professore associato di Storia contemporanea all’Università degli Studi del Molise.

Le giornate successive all’attentato compiuto da un giovane nazionalista contro Palmiro Togliatti, segretario generale del Partito comunista italiano, il 14 luglio 1948, misero in serio pericolo la tenuta del nuovo sistema democratico, ad appena tre mesi dall’avvio della prima legislatura repubblicana. Lo sciopero generale a tempo indeterminato proclamato dalla Cgil e le forti manifestazioni di protesta inscenate dai partiti del Fronte democratico popolare parvero creare un clima insurrezionale in diverse zone del Paese, preludio a una conquista violenta del potere da parte del Pci. Ma il governo di De Gasperi seppe reggere molto bene l’urto, e la dura contrapposizione, anche per un sagace intervento delle forze dell’ordine, scemò nelle 48 ore successive in un niente di fatto, lasciando tuttavia la situazione nazionale ancora in una grande incertezza politica e sotto l’incubo di una ipotetica insurrezione (il fantomatico «piano K») ad opera di quella struttura illegale che veniva definita Apparato paramilitare comunista. Il volume analizza le vicende connesse ai moti del 14-17 luglio 1948 alla luce di una nuova e ampia documentazione inedita, proveniente dal ministero degli Interni e, soprattutto, dal ministero della Difesa, e utilizza, per la prima volta, le importanti carte degli uffici di informazione dello Stato maggiore dell’esercito. Tale documentazione (che in virtù della sua rilevanza viene riprodotta diffusamente) permette di ricostruire molti di quegli avvenimenti in maniera assai diversa da quanto fatto sinora, di analizzare nel dettaglio territoriale le prospettive strategiche dell’insurrezione comunista e di aprire ulteriori interrogativi sulla prassi politica del partito di Togliatti e su altri nodi irrisolti dei primi complessi anni dell’Italia repubblicana.

Giuseppe Pardini, professore associato di Storia contemporanea all’Università degli Studi del Molise (Campobasso), insegna anche Storia dei movimenti e dei partiti politici e Storia del giornalismo. Socio dell’Accademia Pugliese delle Scienze (Bari) e dell’Accademia Lucchese di Scienze Lettere e Arti (Lucca), ha pubblicato i libri Roberto Farinacci ovvero della rivoluzione fascista (Le Lettere, 2007); Fascisti in democrazia. Uomini, idee, giornali, 1946-1958 (Le Lettere, 2009); Nazione, ordine e altri disegni. Vicende politiche nella destra italiana, 1948-1963 (Le Lettere, 2011); Quel che pensava e diceva la gente. Della guerra dell’Italia e della Marina militare nella censura postale, 1940-1945 (dell’Orso, 2015); Mussolini e il grande impero. L’espansionismo italiano nel miraggio della pace vittoriosa, 1940-1942 (dell’Orso, 2016) e per Luni Editrice, Curzio Malaparte, biografia politica (1998).

Presentazione del volume “MACEO CARLONI”- Storia e Politica”

Presentazione del volume
“MACEO CARLONI”- Storia e Politica”

di Fabrizio Carloni,Stefano Fabei,Danilo Sergio Pirro e Vincenzo Pirro

Interverranno:

Rodolfo Sìderi, storico
Marco Petrelli , giornalista.
D.S.Pirro – .Presidente dell’Ass. Amici della Fondazione Spirito-De Felice di Terni

VENERDI’ 29 MARZO ore 18.30 – presso la Libreria HORAFELIX
Via Reggio Emilia, 89 – ROMA (zona Porta 


Nel saggio viene descritta la vicenda storica e umana di Maceo Carloni sindacalista fascista, operante all’interno dei consigli di fabbrica della Soc. Terni negli anni ’40. Il Carloni dopo la caduta del Fascismo diventa uno degli obbiettivi da eliminare da parte dei partigiani. Viene assassinato, senza un movente, nel maggio del 1944 a pochi metri dalla casa in cui era sfollato.

 

Giovanni Paoloni, Roberto Reali, L. Ronzon (a cura di) I “primati” della scienza

 

Giovedì 7 marzo 2019, alle ore 17.30, nella Sala della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, in piazza delle Muse 25, è stato presentato il volume I «primati» della scienza. Documentare ed esporre scienza e tecnica tra fascismo e dopoguerra, a cura di Giovanni Paoloni, Roberto Reali, L. Ronzon, Hoepli, Milano 2019.

Alla presentazione sono intervenuti:

Giuseppe Parlato, ordinario di Storia contemporanea nella Unint di Roma, presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice;

Giovanni Paoloni, è docente di Archivistica generale presso la Facoltà di Filosofia, Lettere, Scienze Umanistiche e Studi Orientali alla Sapienza Università di Roma, direttore della Scuola di Specializzazione in Beni archivistici e librari nello stesso Ateneo. È autore di numerose pubblicazioni sulle vicende storiche delle imprese e delle istituzioni di ricerca scientifica in Italia, dall’Unità al secondo dopoguerra.

Roberto Reali, tecnologo al CNR, afferisce al Dipartimento di Scienze bio-agroalimentari per gli studi sul Paesaggio agrario. Docente all’Università di Tor Vergata e alla Sapienza di Roma presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale.

Il volume raccoglie i risultati delle ricerche condotte sulla “Raccolta Documentaria dei Primati Scientifici e Tecnici Italiani”: documenti, oggetti, materiale bibliografico e giornalistico raccolti dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) per la partecipazione dell’Italia all’Esposizione Universale di Chicago “A Century of Progress” del 1933. La raccolta, voluta da Mussolini e Guglielmo Marconi, rappresenta, per l’importanza dei protagonisti coinvolti, il contributo ideale della scienza e della tecnica italiane nel mondo e il loro ruolo durante il regime fascista. Un’occasione importante per il governo del tempo, impegnato a promuovere il CNR come soggetto coordinatore della politica della ricerca scientifico-tecnologica, al servizio della modernizzazione. La “Raccolta Documentaria” dà origine nel 1937 a un Museo delle Scienze all’interno del nuovo palazzo del CNR a Roma e trova infine la sua definitiva collocazione, a partire dagli anni Cinquanta, nel Museo della Scienza e della Tecnica di Milano, dove perde la connotazione originale e assume nuovi significati. Riflettere sulle vicende di questo patrimonio e sull’immagine pubblica della scienza nel Ventennio può contribuire a guardare a questa rappresentazione in senso meno retorico e più storico, con una prospettiva che vada oltre le categorie autocelebrative dei “primati nazionali” o del “pantheon della scienza” e abbracci nuovi percorsi interpretativi.

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Petra Di Laghi, Da profughi ad esuli, (Edizioni Accademiche Italiane, Genova 2018)

 

Mercoledì 13 febbraio 2019, alle ore 17.30, nella Sala della Fondazione, è stato presentato il volume di Petra Di Laghi, Da profughi a esuli. L’esodo Giuliano-dalmata tra cronaca e memoria, Edizioni Accademiche Italiane, Genova 2018.

Con l’autrice sono intervenuti:

Giuseppe Parlato, ordinario di Storia contemporanea nella Unint di Roma, presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice;
Marino Micich, segretario generale della Società di Studi Fiumani;
Lorenzo Salimbeni, ricercatore storico.

Tra la fine della seconda guerra mondiale e la seconda metà degli anni Cinquanta la comunità italiana dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia lascia le sponde dell’Altro Adriatico, spinta a tale scelta da un complesso di ragioni psicologiche, sociali, culturali, politiche ed economiche in seguito all’assegnazione di quelle terre alla federazione jugoslava. Nella storiografia e nella memoria italiana tale fenomeno assunse la denominazione di “esodo giuliano-dalmata”, un flusso continuo di partenze che si protrassero per circa un decennio riversando i profughi giuliano-dalmati per la maggioranza in Italia, oltre che all’estero.
Questa ricerca oltre a fornire una panoramica delle vicende storiche che interessarono i territori della Venezia Giulia (sia in chiave storiografica sia attraverso l’analisi della stampa periodica e dell’opinione pubblica italiana), approfondisce il tema dell’accoglienza e dell’assistenza offerta ai profughi giuliano-dalmati nella società italiana del secondo dopoguerra, analizzando nello specifico il programma assistenziale che la città di Genova attivò nei loro confronti nel periodo compreso tra il 1945 e il 1955.

Petra Di Laghi nata a Genova il 23 maggio 1992, dove, dopo aver conseguito la maturità classica, intraprende gli studi universitari e nel novembre 2014 si laurea al corso triennale di Storia presso l’Università degli studi di Genova. Continua la formazione universitaria iscrivendosi al corso magistrale di Scienze storiche dell’Università degli studi di Torino, dove il 12 luglio 2017 si laurea a pieni voti con la tesi L’esodo giuliano-dalmata tra emergenza e accoglienza: il caso di Genova (1945-1955). Dopo la laurea, si iscrive nell’ottobre 2017 al Master in Comunicazione storica presso l’Università di Bologna e nell’aprile 2018 pubblica il suo primo libro dal titolo Da profughi ad esuli: l’esodo giuliano-dalmata fra cronaca e memoria.

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Giorno del Ricordo: al Quirinale la prolusione di Giuseppe Parlato

Il 9 febbraio 2019 il presidente della Fondazione Giuseppe Parlato ha tenuto una prolusione alla cerimonia ufficiale per il Giorno del Ricordo al Quirinale.

 

Il testo della prolusione

La celebrazione del Giorno del Ricordo non è soltanto un fatto rituale: infatti esso ha avuto diversi aspetti positivi. Il più importante fra tutti è una prima conoscenza del dramma delle foibe e dell’esodo nelle scuole e nelle università. Se ciò succede il merito va tutto al ruolo istituzionale  che da tre lustri il Giorno del Ricordo ha avuto, il quale non ha nulla – checché i suoi detrattori affermino – di rivendicativo, di nostalgico, di rancorosamente divisivo.
Visto nella sua giusta luce e nella ratio che vide convergere allora il voto favorevole della stragrande maggioranza delle forze politiche, esso si qualifica come un evento fondato su due momenti.
Il primo è il ricordo, la considerazione delle vittime e degli esuli, di coloro i quali scelsero di restare italiani; una vicenda ancor più pesante nella memoria di ciascuno e di tutti perché negata per ben oltre mezzo secolo e quindi ferita aperta e dolorante nella storia della comunità nazionale.
Il secondo momento è quello della storia e quindi la necessità della conoscenza, dell’approfondimento, della ricerca della verità a tutti i livelli.
Per molto tempo, foibe ed esodo, nella migliore delle ipotesi, sono state confinate a storia locale, drammatica, forse, ma pur sempre di confine e, come tale, confinata tra le vicende tristi ma non così rilevanti per la storia nazionale o europea.
Invece occorre spiegare ai giovani che si tratta di una storia che ha provocato una grave ferita a tutto il tessuto nazionale, a una comunità già sofferente per la guerra, che ha avuto diverse migliaia di morti quando già l’Italia era uscita dal conflitto, proiettando un’ombra lunga sul dopo che in realtà si è chiamato esodo. E l’esodo, a dimostrazione che si trattava di una storia italiana e non locale, si è esteso, nelle sue conseguenze a tutta Italia, e anche oltre Oceano. Ne sono testimonianza gli oltre cento campi profughi sparsi da Torino ad Alghero, da Taranto a Trieste, da Latina e da Roma fino alla Sicilia. E in tutte le regioni, altri italiani hanno conosciuto famiglie italiane di profughi. E spesso, questi profughi, che erano fuggiti dalla dittatura jugoslava inseguiti dall’epiteto di “fascisti”, in Italia venivano additati talvolta come “slavi”, come stranieri, più spesso come fascisti.
Una storia italiana, quindi, fatta di solidarietà umana– tanti sono i racconti che lo testimoniano – ma anche di odio politico, e anche in questo caso vi sono tante pagine a ricordarcelo, da parte di chi non  tollerava che qualcuno fosse fuggito dal presunto paradiso del popolo.
Ma questa è anche una storia di lungo periodo. E’ abitudine contestualizzare le vicende accadute nell’Adriatico Orientale collocandone le origini nel periodo successivo alla fine della prima guerra mondiale. Certo, lo scontro fra nazionalismi da un lato e l’ideologia e la prassi del comunismo titino dall’altro hanno determinato questa tragedia.
Ma per ben comprenderla occorre ricordare che queste vicende affondano le loro radici nell’Ottocento, nello scontro tra nazionalità che un impero multinazionale favoriva. Non solo. La secolare presenza italiana in Istria, in Dalmazia, a Fiume e nella Venezia Giulia testimonia come la nazionalità italiana  fosse presente anche senza bisogno di uno Stato. Per secoli gli abitanti di quelle terre, così come chi abitava la Penisola, si sono sentiti italiani ben prima che esistesse l’Italia.
Per costoro Italia significava potere parlare la lingua dei padri, potere riconoscere le proprie radici nella fede, nella cultura, nei monumenti. Italia, in altri termini voleva dire autonomia culturale, identità e appartenenza che non si trasformavano in nazionalismo ma rappresentavano il diritto di esprimersi in una lingua che da Dante in poi aveva caratterizzato questa parte di mondo.
Ecco perché questa vicenda è paradigmatica per comprendere anche la natura della identità culturale italiana, formatasi nel Risorgimento mazziniano, nel rispetto delle identità altrui, senza venire meno alla propria ma senza pensare che la propria debba schiacciare le altre.
La storia deve diventare la protagonista di questa tragedia per contribuire a fare luce sulle tante pagine strappate. Si è prima accennato alla strage di Vergarolla. Siamo nell’estate del 1946, l’Italia è da due mesi Repubblica e questa spiaggia vicino a Pola era ancora, formalmente, territorio italiano. Le vittime accertate di questa tragedia nella tragedia sono “solo” 64 o 65. Ma pare che a causa dei corpi straziati e irriconoscibili il numero possa arrivare a cento. Forse di più. Ci sono ipotesi sulle cause della strage ma la verità è che finché non vedremo bene le carte della ex Jugoslavia non sapremo molto di più. Finora l’evento è stato tramandato dai superstiti e dai loro figli che ne hanno parlato in libri, documenti, testimonianze. Ma la storia ha bisogno di altro. Ha bisogno che gli archivi si aprano anche all’estero, che i documenti raccontino, che gli strumenti della metodologia della ricerca storica si mettano a disposizione di questa enorme tragedia che deve diventare storia anche grazie alle istituzioni dello Stato, che possano favorire la consultazione dei documenti a livello internazionale. Affinché queste vicende trovino spazio nei manuali scolastici, siano oggetto di dibattiti scientifici, senza pregiudizi ideologici, senza barriere e senza demonizzazioni.
Credo che questo noi dobbiamo alle vittime. Quando, fra cento anni, anche i discendenti degli esuli saranno scomparsi e con loro quel pathos che fortunatamente ci hanno tramandato, che cosa resterà della memoria se la storia non avrà fatto la sua parte?

La Fondazione a Todi per il Giorno del Ricordo

Il 10 febbraio del 1947, con la firma trattati di pace di Parigi, l’Italia perdeva l’Istria, la Dalmazia e gran parte della Venezia Giulia. La stessa Trieste tornò a essere italiana solo del 1954. Il 10 febbraio è stato scelto nel 2004 come data simbolica nella quale celebrare come solennità civile il “Giorno del Ricordo”, con l’intento di conservare vittime delle foibe, dell’esodo degli istriani, dei fiumani e degli zaratini italiani dalle loro terre durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. Nel biennio 1943-1945 migliaia di italiani – solo perché tali – furono massacrati dai partigiani jugoslavi e gettati nelle doline carsiche chiamate foibe.  Dopo la fine della guerra e fino al 1960 ebbe luogo il doloroso esodo di centinaia di migliaia di italiani che scelsero di ricominciare a vivere in Patria piuttosto che rimanere oppressi dal regime comunista del maresciallo Tito.

Questi drammatici eventi sono da anni oggetto di studio e riflessione. Con il patrocinio e il sostegno del Comune di Todi e la collaborazione del “Comitato 10 Febbraio”, la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice organizza nella città umbra, un evento rivolto alla cittadinanza e in particolare agli studenti, con il titolo “Dighe ai morti che no dimentichemo”. L’iniziativa si terrà sabato 9 febbraio, alle ore 10.00, nella Sala del Consiglio dei Palazzi Comunali.

Intervengono Michele Pigliucci, docente di Geografia economica e politica nell’Università di Sassari e direttore della Fondazione, Raffaella Rinaldi, coordinatore “Comitato 10 Febbraio” Umbria. L’ex sindaco di Orvieto Toni Concina porterà la sua testimonianza di esule da Zara. L’attore Giuseppe Abramo curerà alcune “letture dall’esodo”. Introducono il sindaco di Todi Antonino Ruggiano e l’assessore alla Cultura Claudio Ranchicchio. Coordina Gianni Scipione Rossi, giornalista e storico, vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice e direttore del Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo.

A Todi la Giornata della Memoria

Il 27 gennaio 1945 furono aperti i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz. È la data simbolica scelta dall’Onu per ricordare l’Olocausto del popolo ebraico durante la seconda Guerra Mondiale. Nella Giornata della Memoria 2019 la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, con il patrocinio e il sostegno del Comune e la collaborazione e della Associazione Italia-Israele di Perugia, ha organizzato a Todi una giornata di riflessione dedicata alla cittadinanza e in particolare agli studenti. Nel gennaio del 1939 gli italiani di religione israelitica e di origine ebraica cominciarono a subire le conseguenze delle “leggi razziali” varate tra il novembre e il dicembre 1938, dopo l’espulsione ragazzi e degli insegnati ebrei dalle scuole, disposta nel settembre precedente. Per questo l’incontro è stato intitolato “Dalla discriminazione alla persecuzione”. L’iniziativa si è svolta sabato 26 gennaio 2019 nella Sala del Consiglio dei Palazzi Comunali di Todi. I lavori sono stati introdotti dal Sindaco Antonino Ruggiano e dall’Assessore alla Cultura Claudio Ranchicchio. Hanno tenuto relazioni la storica Ester Capuzzo, ordinario di Storia contemporanea nella Sapienza Università di Roma, sul tema “Gli ebrei italiani dall’emancipazione alle leggi razziali”; l’antropologa Maria Luciana Buseghin, presidente della Associazione Italia-Israele di Perugia, sul tema “L’Umbria ebraica, storie e personaggi verso la discriminazione”; il giornalista e storico Gianni Scipione Rossi, vicepresidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice e direttore del Centro Italiano di Studi Superiori per la Formazione e l’Aggiornamento in Giornalismo Radiotelevisivo, sul tema “Gli intellettuali italiani tra l’indifferenza e mobilitazione razzista”.

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L’intervento introduttivo di Gianni Scipione Rossi

La Giornata della Memoria, che cade domani 27 gennaio, è la data simbolica scelta a livello internazionale perché in quel giorno del 1945 furono aperti i cancelli del campo di concentramento e sterminio nazista di Auschwitz, in Polonia.

Abbiamo scelto come titolo di questo “Dalla discriminazione alla persecuzione” perché non possiamo dimenticare o sottacere che ottanta anni fa, in Italia, cominciarono ad essere applicate nel concreto le cosiddette leggi razziali varate tra il novembre e il dicembre del 1938. Nelle scuole si era cominciato prima, a settembre, quando studenti e professori ebrei furono espulsi. Per gli italiani ebrei cominciò la fase della discriminazione. Nell’ottobre del 1943 si passò alla fase della persecuzione. Si pensi al 16 di quel mese, quando mille ebrei romani furono deportati in Germania.

Giornata della Memoria, dunque, della Shoah, dell’Olocausto ebraico, ma che va inquadrato in un contesto più generale. Di fronte a quel che è accaduto – sei milioni di persone scientificamente eliminate dal regime nazista – ci si chiede sempre – o almeno io me lo chiedo – come sia potuto accadere.

So che questi discorsi stancano. C’è fatalmente qualcosa di retorico nella narrazione di questi giorni. Sui giornali, alla radio, alla televisione. Ci si è anche chiesti spesso se non abbiano un effetto contrario, se non annoino invece che fare riflettere. Spero di no, ovviamente, anche se su questo c’è stato e c’è un largo dibattito.

Nel 2014 la giornalista e scrittrice torinese Elena Loewenthal pubblicò per Einaudi un piccolo libro urticante: Contro il giorno della memoria. Una dolente provocazione intellettuale, direi. Ma non solo.

Scrisse Elena Loewenthal: <Io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica: è soltanto la avvilente consapevolezza di una distanza minima, ma insormontabile. Io che sono nata poco dopo che tutto era finito, che sono vissuta circondata da quel passato, da quei ricordi – per lo più pestati sotto il tallone del silenzio, non per rimuovere quel passato, ma perché per tornare a vivere era fondamentale non lasciarlo parlare, almeno per un po’ di tempo – so per certo un’unica cosa, di quella memoria: che non potrò mai nemmeno lontanamente sentire quello che ha sentito chi è stato dentro quel tempo, quelle cose. Malgrado la mia vicinanza estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di una distanza minima, ma insormontabile> [p. 90]. Sono le considerazioni conclusive con cui Elena Loewenthal chiude Contro il giorno della memoria, un testo di riflessione sul senso del “Giorno della memoria” (che lei chiama, come un prodotto di consumo, GdM) e sui motivi per cui quel giorno, in quella forma, con quel tipo di cerimoniale, non la riguarda, né desidera essere coinvolta.

Io capisco il punto di vista di Elena, ma per me è facile. Non sono ebreo e quella tragedia l’ho studiata senza per fortuna averla del mio bagaglio psicologico personale. Il rischio è invece quello di dimenticare.

La senatrice a vita Liliana Segre lo ha sottolineato qualche giorno fa, il 15 gennaio: <Sarà così, la Shoah si dimenticherà, la storia è sempre cosi>.

Qualche giorno dopo, il 21 gennaio, accompagnando gli studenti in Polonia, un’altra sopravvissuta, Andra Bucci, ha detto che sarebbe meglio ricordare ogni giorno piuttosto che concentrare tutto in una giornata o in una settimana, quasi per lavarsi la coscienza. Anche qui, capisco, ma è meglio una settimana di niente. Perché penso che questo accadrebbe.

C’è anche un altro rischio. Lo ha segnalato il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni in un convegno a Roma, il 18 dicembre 2018.

Questo il resoconto di “Shalom”: <Rav Di Segni ha espresso preoccupazione per un fenomeno che appare in crescita e distante anni luce da un lavoro di Memoria viva e consapevole. E cioè il radicarsi di quello che ha definito “Shoahismo”. Una religione vera e propria, con i suoi luoghi e con i suoi templi. Tappe imprescindibili per chi ha a cuore la Memoria ma che – ha osservato – non possono diventare l’ancoraggio unico della propria identità. “L’ebraismo, che è una identità viva, per alcuni è soltanto un cimitero. Tutto ciò – ha detto – è patologico”>.

È anche questo è un tema centrale, non nuovo. Spesso si è detto che a molti piacciono gli ebrei morti, non quelli vivi. E questo aprirebbe un largo dibattito sull’antisemitismo e l’antisionismo persistenti, che esistono purtroppo fra noi. Non è vero che la storia non possa ripetersi. Lo fa in maniera diversa, ma può accadere. Per questo ogni volta che sento battute antisemite o antisioniste, quando vedo certi striscioni negli stadi, quando vedo svastiche sui muri delle scuole… o leggi riferimento a quel falso storico che furono i Protocolli dei Savi di Sion– come è accaduto in questi giorni – io mi preoccupo. Molto.

Per questo penso che sia giusto ricordare, avere memoria di quel che è accaduto.

La Fondazione il 25 gennaio a Spaziolibero Tv – Rai3

Il 25 gennaio 2019 la Fondazione è stata ospite della rubrica televisiva di “Rai Parlamento” Spaziolibero (Rai Tre). In studio il presidente Giuseppe Parlato e il vicepresidente Gianni Scipione Rossi hanno illustrato le iniziative per l’ottantesimo anniversario delle leggi razziali del 1938 e l’attività culturale in programma. Ha condotto in studio Annamaria Baccarelli.