Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta nella storia italiana

Dino Messina, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta nella storia italiana, Solferino, Milano 2019

Dopo decenni di colpevole oblio, accompagnato da un negazionismo strisciante, anche grazie all’istituzione del Giorno del Ricordo la bibliografia sul dramma delle foibe e sull’esodo giuliano-dalmata è ormai rilevante e attendibile, al di là della memorialistica e della letteratura. Di quegli eventi così tragici e complessi del Novecento italiano si indagano e si portano alla luce anche vicende particolari che contribuiscono a chiarire il quadro d’insieme. Un quadro che opportunamente ricostruisce Dino Messina in questo saggio, appassionato e coinvolgente senza perdere il necessario rigore storiografico. Il suo viaggio parte dal Magazzino 18, nel Porto Vecchio di Trieste, che raccoglie le masserizie degli esuli che nessuno ha reclamato: <Duemila metri cubi di storia, di memorie> (p. 9).

Il racconto si snoda poi nella ricostruzione del contesto politico e militare in cui il dramma si è sviluppato, dopo l’8 settembre del 1943, quando i partigiani comunisti di Tito avviano con le prime stragi in Istria il lungo percorso che mira a cancellare, in un modo o nell’altro, la storica presenza italiana da quelle terre di confine. Un progetto di pulizia etnica che il ministro degli esteri di Tito, Josip Smodlaka, esplicita nel settembre del 1944 su “Nuova Jugoslavia”, rivendicando all’ex Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni una regione amplissima, che avrebbe dovuto comprendere parte del Friuli, Gorizia, Monfalcone, ovviamente Trieste, l’Istria, Fiume, Cherso, Lussino, Zara, sulla base del falso principio della prevalenza demografica slava sull’elemento italiano.

Messina illustra bene, oltre agli errori compiuti dal fascismo, le tre fasi in cui si sviluppa il dramma di quegli italiani, dai primi eccidialle varie tappe dell’esodo, agli anni nei campi profughi. E, attraverso testimonianze toccanti, lo spaesamento che li coglie quando, rinascendo per la seconda volta italiani, comprendono di essere accolti con distacco, imbarazzo e sospetto, come se la loro stessa esistenza fosse una colpa. La colpa, naturalmente, di essere presunti fascisti, mentre per i programmatori delle stragi e della pulizia etnica <non importava se chi indossava la divisa non era un fascista, anzi con il rischio della vita era passato nel fronte antifascista. Per non essere considerato “nemico del popolo” bisognava aderire al progetto di società socialista e nello stesso tempo appoggiare le pretese territoriali della nuova Jugoslavia> (p. 161). Come peraltro dimostrò, nel febbraio del 1945, la strage di Porzȗs.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

1948. Gli italiani nell’anno della svolta

Mario Avagliano, Marco Palmieri, 1948. Gli italiani nell’anno della svoltail Mulino, Bologna 2018//

Il  gennaio del 1948 entra in vigore la Costituzione della Repubblica Italiana. Frutto di un laborioso compromesso tra le forze politiche che avevano partecipato al Comitato di Liberazione Nazionale e ai primi governi dopo il periodo badogliano, rappresenta simbolicamente una svolta definitiva nella storia nazionale. Il 2 giugno del 1946 era stata eletta l’Assemblea Costituente e, con il referendum istituzionale, dal sistema monarchico si era passati a quello repubblicano. Dopo le presidenze del Consiglio di Ivanoe Bonomi e Ferruccio Parri la guida del governo era stata assunta dal leader democristiano Alcide De Gasperi. La fase transitoria della Repubblica si era conclusa. Le prime elezioni politiche furono dunque fissate per domenica 18 e lunedì 19 aprile. <Sono state un passaggio epocale – sottolineano Avagliano e Palmieri -, dall’esito tutt’altro che scontato> (p. 7). Se invece del blocco moderato e filo-occidentale avesse prevalso il blocco socialcomunista, l’Italia avrebbe imboccato una strada tutt’affatto diversa, che è anche difficile immaginare.

Al termine di <quella che può essere considerata la più accesa campagna elettorale della storia nazionale> (p. 7), l’Italia entrò a pieno titolo e senza dubbi, nel clima internazionale della “guerra fredda”, nell’area geopolitica liberaldemocratica, pur inaugurando la sua specifica anomalia politica, e cioè la presenza di un forte Partito Comunista, che nei fatti impedì l’alternanza tra due formazioni contrapposte, dando vita alla cosiddetta democrazia bloccata. Una anomalia che ha condizionato i decenni successivi. Ma in quale clima, con quali strumenti, con quali aspirazioni il popolo italiano visse lo scontro epocale del 18 aprile? A questi interrogativi rispondono gli autori in maniera esauriente ed efficace grazie a grande lavoro di scavo negli archivi pubblici e privati, utilizzando documenti, memorie, interviste, lettere. Ne deriva una densa e in qualche modo affascinante fotografia di un’epoca lontana, contrassegnata da scontri ideologici oggi impensabili. L’esito del 18 aprile non era già scritto, nonostante il sostegno americano e l’impegno della gerarchia cattolica a favore della coalizione centrista.

In quest’ottica, ampio spazio è giustamente dato all’attentato del 14 luglio contro il leader comunista Palmiro Togliatti. Il clima sociale e politico divenne incandescente. Una crisi generale, se non la rivoluzione, sembrò imminente. Ma Togliatti, il Pci e l’Unione Sovietica volevano realmente trasferire l’Italia nel blocco moscovita? E che cosa sarebbe avvenuto sul piano internazionale? E, soprattutto, come vissero questo momento gli italiani? Certo è che la Dc e i suoi alleati centristi furono in condizione, superata la crisi, <di avviare nel concreto la ricostruzione materiale, economica, sociale, politica e culturale del paese, sulla base dei valori del proprio mondo di riferimento> (p.367). Una storia che ha i colori del dramma, raccontata con rigore scientifico e grande maestria.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

Il populismo latinoamericano e la crisi della democrazia europea

Pasquale Serra, Populismo progressivo. Una riflessione sulla crisi della democrazia europeaCastelvecchi, Roma 2018

Sia pure senza fare esplicito cenno a neo-sovranismi e neo-populismi pentastellati, l’autore ritiene che i caratteri dell’attuale crisi politica italiana ed europea siano difficilmente comprensibili attraverso l’uso delle consolidate categorie destra-sinistra. L’emergere prepotente di nuovi soggetti trasversali al consolidato confronto-scontro tra le tradizioni socialiste e liberaldemocratiche – pur nelle distinzioni note all’interno dei due schieramenti – lo convince che occorrano nuovi strumenti di analisi. O meglio, strumenti che già in realtà esistono e terreni che sono già stati dissodati nei decenni passati attraverso l’analisi del nazional-populismo latinoamericano e, in specie, del peronismo argentino. L’invito è dunque quello di rileggere criticamente in particolare i lavori del sociologo Gino Germani (1911-1979) e del filosofo postmarxista Ernesto Laclau (1935-2014).

Come si sa, semplificando, per l’antifascista Germani – culturalmente radicato in Argentina prima del rientro in Italia – il populismo peronista si distingue radicalmente dal fascismo italiano per la differenza della base sociale: la borghesia, la classe media, nel caso del movimento mussoliniano; la classe lavoratrice urbana e rurale, la “massa disponibile”, nel caso del peronismo, che peraltro è connotato da sue peculiari destra e sinistra interne. Per questo <il peronismo, per Germani, fu realmente capace di dare risposte reali alle classi popolari, le quali, per la prima volta, guadagnarono diritti e dignità, e anche un certo grado di libertà concreta, e si integrarono finalmente nella vita nazionale diventando parte costitutiva di essa> (p. 6). Questo non vuol dire – precisa l’autore – che si debba <riproporre il populismo argentino come un modello positivo per l’Europa> (p. 9).

L’obiettivo del saggio – che rielabora e supera una larga messe di studi specifici – è piuttosto <quello di spingere l’Europa e il suo pensiero politico a confrontarsi con esso, perché dietro la crisi della rappresentanza democratica in Europa, quella scissione drammatica che qui da noi si è venuta a configurare tra sistema della rappresentanza e masse eterogenee, sempre più centrali, e sempre meno omogeneizzabili e integrabili nei quadri delle comunità nazionali, vi è il fatto storico, enorme, della eterogeneità sociale, su cui la cultura politica argentina, da Germani a Laclau, appunto, per ragioni legate alla specificità della sua storia> (p. 10), è stata in qualche modo costretta a riflettere a lungo. Invito non peregrino alla luce dell’uso e abuso che in questi anni, con grande superficialità e senza esiti convincenti, si fa della categoria destoricizzata di fascismo per tentare di definire espressioni politiche “altre” di ardua modellizzazione.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

Tutto è ritmo, tutto è swing. Il jazz, il fascismo e la società italiana

Camilla Poesio, Tutto è ritmo, tutto è swing. Il jazz, il fascismo e la società italianaLe Monnier, Firenze 2018//

Forse un libro in cui si scrive di <aristocratici di sangue blu> (p. 54), senza cogliere la tautologia, non andrebbe letto. Invece si tratta di una interessante ricerca di storia sociale, sia pure appesantita dalla pretesa di farne anche una storia politica e dalla preoccupazione costante di ribadire il carattere liberticida della dittatura fascista. E anche questa è una tautologia. L’argomento è d’altra parte scivoloso. Com’è noto, Romano Mussolini, figlio minore di Benito, è stato un grande jazzista e il padre, nel marzo del 1937, non esitò a rivelare di non avere <alcuna antipatia contro il jazz; come ballabile, lo trovo divertente> (p. 99). Altrettanto noto è che orchestre jazz si formarono numerose all’interno dell’Opera Nazionale Dopolavoro.

Come trattare dunque la storia del jazz in Italia, dove approdò, come in Europa, dopo la Grande Guerra, grazie ai musicisti dei transatlantici? Si può, naturalmente, calcare la mano sulle sue denunciate caratteristiche “negroidi” e poi – mentre maturavano le leggi razziali – ebraiche. Si può ironizzare della italianizzazione in “giazzo”, che fa il paio con il cachet ribattezzato cialdino (ma i francesi non sarebbero d’accordo). Si può gridare allo scandalo e titolare una recensione del libro “Allarmi son jazzisti! Musica negroide: così il fascismo boicottò Armstrong e Cole Porter [S.Cappelletto, “La Stampa”, 25/12/2018]. Si può anche minimizzare la circostanzama non lo fa l’autrice – che la spericolata stagione veneziana di Col Porter, del suo amante Boris Kochno e di sua moglie Linda, si chiuse nel 1927 quando <a seguito di un’irruzione della polizia a una delle innumerevoli feste, fu scoperto un “fiume” di cocaina e furono trovati una dozzina di giovani ragazzi seminudi o vestiti con abiti di Linda> (p. 57). Una questione di moralità pubblica, in sostanza, più che di musica, anche se il volume chiarisce in alcuni passaggi lo stretto legame tra il diffondersi del jazz e l’insorgere di preoccupazioni etiche tipiche di un paese profondamente impregnato di moralismo cattolico, quale era – salvo che in ambienti ristretti – l’Italia dei tempi. <Per alcuni aspetti – nota Poesio – il mondo cattolico fu più duro e più contrario al jazz del regime fascista> (p. 70). Famosa l’invettiva lanciata nel 1935 dai presuli del Triveneto, guidati dal viterbese patriarca di Venezia Pietro La Fontaine, contro i divertimenti moderni, l’uso dei costumi da bagno nelle spiagge, e naturalmente la musica sincopata. <Agli occhi della Chiesa ballare sui ritmi jazz spingeva a vestirsi secondo una moda succinta che portava a ammalarsi di malattie mortali oppure a dimagrire a tal punto da provocare infertilità mettendo a repentaglio l’istituzione del matrimonio> (p. 75). È noto che per gli stessi pregiudizi anche l’atletica leggera femminile (negli anni di Ondina Valla) fu contrastata dalla Chiesa.

Contro il jazz e i suoi derivati, che si diffusero anche grazie all’Eiar, scattò poi la molla protezionistica dei musicisti, che peraltro aiutò la nascita di un jazz italiano. Forse, dopo aver criticato il palese razzismo che trasuda dal saggio Jazz Band di Anton Giulio Bragaglia (1929), Poesio avrebbe potuto approfondire il tema dello scontro da tempo in atto nel mondo musicale italiano tra modernisti e tradizionalisti. Nel 1917 Marinetti aveva chiarito nel manifesto La danza futurista che <noi […] preferiamo Loïe-Fuller [la ballerina e attrice statunitense Marie Louise Fuller, 1862-1928] e il cake-walk dei negri>. Si sa che il pro-jazz Alfredo Casella e Gian Francesco Malipiero, fondarono con Gabriele d’Annunzio la “Corporazione delle nuove musiche”, animando un vivacissimo – a volte violento – dibattito culturale, a prescindere da questioni di ordine politico e dal razzismo. Forse non per caso 18 gennaio 1937 Alice de Fonseca scrive alla pianista, convivente e amante del Vate, Luisa Baccara: <Ti accludo questo avviso sui Kentucky Singers. Cesco ne organizza il giro in Italia, se dovessero interessare al Comandante dammene notizia che potrebbero cantare per Lui alla fine di febbraio. Sono pare degli artisti eccezionali> [cit. in G. S. Rossi, Storia di Alice, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 74]. “Les 5 Kentucky Singers” sono presentati dal volantino pubblicitario francese inviato al Vittoriale come “Les extraordinaires chanteursnègres, grandi interpreti di “negro spirituals” e “vocal jazz”.Alice de Fonseca è stata un’amante di Mussolini e lo seguì nella Rsi con il marito Francesco “Cesco” Pallottelli, noto impresario musicale.

Nonostante Bragaglia lo considerasse <musica ammattita e gambe storte>, frutto di una miscela di <snobismo anglosassone>, <americanismo> e <diavolerie dei negri>, il jazz non fu mai proibito, ma in qualche modo “italianizzato” rivedendo i testi e addolcendo i ritmi, nel contesto della crescente campagna contro l’esterofilia. Nel “Radiocorriere” del novembre 1941 si chiariva che la musica sincopata italiana aveva acquistato <il diritto di cittadinanza> e <non si può pensare di sopprimerla> (cit. p. 87).In fondo, lo stesso Bragaglia, dopo aver pubblicato Jazz Band, aveva messo in scena L’opera da tre soldi di Bertold Brecht e Kurt Weill con il titolo italianizzato La veglia dei lestofanti, presentandola come “Commedia jazz”. [cfr. L. Ianniello, Futurismo e Jazz. Occasione mancata o rapporto impossibile?, Tesi di diploma, Conservatorio di Musica di Frosinone, 2010, pp. 60-61].

Una vicenda complessa, dunque, quella trattata dal volume. Un intreccio non sempre ben illustrato – nonostante l’ampiezza delle fonti utilizzate – tra cultura, politica, musica, religione, spirito dei tempi. Un intreccio che risulta in verità più chiaro dal volume di Anna Harwell Celenza: Jazz all’italiana. Da New Orleans all’Italia fascista e a Sinatra, Carocci, Roma 2018. (G.S.R.)

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n.1, 2019, nuova serie, a. XXXI

20 luglio 1969, l’avventura che ci fece sognare

«Dai miei studi sono convinto che riusciremo in un’impresa impossibile per ogni altra nazione. Questo piano, degno di voi e del Gun Club, non potrà fare a meno di sollevare gran rumore nel mondo.
Molto rumore? Chiese un artigliere appassionato.
Molto rumore nel vero senso della parola. Rispose Barbicane».
Quando il centro Nasa di Houston comunicò al mondo che nell’estate del 1969 due suoi astronauti – Neil Armstrong ed Edwin Aldrin – avrebbero toccato il suolo lunare, a molti nostri connazionali tornarono alla mente le pagine scritte de Jules Verne più di un secolo prima, nel suo libro Dalla terra alla luna (De la Terre à la Lune. Trajet direct en 97 heures 20 minutes, Hetzel, Paris 1865) uno dei must dei giovani e degli adolescenti del Novecento, cresciuti nel mito del progresso e della conquista dell’ignoto.
Mentre sulle nostre spiagge risuonavano le canzoni di due giovani campani, Lisa dagli occhi blu di Mario Tessuto e Rose rosse per te, di un diciottenne dei quartieri spagnoli, Massimo Ranieri, l’emozione e l’attesa crescevano in tutto il Paese.
Quando venne comunicata da oltreoceano la data dello sbarco – 20 luglio – partì la corsa di giornali e tg nel prepararsi all’evento del secolo.
Quotidiani e periodici fecero a gara nel raccontare, nel dettaglio, i retroscena sia dell’ultima missione americana sulla Luna, quella di Apollo 10 (che aveva fotografato e filmato per la prima volta la superficie lunare) sia quella che Apollo 11 si apprestava a compiere.
Le vite dei due uomini incaricati di “passeggiare” sul suolo lunare furono vivisezionate da tutti i media del mondo.
Un mese prima dell’allunaggio, al centro di Houston fu il momento delle prove generali. Avvolti da scafandri praticamente identici a quelli delle illustrazioni dei libri di Verne ed armati di telecamere e sofisticate pale lunari, gli astronauti provarono a muoversi come se fossero già sul nostro satellite.
Prima di partire erano già due star. Il 10 giugno del 1969, l’inviato a Houston della “Domenica del Corriere”, Franco Goy, dopo aver assistito alla simulazione dello sbarco, scriveva così: «Ho visto il primo uomo sbarcare sulla luna. È nato a Wapakoneta, nell’Ohio, 39 anni or sono. Alto un metro e 78 centimetri, biondo con gli occhi azzurri, è ammogliato e ha due figli, Eric di 12 anni e Mark di 6. Appassionato di aeromodellistica fin dall’infanzia, dal 1949 al 1952 ha prestato servizio come pilota della Marina, combattendo in Corea. Si chiama Neil Armstrong. Un nome che ricorderemo».
Sullo stesso numero vennero pubblicate le immagini della Terra e della Luna fotografate dall’Apollo 10, con questa didascalia: «La somma di due prodigi. Un secondo prodigio dopo l’impresa di Apollo 10 s’è avverato: milioni di spettatori dei Paesi con la tv a colori hanno potuto godersi lo spettacolo fantasmagorico delle albe e dei tramonti della Luna e della Terra».
Eh già, perché quel che oggi sembra normale, 50 anni fa restava un sogno. Anche quello della televisione a colori, che era una realtà soltanto per i Paesi anglosassoni.
Intanto, i giorni passavano e la febbre saliva. Fino a quel fatidico 20 luglio 1969. In un fondo non firmato intitolato «Cieli aperti», il Messaggero scriveva: «Questa notte per noi italiani, e di giorno per coloro che abitano agli antipodi, non ci sarà che un solo pensiero e una sola trepidazione. Armstrong e Aldrin tenteranno l’eroica, la prodigiosa impresa».
Ma il meglio di sé lo diede la Rai (in quegli anni davvero la guida culturale e informativa del Paese), che alle 19 e 28 del 20 giugno, dallo studio 3 di via Teulada diede il via alla più lunga ed emozionante maratona televisiva della sua lunga storia, battuta solo undici anni dopo, nel 1981, dalla tragedia di Vermicino. Con la conduzione di Tito Stagno e Andrea Barbato, si andò avanti fino alle 23 del giorno dopo.
Alcuni numeri di quella trasmissione: quasi 28 ore di diretta. 500 ospiti coinvolti tra gli studi di Roma, Milano, Torino e Napoli. 8000 sigarette fumate, accompagnate da 6000 caffè. 250 dipendenti Rai impegnati, tra giornalisti, tecnici, impiegati e operai.
Infine, il numero dei numeri, che testimonia, senza bisogno di altre spiegazioni, come per oltre 24 ore l’intero Paese avesse trattenuto il respiro sovrapponendo la realtà al sogno: tra le 22.15 e le 22.30, i momenti dell’allunaggio, davanti agli schermi in bianco e nero disseminati in tutte le case, i bar e i ristoranti del Paese, si inchiodarono 19 milioni 300 mila persone.
Sembrava l’inizio di una nuova avventura, che avrebbe prima o poi coinvolto tutto il mondo occidentale, Italia compresa. Certo, da noi c’erano stati segnali di forte tensione l’anno prima, con i violenti scontri tra studenti e polizia prima a Roma e poi a Milano. Ma nulla lasciava presagire che questo sogno di avventura, di scoperta, di conquista sarebbe stato distrutto, per molti, troppi anni, da un incubo fatto di violenza, morte e sangue. Meno di 5 mesi dopo, la strage di piazza Fontana.

Nicola Rao

 

Da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

Francesco Carlesi, La terza via italiana. Storia di un modello sociale (Castelvecchi editore 2018)

Il 4 luglio 2019, nella sede della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, si è tenuta l’interessante e partecipata presentazione del volume di Francesco Carlesi, La terza via italiana. Storia di un modello sociale (Castelvecchi editore, 2018).

L’apertura dei lavori è stata affidata al prof. Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione e ordinario di Storia contemporanea nell’Unint di Roma. Partendo dalla struttura del volume e quindi dalla composizione tematica dello stesso, il professore ha messo bene in luce come – pur non costituendo un concetto squisitamente italiano – la terza via abbia avuto, nella storia del nostro Paese, un’importante elaborazione interna. Parlato ha poi tracciato, in grandi linee, il percorso delle terze vie: dagli anni ’40 dell’Ottocento francese alle posizioni tedesche, dal toniolismo all’eredità di Mazzini, fino al corporativismo di matrice fascista e all’esperienza importante, seppur sostanzialmente non sviluppata, della socializzazione nella RSI (1944-45).

Dopo l’intervento introduttivo di Parlato, l’autore, Francesco Carlesi, ha fornito un quadro molto ampio della sua ricerca. Iniziando dall’iter di elaborazione del lavoro, Carlesi ha indicato, quale origine dello stesso, tre motivi fondamentali: primo, un interesse specifico, in particolare per il corporativismo; secondo, l’osmosi tra esigenza accademica e partecipazione personale agli stimoli culturali derivanti dal tema; terzo, ma non ultimo per importanza, il legame con gli studi e gli insegnamenti del prof. Gaetano Rasi.

In una ben articolata presentazione dei contenuti del volume, Carlesi si è soffermato su alcune tappe centrali e identificative per il delineamento della terza via italiana; oltre infatti all’unione tra sociale e nazionale e al corso avuto da questo concetto durante il ventennio – periodo in cui, come ravvisato anche da Parlato, ad essere privilegiata fu la via del dialogo e non quella della chiusura (Carlesi ha portato due importanti casi, il rapporto con gli USA del New Deal rooseveltiano e il confronto aperto con l’URSS sul modello della pianificazione economica) –, l’autore ha stimolato la riflessione ampliando il discorso e creando, tra continuità e momenti di rottura, una linea coerente con le composite fasi della storia politica italiana. Molto interessanti i riferimenti, ad esempio, alle figure di Bombacci, Mattei, Olivetti e Craxi, come pure l’osservazione conclusiva: in estrema sintesi, finito il bipolarismo, finito il dibattito sull’alternativa al marxismo e al liberal-capitalismo.

La presentazione si è conclusa con le domande e le osservazioni del folto uditorio presente, occasione di ulteriore approfondimento delle complesse tematiche trattate e di richiami all’attualità.

 

 

 

 

 

 

 

 

Gregorio Sorgonà, La scoperta della destra. Il Movimento sociale italiano e gli Stati Uniti (Viella 2019)

Il 25 giugno 2019, nella sede della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, si è tenuta l’interessante e stimolante presentazione del volume di Gregorio Sorgonà, La scoperta della destra. Il Movimento sociale italiano e gli Stati Uniti (Viella, 2019).

L’introduzione, affidata al vicepresidente della Fondazione Gianni Scipione Rossi, ha aperto il dibattito sull’opera. Dopo aver ringraziato l’autore, Rossi ha brevemente illustrato le principali tematiche trattate nel testo, elaborato anche con l’ausilio dell’archivio e dell’emeroteca della Fondazione, mettendo in evidenza le diverse posizioni presenti nel MSI in merito al modello statunitense.

Il primo intervento, quello del prof. Andrea Guiso della Sapienza Università di Roma, ha fornito una congrua ed esauriente contestualizzazione del tema. Partendo dal ricco profilo scientifico di Sorgonà, Guiso ha ricostruito il percorso della destra missina partendo dagli anni ’70-80, mettendo bene in luce come, da forza marginale, il Movimento sociale si rese soggetto attivo del cambiamento politico, ideologico e culturale del periodo post-1989. Il cambiamento prodotto dalla fine del bipolarismo – quindi dalla fine di quel lungo periodo in cui la presenza della DC, in chiave anticomunista, poneva il MSI in una posizione secondaria – ha stimolato inoltre in Guiso una riflessione metodologica relativa all’importanza da accordare al contesto politico internazionale: fulcro di nuovi assetti generali e dunque dirimente per gli equilibri particolari.
Per il professore, i principali incentivi all’approfondimento destati dal volume sono in sintesi i seguenti: i paradossi inerenti al rapporto MSI-USA, pertanto, al confronto/scontro interno al partito tra americanismo e antiamericanismo (forte, ma ambiguo); l’immagine suggestiva dell’“America-specchio” degli equilibri internazionali e la ricezione del portato politico delle presidenze; il confronto Europa-USA, il dibattito sui riferimenti culturali e sulla questione della “culla” culturale; e, non ultimo, il problema dell’“americanizzazione” e i rapporti USA-URSS (es. la sfida del benessere di Chruščëv).
La fine della Guerra fredda, dei due “grandi modelli”, e il mondo unipolare hanno cambiato – nella lettura logica di Guiso – i paradigmi di alcuni dei principali nodi della cultura partitica missina, due esempi su tutti sono l’anticapitalismo e il ruolo dello Stato. L’aver intercettato le nuove rotte si tradusse per il MSI e per il suo erede, AN, in una maggiore responsabilità e nel già richiamato ruolo attivo dopo l’89. In riferimento a questa osservazione conclusiva, il prof. Guiso ha posto all’autore una complessa domanda d’attualità relativa alla possibilità di intravedere nella Lega l’erede di questa tradizione e di questo cambiamento.

Prima dell’intervento di Sorgonà, Rossi ha dato una prima risposta all’intervento di Guiso, sottolineando l’eterogeneità della destra missina nei confronti della cultura USA e l’idoneità della domanda posta dal professore.

All’autore, Gregorio Sorgonà della Fondazione Gramsci, è stato affidato l’intervento di chiusura della presentazione. Dopo aver ringraziato la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice per il supporto fornitogli, Sorgonà si è soffermato sul percorso di ricerca che ha portato alla stesura della monografia. Il lavoro è iniziato nel 2010 e la ricerca mossa da una domanda fondamentale: ci fu cesura storica tra il 2007 e il 2010? La risposta dell’autore è convincente, articolata e ricca di spunti di riflessione. Partendo dal punto di svolta degli anni ’90, quando l’unipolarismo di matrice USA dominava le relazioni internazionali, Sorgonà, toccando varie tappe, ha costruito un percorso. Con la crisi di questo modello a trazione unica iniziata negli anni Duemila si sono di fatto aperti ulteriori spazi: ecco allora l’emergere di nuovi attori internazionali (si pensi alla Cina o all’India), la destabilizzazione di aree cruciali (es. quella mediorientale) e la crisi economica. Il passaggio presente ha dunque animato l’esigenza di indagare il passato, di interrogare criticamente e senza sovrastima – nel mutamento costante dei rapporti politici – la storia della scoperta della destra.
Anche Sorgonà ha posto l’accento su alcuni elementi centrali: la fase post-89 – considerata, come nell’intervento di Guiso, di fondamentale importanza –; le posizioni del gruppo dirigente del partito nel corso del tempo; lo studio dei Congressi come momento di confronto tra diverse identità; e la sfida relativa alle fonti utilizzate, d’archivio e d’emeroteca.
In chiusura del suo intervento, Sorgonà ha rilevato in maniera pragmatica le differenze e gli elementi di plausibile continuità tra l’esperienza del MSI/AN e quella della Lega e, successivamente, illustrato nel dettaglio la struttura propria del volume.

La presentazione si è conclusa con le domande e le osservazioni dell’uditorio, occasione di ulteriore approfondimento delle tante tematiche trattate.

 

Le decisioni della Commissione Scientifica

Il 5 giugno 2019 si è riunita in Fondazione la Commissione Scientifica per le attività relative al quarantesimo anniversario della scomparsa di Ugo Spirito e al novantesimo della nascita di Renzo De Felice.
La Commissione, presieduta dal prof. Hervé A. Cavallera e composta dai professori Paolo Simoncelli e Umberto Gentiloni Silveri, nonché dai professori Danilo Breschi, Giuseppe Parlato e Gaetano Sabatini, quali componenti interni della Fondazione, ha approvato il piano delle iniziative da svolgersi nel biennio 2019-2020 in merito al doppio anniversario: un convegno a Rieti (su De Felice) e uno ad Arezzo (su Spirito) entro l’anno in corso e due convegni, uno dedicato al filosofo e l’altro allo storico, nel 2020. In una prossima riunione saranno definiti i relatori dei vari convegni.
Contemporaneamente, la Commissione ha approvato il bando di ricerca per studi sul filosofo e sullo storico. Il bando sarà disponibile sul sito della Fondazione: www.www.fondazionespirito.it .

Catalogazione della sezione Periodici della Biblioteca di Ugo Spirito

Nel quadro delle iniziative poste in essere per le celebrazioni degli anniversari della scomparsa di Ugo Spirito (1979) e della nascita di Renzo De Felice (1929), grazie alle previsioni della legge di bilancio 2019 (art. 1, co. 416) è in corso la catalogazione della sezione Periodici del fondo librario di Ugo Spirito.
La biblioteca di Spirito contiene numerose testate di riviste di contenuto filosofico, storico, economico, italiane e straniere, che arricchiscono la già pregevole raccolta di monografie. Oltre a presenze immaginabili, come il gentiliano «Giornale critico della filosofia italiana», che Spirito, dopo esserne stato segretario di redazione, diresse dal 1951, e «La Critica» di Benedetto Croce, dai contenuti imprescindibili per un giovane filosofo, vi troviamo periodici meno diffusi e conosciuti quali gli «Annali del seminario giuridico-economico» della Regia Università di Bari, gli «Annali di economia» dell’Università commerciale Luigi Bocconi; ancora, «Studi nelle scienze giuridiche e sociali» pubblicati dall’Istituto di esercitazioni presso la facoltà di Giurisprudenza della R. Università di Pavia (1927; 1930-1933), «China Reconstructs» del China Walfare Institut (1957; 1961-1964) e diverse altre riviste internazionali sulla Cina (si ricorderà il suo interesse per quel grande Paese), «Rivista di biologia» dell’Università di Perugia (1949-1974), «Orientamento scolastico e professionale» dell’Associazione italiana di orientamento scolastico professionale (1979-1981).
Dei risultati della catalogazione sarà data notizia sul sito della Fondazione.

Trieste: la Fondazione alla mostra su Camillo Castiglioni

Il 29 giugno 2019 è stata inaugurata a Trieste la mostra “Camillo Castiglioni e il mito della BMW”, organizzata dalla Fondazione Franco Bardelli e dal Comune di Trieste, con la collaborazione di BMW Group Archiv e della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. La Fondazione ha contribuito con il prestito di numerosi documenti d’archivio conservati nel fondo dello storico e diplomatico Attilio Tamaro.
All’inaugurazione hanno partecipato il vicepresidente della Fondazione Gianni Scipione Rossi, i curatori, l’assessore alla cultura del Comune di Trieste Giorgio Rossi, l’assessore all’ambiente della Regione Friuli Venezia Giulia Fabio Scoccimarro, Claudia Castiglioni, pronipote di Camillo, e i responsabili di BMW Group Archiv.
La mostra, curata da Mauro Martinenzi e Susanna Ognibene, si terrà dal 29 giugno al 21 luglio nella sala Attilio Selva di Palazzo Gopcevich, via G. Rossini, 4.
L’inaugurazione è stata fissata in concomitanza con l’arrivo a Trieste del “Fiva world motorcycle” il più importante evento mondiale di moto d’epoca, che quest’anno si svolge in Slovenia e Croazia, con tappa finale in Piazza Unità. Alla manifestazione saranno presenti anche moto provenienti dal Museo BMW di Monaco.
La mostra, allestita da Omniarem, si pone l’obiettivo di raccontare la straordinaria vita di Camillo Castiglioni, uno dei più grandi finanzieri e industriali europei negli anni Dieci e Venti del Novecento, con un particolare approfondimento relativo al periodo in cui come proprietario della BMW ne favorisce la trasformazione in una fabbrica motociclistica. L’intento è quello di realizzare un’esposizione che valorizzi e ponga in risalto sia la singolare storia umana del Castiglioni, che va oltre la connotazione politica dell’epoca, sia la società, il contesto culturale, politico ed economico attraverso cui il nostro personaggio si muove e vive, con particolare riferimento alle sue radici triestine ed ebraiche.
Camillo Castiglioni nacque a Trieste il 22 ottobre del 1879 da Vittorio, pedagogista ed ebraista (vice rabbino di Trieste, poi rabbino capo di Roma dal 1903 al 1911), e morì a Roma il 18 dicembre del 1957.
Il catalogo della mostra – Camillo Castiglioni e il mito della BMW, Goliardica Editrice, Trieste – è curato da Susanna Ognibene e Mauro Martinenzi, con introduzioni di Fred Jakobs, Head BMW Group Archiv, e di Gianni Scipione Rossi, autore della biografia Lo “squalo” e le leggi razziali. Vita spericolata di Camillo Castiglioni(Rubbettino, 2017).