Trieste, ancora pochi giorni per visitare la mostra su Camillo Castiglioni a Palazzo Gopcevich

Trieste – Ancora pochi giorni – fino  a domenica 21 luglio – per ammirare la mostra Camillo Castiglioni e il mito della BMW, organizzata dalla Fondazione Franco Bardelli e dal Comune di Trieste con la collaborazione di BMW Group Archiv e della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. La mostra, curata da Mauro Martinenzi e Susanna Ognibene, si è aperta sabato 29 giugno. Notevole nelle prime due settimane di apertura l’afflusso del pubblico, interessato a scoprire la figura del grande imprenditore e finanziere triestino nella sala Attilio Selva di Palazzo Gopcevich, via G. Rossini 4 (orario 10.00-17.00, ingresso gratuito).

La mostra si pone l’obiettivo di raccontare – dopo decenni di oblio –  la straordinaria vita di Camillo Castiglioni, uno dei più grandi finanzieri e industriali europei negli anni Dieci e Venti del Novecento, con un particolare approfondimento relativo al periodo in cui come proprietario della BMW ne favorisce la trasformazione in una fabbrica motociclistica. L’intento è stato quello di realizzare un’esposizione che valorizzasse e ponesse in risalto sia la singolare storia umana del Castiglioni, che va oltre la connotazione politica dell’epoca, sia la società, il contesto culturale, politico ed economico attraverso cui il nostro personaggio si muove e vive, con particolare riferimento alle sue radici triestine ed ebraiche. In mostra numerosi pannelli illustrano l’intera vicenda umana di Castiglioni e, grazie, alla ricerca effettuata negli archivi e nei musei triestini, il fortissimo legame con la città natale. Camillo Castiglioni nacque infatti a Trieste il 22 ottobre del 1879 da Vittorio, pedagogista ed ebraista, (vice rabbino di Trieste, poi rabbino capo di Roma dal 1903 al 1911), e morì a Roma il 18 dicembre del 1957.

La Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice partecipa con il prestito di numerosi e rilevanti documenti, conservati nel Fondo Archivistico dello storico e diplomatico triestino Attilio Tamaro, fin da giovane amico di Castiglioni, con il quale ha intrattenuto per anni una fitta corrispondenza. Altri documenti provengono dall’archivio BMW di Monaco di Baviera, così come la motocicletta voluta e commercializzata da Castiglioni nel 1923. Dal Museo Revoltella proviene uno splendido quadro di Nomellini, donato dal finanziere nel 1927. Il catalogo della mostra – Camillo Castiglioni e il mito della BMW, Goliardica Editrice, Trieste – è curato da Susanna Ognibene e Mauro Martinenzi, con introduzioni di Fred Jakobs, Head BMW Group Archiv, e di Gianni Scipione Rossi, autore della biografia Lo “squalo” e le leggi razziali. Vita spericolata di Camillo Castiglioni (Rubbettino, 2017). 

Quella “macchina imperfetta” che volle illudersi “totalitaria”

Guido Melis, La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista, il Mulino, Bologna 2018//

Nel sottolineare l’inadeguatezza di una storiografia del fascismo in parte influenzata dal “senno del poi”, Domenico Settembrini evidenziò la contraddizione insita nell’inversione logica tra causa ed effetto. Nell’assumere dunque l’effetto come evidenza incontestabile della causa. Ne derivano numerosi paradossi. Tra questi: «Il fascismo ha, dopo il 1925, istituito uno Stato totalitario? Dunque, era nato proprio per fare questo». Ma lo Stato totalitario che il fascismo avrebbe immaginato, o sperato, o tentato, di fondare, quale si presenta – pur con alcune significative problematicità, in primis la persistente diarchia al vertice di tale Stato – quasi al termine del ventennio mussoliniano, alla vigilia della seconda guerra mondiale, fu l’esito di un articolato, coerente e razionale progetto di sostituzione radicale dell’assetto dello Stato liberale? Nella sostanza, fu una vera rivoluzione? E fu subito regime, per dirla con Emilio Gentile?
Interrogativi non banali alla luce della ampia e profonda ricerca condotta da Guido Melis sulla storia dello Stato attraverso il fascismo. Con la capacità di scavo e di analisi tipica dell’autore, La macchina imperfetta fornisce risposte esaurienti quanto spesso sorprendenti e si pone, come ha notato Sabino Cassese, «a pieno titolo accanto all’altro grande studio sul fascismo, la biografia mussoliniana di Renzo De Felice».

Se si volesse individuare un paradosso simbolicamente molto significativo dell’imperfezione della “macchina” fascista, tra i tanti, potrebbe essere scelta la stessa qualifica di “Duce” che nel Ventennio viene attribuita al dittatore. Ma il titolo di Duce riservato a Mussolini era tale solo nel contesto della militanza fascista, dunque titolo con enfatica valenza politica, oppure aveva sostanza istituzionale e rilevanza giuridica? La vicenda è particolarmente complessa e tradisce la travagliata evoluzione dello Stato nel fascismo verso l’approdo in un regime totalitario a tutti gli effetti. Il costituzionalista Giuseppe Volpe, ricorda Melis, ha rivelato che il titolo, riferito a Mussolini, «appare per la prima volta in un atto governativo ufficiale nella circolare del 19 settembre 1923 inviata dal ministero dell’interno-comando generale della Milizia […] ai comandanti di zona». Ma in realtà, sul piano giuridico costituzionale, Mussolini non è Duce, bensì Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato. Dunque, mentre il regime procede per tappe successive e non senza ambiguità a includere nello Stato la Milizia, il Partito, il Gran Consiglio, resiste a lungo una sorta di vita parallela del fascismo e dello Stato, che si manifesta persino nella percezione del capo, come se si trattasse, appunto, di confluenza nella medesima persona di due realtà separate. Sull’esempio dei regni che attribuiscono allo stesso sovrano due corone che di per sé non determinano l’unità dei due Stati. Solo nel decreto legge del 1937 che istituisce la Gioventù Italiana del Littorio appare la definizione “Il Duce, Primo Ministro e Segretario di Stato”, in luogo di Capo del Governo. E solo nel 1939, con una circolare, si impone che sia utilizzata, «nelle premesse dei Regi decreti, nelle intestazioni dei decreti del DUCE [che diventa a questo punto tutto maiuscolo] e in ogni norma contenuta in leggi o decreti», la dizione “DUCE del Fascismo Capo del Governo”.
Mussolini Duce in ritardo, dunque. O, se si vuole, Duce con riluttanza, come se il capo del fascismo non avesse ben chiara la volontà di fare dello Stato governato dal fascismo uno Stato integralmente fascista. Contestualmente, nella Germania nazista, il titolo di Führer attribuito a Hitler assume immediatamente un valore ufficiale e indica il Capo del Governo.
La travagliata sorte della definizione di Mussolini come Duce non è solo una curiosità storiografica, un particolare marginale. Questo camminare a tentoni, tra strappi, frenate, accelerazioni, scarti laterali, è tipico – come Melis mostra efficacemente – di tutto il percorso di costruzione dello Stato che si vorrebbe totalitario. Attiene al processo di formazione delle leggi, alla modificazione del ruolo del Consiglio dei Ministri, che perde di rilevanza solo dopo il 1928, ai poteri dei Sottosegretari, ai rapporti tra il Partito e lo Stato, sia al centro sia in periferia. Riguarda teoricamente e praticamente il confronto tra il diritto di tradizione liberale e il “nuovo diritto” che avrebbe dovuto testimoniare e sostanziare l’avvenuta rivoluzione politica. Riguarda il cangiante ruolo del Parlamento, progressivamente emarginato, fino alla sostituzione della Camera dei deputati con la Camera dei fasci e delle corporazioni, che si manifesta – al di là dei proclami – come inutile orpello. Riguarda il ruolo del Consiglio di Stato guidato da Santi Romano e quindi la giustizia amministrativa. Riguarda il rapporto tra il governo e le pubbliche amministrazioni, compresa la miriade di enti pubblici creata per gestire grandi e piccoli interessi e attività. Riguarda il rapporto con le élite militari e, in generale, la burocrazia, per non dire della magistratura. «Gli stessi concorsi, pur riformati – nota Melis – diedero risultati, dal punto di vista di una eventuale fascistizzazione dei magistrati, abbastanza modesti». Solo negli anni Quaranta l’iscrizione al Pnf avrebbe consentito vantaggi di carriera, ma nella realtà continuarono a prevalere i criteri di qualificazione professionale. «Insomma, la “macchina”, a distanza ormai di quasi un ventennio, non poteva proprio dirsi perfetta, né tanto facile da pilotare come forse si era ingenuamente ritenuto nell’ottobre 1922, nell’ebbrezza della conquista del potere».
Certo, gli “uomini nuovi” di Mussolini entrarono – spesso in disaccordo tra loro – nelle stanze del potere e lo gestirono. Ma con strumenti e comportamenti rapsodici, tali da far dubitare della reale intenzione e/o capacità di modellare uno Stato totalmente altro rispetto a quello liberale. Né diede frutti la tardiva accelerazione della svolta corporativa. Ad emergere in modo prepotente, e Melis lo mette acutamente in evidenza, è il principio della continuità che si invera nella prassi. Tanto che un ignoto burocrate può registrare, senza enfasi alcuna, a proposito della riunione del Consiglio dei ministri in calendario per il 31 luglio 1943: «Non ha avuto luogo per mutamento del Ministero». Una nota dettata da innata prudenza, forse. Ma simbolica della perdurante percezione dello Stato come istituzione superiore ai regimi politici, nonostante si prefiggano laceranti rotture.
Guido Melis è convincente nel trarre le conclusioni del suo lavoro.
«Tardive e spesso contraddittorie – scrive lo storico sassarese – sono le riforme nel campo del diritto, in quello dell’economia, persino nell’assetto della società. Una molto conclamata e celebrata rivoluzione economica (il corporativismo) rimane in gran parte sulla carta, al punto che la vera “rivoluzione” sarà la nascita, quasi inavvertita, dello Stato imprenditore, che si costituirà al di fuori del contesto corporativo e sarà destinato a sopravvivergli. Emerge la novità ambigua di uno Stato-partito costruito ex novo modificando in profondo la Costituzione liberale, ma al tempo stesso condizionato sino all’ultimo dalla sopravvivenza degli antichi equilibri: cioè dal modello di Stato ideato a fine Ottocento dai maestri del diritto costituzionale e amministrativo».
E ancora: «Domina, sullo sfondo il paradosso della diarchia, un regime che si dice totalitario ma che conserva un re formalmente sovrapposto al duce».
«Il panorama delle élite sociali resta estremamente composito, con larga prevalenza di elementi di continuità su quelli del cambiamento. […] Insomma, un totalitarismo sempre annunciato e mai interamente realizzato, un sistema di istituzioni imperfetto, fatto di nuovi e vecchi materiali confu- samente assemblati senza un progetto lineare, con un’evidente vocazione, nei momenti cruciali della ricostruzione dello Stato, al compromesso tra vecchio e nuovo».
In definitiva, chiarisce Melis, il fascismo «fu un fenomeno molto più complesso del regime totalitario che la storiografia si è spesso rappresentata, illudendosi di poterlo racchiudere in quell’aggettivo». Il fascismo, in un certo senso, fu molto di più e molto di meno. A un tempo totalitario e articolato, a suo modo pluralista, in sostanza incapace di plasmare nel profondo l’auspicata “Italia in camicia nera” e anche di portare a compimento – pur avendo tentato questa strada – la nazionalizzazione degli italiani avviatasi con la Grande Guerra. Nel fallimento del progetto molta parte ha avuto il carattere di Mussolini. E Melis concorda con l’analisi psicologica di Renzo De Felice, quando evidenzia nel dittatore l’irriducibile tatticismo che lo portava fatalmente a scegliere il compromesso perpetuo, tra gli uomini e nelle decisioni politiche. Anche per questo si può dire che il fascismo abbia terminato il suo ciclo storico il 25 luglio 1943. Dopo si può parlare di neo-fascismo. Ma questa è un’altra storia.

Gianni Scipione Rossi

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX

Nella versione cartacea i riferimenti bibliografici.

Alla corte di Mao. Storia di un mito costruito in Occidente

Mario Tesini, Lorenzo Zambernardi (a cura di), Quel che resta di Mao. Apogeo e rimozione di un mito occidentaleLe Monnier, Firenze 2018.

// Alla fine degli anni Sessanta del Novecento – intorno al Sessantotto, per intenderci – prima del riconoscimento diplomatico della Repubblica Popolare Cinese da parte italiana (6 novembre 1970) e dunque prima dell’insediamento delle rispettive ambasciate, nel cuore del quartiere Pinciano, a due passi dal Parco dei Daini, una anonima palazzina romana diventò meta di un vero e proprio pellegrinaggio. A piccoli gruppi, qualche solitario, i figli del generone – professionisti, alti dirigenti statali e parastatali, possidenti – bussavano alla porta della rappresentanza commerciale cinese. Con molta cortesia i funzionari, ormai avvezzi, consegnavano rapidamente ai questuanti in eskimo, talvolta in loden, una copia delle Citazioni delle opere del presidente Mao Tse-Tung, volgarmente chiamate Libretto rosso, diffuso nel corso dei decenni forse in oltre un miliardo di copie e tradotto in una cinquantina di lingue. Né mancavano, ad accompagnare il volumetto, almeno un paio di spille metalliche circolari con l’effige di Mao, da applicare ai soprabiti come reliquie.

A pochi anni dall’inizio della “rivoluzione culturale”, il mito del “grande timoniere aveva attraversato il mondo ed era vicino al suo apogeo. Un mito durevole, in verità, che persiste anche dopo la sua morte, nel 1976, quando il carattere violentemente repressivo della “rivoluzione culturale” è ormai universalmente noto, anche senza la necessità della sconfessione formale che era toccata a Stalin in Unione Sovietica.

Sarebbe ingeneroso imputare al newyorkese di origini rutene Andy Warhol, la nascita e la persistenza del mito. Tutt’al più si può parlare di eterogenesi dei fini. Il geniale profeta della Pop Art, nel 1972, trattò l’immagine del leader comunista cinese come un semplice oggetto di consumo, perché tale era diventato, alla stessa stregua della Campbells Soup, di Marylin Monroe e di “Che” Guevara, parimenti oggetto di un mito nato in quegli anni, distinto da quello maoista per non essere stato – il medico argentino – a capo di una potenza politica mondiale.

Come è bene illustrato dai saggi che Mario Tesini e Lorenzo Zambernardi hanno raccolto in un volume che opportunamente ha colmato un vuoto storiografico, il mito di Mao nasce ben prima e incanta e forse illude in Occidente un’amplissima gamma di intellettuali alla ricerca di un modello culturale e sociale lontano dal liberalismo e dal capitalismo e non appiattito sul totalitarismo sovietico, in particolare dopo la denuncia dei crimini staliniani nel 1956. In qualche modo, quel mito, incarna – paradossalmente – il sogno di una società di uguali apparentemente priva di una forte guida autoritaria. Ed è durevole al punto che anche in anni recentissimi – come nota Giovanni Belardelli – <chi ricorda in particolare gli anni della Rivoluzione culturale continua ad attingere all’immagine circolante negli anni Sessanta in Occidente: cioè all’immagine, priva di riscontri nella realtà storica ma ciò nondimeno resistentissima, di una rivoluzione libertaria e non violenta, destinata più che obiettivi di tipo politico o sociale a rendere migliori gli esseri umani>.

Il mito coinvolse anche Hannah Arendt, che quando nel 1966 ripubblica Le origini del totalitarismo considera il comunismo cinese, al massimo, un regime semi-totalitario. Francesco Raschi nota come la Arendt osservi <che dopo l’iniziale spargimento di sangue, con conseguente eliminazione dell’opposizione politica, il terrore non si è “intensificato” come all’epoca di Stalin, così come non sono stati creati dei “nemici oggettivi” e non sono stati “apertamente compiuti, crimini”>. Per la Arendt è il nazionalismo innato del popolo cinese a limitare il totalitarismo. E d’altra parte Mao non sarebbe un <omicida per istinto> come Stalin ed Hitler.

Nella realtà, in quegli anni, le caratteristiche liberticide del comunismo cinese cominciavano a essere ben note, ma il mito in luogo di cadere permane e in qualche modo si rafforza, sostenuto dagli intellettuali all’epoca più influenti d’Europa, a cominciare daSimone de Beauvoire e Jean Paul Sartre, che nel 1972 avallava il maoismo sostenendo che <la violenza rivoluzionaria [] è immediatamente e profondamente morale>. Per non dire di Maria Antonietta Macciocchi, che pubblica nel 1971 Dalla Cina. Dopo la rivoluzione culturale, un ponderoso volume nel quale <dava mostra di un filomaoismo sconfinato>.

Perplessa e delusa dal comunismo sovietico, la sinistra culturale europea andava cercando nuovi modelli e li individuò in un comunismo cinese narrato come una soluzione dal volto umano. <La vita sociale cinese si poneva come il modello di un’umanità alternativa>, assicurava Umberto Eco nel 1971. <Mao – scriveva nel 1967 Alberto Moravia – non vuole il potere personale attraverso la violenza, come Stalin. Mao l’educatore, Mao il dialettico, vuole il potere ideologico attraverso la persuasione e l’educazione>. Come se il condizionamento pervasivo delle coscienze non fosse esso stesso una forma di violenza, alla quale peraltro si accompagnava la violenza in senso proprio.

Negli anni posteriori all’inizio della rivoluzione culturale cinese il mito di Mao e del suo comunismo “diverso” si diffonde rapidamente anche in Italia, ben oltre i confini in fondo angusti dei movimenti politici che a esso espressamente si richiamano, dal gruppo del Manifesto di Rossana Rossanda e Luigi Pintor all’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) di Aldo Brandirali, ai nazi-maoisti della Lotta di Popolo di Enzo Maria Dantini e Ugo Gaudenzi. In morte di Mao “il Manifesto” dedicò al “grande timoniere” questo lunghissimo titolo in prima pagina: <È morto il compagno Mao Tse-Tung. Ci ha insegnato che il comunismo è il radicale rovesciamento della storia fondata sull’egoismo e sullo sfruttamento. Per questo dalla Cina “arretrata” è partito il solo suggerimento adeguato per affrontare la crisi di civiltà dell’”avanzato” Occidente>. Nella stessa data del 10 settembre 1976 il neonato quotidiano scalfariano “la Repubblica” annunciava a caratteri cubitali che <È morto il grande Mao>. Lontano da suggestioni maoiste, “Lotta Continua” si atteneva a un più registrativo <Il compagno Mao Tse-Tung è morto”, sulla scia del quotidiano del Pci “l’Unità”, con il suo “È morto il compagno Mao Tse-Tung.

Le “massime” di Mao cominciano tra gli anni Sessanta e Settanta a entrare nel lessico comune e vengono citate a più riprese anche da personalità politiche a posteriori inimmaginabili, come peresempio il socialista Giuliano Amato.

Ma il fenomeno – come si è detto – ha origine qualche lustro prima, con i “pellegrini politici”. Il primo viaggio di intellettuali con il consenso del governo italiano è dell’ottobre 1955. Ne derivò, l’anno successivo, come ricostruisce Cristina Baldassini, un corposo numero speciale della rivista di Pietro Calamandrei “Il Ponte” intitolato La Cina d’oggi. Nel suo contributo il giurista fiorentino di formazione azionista scrisse con afflato poetico che la festa nazionale del primo ottobre nella Repubblica Popolare non aveva <nulla che somigli[asse] alle funebri adunate totalitarie di nostra vecchia conoscenza: dinanzi alla Porta della Pace abbiamo visto passare per quattro ore di seguito non una sfilata di sudditi disciplinati, ma uno spontaneo rigoglio naturale di colori teneri e nuovi come quelli che si trovano solo dei fiori di campo… […] Quello non era un corteo comandato: era un canto, una danza, era una spontanea effusione di gioia collettiva: tutto un popolo in festa, lo sbocciare irresistibile, per legge di natura, di una nuova stagione>.

Ci si può chiedere come sia stato possibile che il mito abbia potuto nascere e svilupparsi in modo dirompente per alcuni decenni, salvo ripiegare – parzialmente – a partire dagli anni Ottanta. Se si può comprendere nel contesto della politica internazionale dei blocchi e della realpolitik di Kissinger che portò nel 1972 allo storico viaggio di Nixon a Pechino, è più difficile – certo, col senno del poi – capire un innamoramento collettivo così capace di travisare la realtà da coinvolgere, per dire, anche il presidente liberalconservatore francese Giscard d’Estaing. Un fenomeno diffuso e che, a parte la convinzione di Moravia di poter coglierela felicità dei cinesi non parlandoci, ma dallo sguardo, raggiunte vette di stupidità forse insuperabili. È il caso dello psichiatra italiano Giovanni Jervis, che sulla scia dell’argentino Gregorio Bermann, nel 1971 elogiò il testo cinese Fare affidamento sul pensiero di Mao Tsetung per guarire le malattie mentali. E il florilegio potrebbe continuare…

Il manifestarsi appieno della brutalità del totalitarismo sovietico spiega molto. Ma vi è un altro elemento, come suggerisce Giovanni Belardelli. Oltre alla suggestione suscitata all’orgoglioso riaffacciarsi con prepotenza sullo scenario mondiale di un paese poverissimo, va considerato che <la Cina assumeva nel 1955, con la conferenza di Bandung, una posizione di primo piano nell’ambito del movimento dei non allineati e del processo di decolonizzazione. E questo non poteva restare senza influenza su quegli intellettuali europei che provavano un senso di colpa per il passato coloniale dei loro paesi Inneggiare alla nuova Cina, magnificarne le conquiste sociali ottenute senza l’impegno – si diceva continuamente benché non se ne avessero le prove – di una violenza paragonabile a quella sovietica, era un modo per liberarsi dal peso del retaggio coloniale>.

Questa convincente spiegazione di una cecità trasversale non può tuttavia adattarsi al caso di Ugo Spirito, non trattato nel volume. Il filoso del problematicismo, dopo la seconda guerra mondiale, va in realtà cercando nuovi orizzonti. Anche lui è un “pellegrino politico”. È del 1956 il suo viaggio in Unione Sovietica e non ne trae sensazioni negative. Raggiunge la Cina nel 1960. Ne scaturiranno gli scritti sui comunismi sovietico e cinese poi raccolti in volume unico. Sul finire degli anni Settanta, in Memorie di un incosciente, così scrive di quelle esperienze: <Vidi gli uomini più rappresentativi della Cina, e mi incontrai finalmente con Mao. Il colloquio ebbe per me un’importanza fondamentale. L’impressione che ne ricevetti andò molto più lontano di ogni mia aspettativa. La sua grandezza mi apparve nella sua genuina profondità. Mao aveva dimensioni eccezionali. Guardandolo negli occhi, se ne aveva la sicurezza assoluta>. Per Spirito, ancora a distanza di decenni, pur con un acquisito distacco e con l’ammissione di non sapere <che cosa sia avvenuto in questo tempo>, il comunismo russo e cinese restano <lo spettacolo di una conquista assoluta che non potrà più ripetersi. Si tratta di un miliardo di uomini che hanno creduto alla nascita della verità>. La fascinazione dunque ci fu. Pari a quello di tanti intellettuali. Tra quelli più coinvolti, anche politicamente, solo Luigi Pintor ebbe a riconoscere nel 1999 che <fu un errore, una clamorosa scivolata, causata dalla necessità di sostituire quello (sovietico) con altri modelli internazionali. Restammo abbagliati dalle suggestioni della rivoluzione cinese, cui attribuimmo – sbagliando – valenze liberatrici>. Una onestà intellettuale, sia pur tardiva, che va riconosciuta al vecchio agitatore comunista. Una onestà che è mancata a una miriade di esaltatori del “grande timoniere”.

Gianni Scipione Rossi

Il testo completo di note in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), XXXI

Premi per giovani con laurea specialistica o magistrale: ecco il bando per partecipare

1. Nell’ambito del programma delle attività istituite per celebrare il quarantesimo anno dalla scomparsa di Ugo Spirito (28 aprile 1979) e il novantesimo della nascita di Renzo De Felice (8 aprile 1929), la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice di Roma bandisce un concorso destinato a neolaureati.
2. Possono prendere parte al concorso i cittadini italiani che siano in possesso di laurea specialistica o magistrale conseguita a partire dal 1° gennaio 2015 ed entro, e non oltre, la data di pubblicazione del presente bando.
3. Si può partecipare presentando progetti di ricerca che mirino alla riscoperta, approfondimento e valorizzazione dell’opera del filosofo Ugo Spirito o dello storico Renzo De Felice, esaminati anche nel più ampio contesto della cultura italiana ed europea del Novecento. Pertanto, le ricerche potranno essere svolte lungo due indirizzi di studio, filosofico e storico. Sarà altresì possibile svolgere uno studio di taglio interdisciplinare, al contempo storiografico e filosofico, sempre e comunque inteso a valorizzare le fonti documentarie, bibliotecarie e archivistiche, presenti presso la Fondazione.
4. Il concorso prevede la selezione da parte del Comitato scientifico dei primi dieci migliori progetti di ricerca. Una volta selezionati, e comunicata la decisione ai diretti interessati, i progetti dovranno essere elaborati e redatti nell’arco di quattordici mesi (dal 1° ottobre 2019 al 30 novembre 2020). Tra questi dieci elaborati finali (di lunghezza non inferiore alle 50.000 battute – spazi inclusi –; più dettagliate norme redazionali verranno comunicate in seguito ai dieci selezionati) il Comitato scientifico premierà le tre ricerche valutate più valide per rigore scientifico ed originalità interpretativa. Il premio consisterà nell’assegnazione di tre borse di studio, dell’ammontare rispettivamente di 1000 euro per il primo classificato, e di 750 euro ciascuno per il secondo e terzo classificato.
5. Gli altri sette progetti di ricerca selezionati, realizzati e consegnati, ma non premiati, saranno oggetto di ulteriore valutazione da parte del Comitato scientifico per eventuale pubblicazione a cura della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.
6. I concorrenti dovranno presentare, unitamente alla domanda di ammissione al concorso, un dettagliato progetto di ricerca di circa 5mila battute (spazi inclusi) corrispondente alle tematiche di cui al punto 3 e contenente adeguate indicazioni sulle fonti, le metodologie e gli obiettivi scientifici della ricerca, oltre ad una preliminare bibliografia di riferimento.
7. La domanda di ammissione al concorso e il progetto di ricerca dovranno essere inviati, entro e non oltre le ore 17,00 del 31 agosto 2019, alla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice esclusivamente come documenti in formato word al seguente indirizzo e-mail: info@www.fondazionespirito.it.

Narcisismo e antipolitica, prognosi riservata

Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio, Venezia 2018.

La crisi della politica e la diffusione quasi egemonica dell’antipolitica che ne è derivata sono superabili? È immaginabile a breve per l’Italia, e non solo, il ritorno a una democrazia per così dire “normale”? Può tornare a prevalere almeno l’aspirazione a disegnare sistema democratico efficiente e capace di gestire una società complessa con una prospettiva di lungo termine, non condizionata da una somma disarticolata e narcisistica di cangianti bisogni individuali? Al termine di un’analisi che spazia da Huizinga a Ortega y Gasset, da De Noce a Elias Canetti, Orsina fa in qualche modo suo il rischio paventato da Alexis de Tocqueville, per il quale il mutare dei costumi nel senso di un individualismo senza limiti avrebbe trasformato il popolo in <una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo>. Una visione apocalittica che l’autore trova nel presente inverata nel prevalere di <grandi coalizioni di rabbiosi e frustrati […], agglomerati costruiti intorno a emozioni a tal punto profonde e grezze da non poter essere attaccate da una critica razionale, che svolgono egregiamente la funzione di valvola di sfogo dell’infelicità, ma che difficilmente saranno in grado di convertire queste energie negative in risorse politiche costruttive>. Ne discende una visione pessimistica delle prospettive: <Se la lista dei sintomi è chiara […] la prognosi e soprattutto la cura restano ancora, in larghissima misura, avvolte nell’oscurità>. Analisi rigorosa, impietosa ma tuttavia convincente.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. XXX, 2018

Fascisti a Londra, tra propaganda e diplomazia culturale

Tamara Colacicco, La propaganda fascista nelle università inglesi. La diplomazia culturale di Mussolini in Gran Bretagna (1921-1940)FrancoAngeli, Milano 2018

Ricercatrice alla University of London, Tamara Colacicco si prefigge con questo volume di ricostruire la diffusione della lingua e della cultura italiana in Gran Bretagna per scopi propagandistici e politici voluta dal regime fascista, impiegando i nuovi orientamenti della storiografia sul Ventennio, in linea e in continuità con le indagini condotte da Benedetta Garzarelli (2002; 2004) e Francesca Cavarocchi (2010).

Per la realizzazione del volume la Colacicco ha indagato negli archivi inglesi e italiani, fra i quali spicca la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, dove ha studiato in particolare il Fondo Camillo Pellizzi, ma ha avuto anche modo di esaminare e di utilizzare i documenti conservati presso The National Archives di Londra e dell’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri, impiegando fonti inesplorate. Elemento che rende il lavoro più originale e analitico, rispetto ad altre pubblicazioni finora realizzate.

Focalizzando la sua attenzione sulla diplomazia culturale estera del fascismo, l’autrice si è concentrata sulla realtà britannica, fissando per la prima volta il ruolo svolto dai docenti universitari di italianistica nell’ambito della propaganda estera del regime.

La Colacicco ha diretto il suo interesse verso le problematiche legate allo Stato totalitario nei suoi rapporti con la politica estera, che hanno prodotto in questi ultimi anni numerosi lavori sulla dimensione europea ed extraeuropea del fascismo. Nel libro si è voluto sottolineare l’apporto innovatore del regime nella concezione e nell’utilizzo delle politiche scolastiche, con una preminenza giocata dai dipartimenti, dalle cattedre e dai lettorati di italianistica, con un’analisi specifica delle singole università. L’autrice ha accompagnato lo studio con la mappatura delle maggiori figure di italianisti, da Camillo Pellizzi (nella foto) a Mario Praz, ma ha voluto analizzare figure meno conosciute e altrettanto importanti come Alberto Orbetello, Adriano Ungaro e Pietro Rèbora, fratello del più noto poeta Clemente Rèbora. Nel libro si è voluta indagare anche l’ideologia di questi intellettuali, valutando la loro vicinanza o meno al regime, utilizzando la divisione proposta anni or sono da Mario Isnenghi, fra militanti funzionari e militanti intellettuali, sottolineando le differenze tra chi era apertamente vicino al fascismo e chi invece preferiva utilizzare l’adesione ideologica per ottenere cariche in ambito universitario.

In tal modo, l’autrice ha potuto focalizzare la sua attenzione sulla University College London, in rapporto con la cattedra di italianistica assegnata a Camillo Pellizzi, fino ad analizzare le Università di Oxford con Cesare Foligno, di Cardiff con Alfredo Orbetello e di Bristol con Benvenuto Cellini, per descrivere i ruoli e le attività svolte dai docenti di italianistica nei maggiori atenei britannici. Non è mancata poi una ricostruzione della realtà delle Università di Leeds, Manchester e Liverpool, esplorando rispettivamente i profili e le strategie di Adriano Ungaro, Piero Rèbora e Mario Praz.

Il risultato ottenuto dalla studiosa con il suo libro è la scoperta di una rete di contatti e di relazioni con il regime, offrendo un contributo originale per esplorare da una diversa e più esauriente prospettiva l’attività svolta dalla propaganda estera del Ventennio, così come il problema dell’inquadramento politico degli italiani emigrati durante il fascismo e il loro rapporto con l’Italia. (Andrea Perrone)

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

Italia e Israele, storia di un rapporto complesso

Mario Toscano (a cura di), L’Italia racconta Israele 1948-2018, Viella, Roma 2018

È ben condivisibile l’auspicio del curatore Mario Toscano <che questo volume possa essere la base per ulteriori ricerche, volte ad ampliare la conoscenza di un capitolo della storia italiana recente e dei dibattiti appassionati svoltisi su un tema delicato> (p. 13). Perché un tema così delicato, e cioè come la politica, la stampa, la cultura italiana si siano rapportate alla nascita dello Stato d’Israele e alla sua storia ormai settantennale, merita più di una sia pur pregevole raccolta di saggi fatalmente orfani di un approccio organico. Il tema è infatti quanto mai complesso, alla luce dell’atteggiamento ondivago che politica, stampa e cultura hanno tenuto, nel loro complesso e spesso in palese e vivace dissenso, nei confronti della patria ebraica. Un atteggiamento che è via via cambiato col mutare del contesto internazionale e dell’orientamento politico delle leadership israeliane, per non dire della percezione della Shoah e delle leggi antiebraiche del 1938. Così, quando Israele nasce e sembra porsi in stretta relazione con il blocco sovietico, le sinistre italiane lo vedono con estremo favore, mentre Dc e moderati sono condizionati dall’atlantismo. Poi, di lustro in lustro, gli accadimenti determinano evoluzioni diverse, ferma restando la persistente linea filoaraba (con le eccezioni del caso) della politica estera italiana, almeno fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Gli autori colgono e spiegano i mutamenti intorno alle date topiche, dal 1951 al 1967 (quando il Pci si schiera contro Israele), e poi al 1982, con l’invasione del Libano disposta dal premier del Likud Menachem Begin. Una svolta, questa, che determina conseguenze ancora non rimosse in una pubblicistica che tende a considerarla come conseguenza naturale della guerra dei sei giorni. Mentre viene rimosso, come nota Alberto Cavaglion, <Quello che è accaduto fra il 1948 e il 1967 [], nel quadro di un’analisi che estende la “brutalità” della politica israeliana a tutto il periodo precedente> (p. 197). Con gli inevitabili limiti d’insieme, il volume presenta saggi accurati che ben illustrano le posizioni dei diversi schieramenti politici e ambienti culturali italiani, con una eccezione difficilmente comprensibile, che riguarda il versante della destra. Guri Schwarz lamenta l’assenza di <studi approfonditi e seri> (p. 155n)) sull’evoluzione del postfascismo finiano su questi temi. C’è del vero, ma nel volume manca qualsivoglia riferimento anche alle posizioni della destra precedente al biennio 1993/1994, forse perché ritenuta politicamente ininfluente, il che – per alcuni periodi – non corrisponde storiograficamente al vero.

Un lavoro più organico non potrebbe che tener conto non solo del citato La destra e gli ebrei di Gianni Scipione Rossi (Rubbettino, Soveria Mannelli 2003), ma almeno della ricerca condotta da Marco Francesconi sui periodici conservati nella emeroteca della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice (Il Movimento Sociale Italiano e il conflitto arabo-israeliano 1946-1973, Europa Edizioni, Roma 2017), e del saggio di Giuseppe Parlato, Neofascismo Italiano e questione razziale, in G. Resta, V. Zeno-Zencovich (a cura di), Leggi razziali. Passato e presente, RomaTre-Press, Roma 2015.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n.1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

1919, nascono i Fasci italiani di combattimento. Ma chi erano i “sansepolcristi”?

Mimmo Franzinelli, Fascismo anno zero. 1919: la nascita dei Fasci italiani di combattimentoMondadori, Milano 2019

Il 18 novembre 1919, quando i risultati delle elezioni politiche sono ufficiali e deve prendere atto che la lista del Fascio Littorio ha raccolto nel collegio di Milano – l’unico in cui ha potuto presentarsi – solo 4.796 voti (9064 totali per il capolista comprese le preferenze da panachage, cfr. p.143), Mussolini scrive sul “Popolo d’Italia”: <La nostra doveva essere ed è stata una semplice affermazione limitata alla circoscrizione elettorale di Milano. Non poteva essere qualcosa di più. Scriviamo questo non già per esibire delle eufemistiche nonché postume giustificazioni e consolazioni a noi e agli altri, ma semplicemente perché è la pura, la sacra, la documentabile verità. Noi siamo scesi in campo per affermarci e ci siamo riusciti. La nostra non è né una vittoria, né una sconfitta: è un’affermazione politica> [Cfr. M. Giampaoli, 1919, Libreria del Littorio, Roma-Milano 1929, pp. 305-306].

<La sconfitta – nota Franzinelli – è interpretata dai contemporanei come la fine di Mussolini> (p. 6). I contemporanei, come si sa, non capirono le potenzialità di quei Fasci fondati dall’ex direttore de “l’Avanti” pochi mesi prima, nella milanese piazza San Sepolcro, il 23 marzo, dopo poche riunioni preparatorie. Non era peraltro facile comprendere come potesse avere successo un movimento antipartitico e pragmatico, <palesemente eterogeneo, che raggruppava rivoluzionari e reazionari, repubblicani e monarchici, sindacalisti e imprenditori> (pp. 5-6). Franzinelliricostruisce sine ira et studio il clima politico e sociale di quel difficile dopoguerra di cento anni fa, quando emergono prepotenti lo scontento degli smobilitati e la debolezza della classe politica liberaldemocratica. Nonché il percorso che portò alla fondazione dei Fasci e il loro primo sviluppo. Di pregio la scelta di dare un contenuto ai nomi dei “sansepolcristi”, una lista peraltro più volte rimaneggiata. Attraverso le loro disparate biografie si può comprendere bene il magma umano dal quale nacque il fascismo, e anche il perché. Nomi notissimi, naturalmente, da Marinetti a Goldman, da Farinacci a Crollalanza, da Chiavolini a Bianchi, da Momigliano ad Arpinati. Ma anche nomi ignoti o dimenticati. Nomi di persone – in maggioranza milanesi e lombarde, ma non solo – che accompagnano il destino del futuro duce fino alla fine, ma anche di quelle che via via si perdono per strada, seguono altri percorsi, anche solo antimussoliniani o nettamente antifascisti.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

 

Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta nella storia italiana

Dino Messina, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta nella storia italiana, Solferino, Milano 2019

Dopo decenni di colpevole oblio, accompagnato da un negazionismo strisciante, anche grazie all’istituzione del Giorno del Ricordo la bibliografia sul dramma delle foibe e sull’esodo giuliano-dalmata è ormai rilevante e attendibile, al di là della memorialistica e della letteratura. Di quegli eventi così tragici e complessi del Novecento italiano si indagano e si portano alla luce anche vicende particolari che contribuiscono a chiarire il quadro d’insieme. Un quadro che opportunamente ricostruisce Dino Messina in questo saggio, appassionato e coinvolgente senza perdere il necessario rigore storiografico. Il suo viaggio parte dal Magazzino 18, nel Porto Vecchio di Trieste, che raccoglie le masserizie degli esuli che nessuno ha reclamato: <Duemila metri cubi di storia, di memorie> (p. 9).

Il racconto si snoda poi nella ricostruzione del contesto politico e militare in cui il dramma si è sviluppato, dopo l’8 settembre del 1943, quando i partigiani comunisti di Tito avviano con le prime stragi in Istria il lungo percorso che mira a cancellare, in un modo o nell’altro, la storica presenza italiana da quelle terre di confine. Un progetto di pulizia etnica che il ministro degli esteri di Tito, Josip Smodlaka, esplicita nel settembre del 1944 su “Nuova Jugoslavia”, rivendicando all’ex Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni una regione amplissima, che avrebbe dovuto comprendere parte del Friuli, Gorizia, Monfalcone, ovviamente Trieste, l’Istria, Fiume, Cherso, Lussino, Zara, sulla base del falso principio della prevalenza demografica slava sull’elemento italiano.

Messina illustra bene, oltre agli errori compiuti dal fascismo, le tre fasi in cui si sviluppa il dramma di quegli italiani, dai primi eccidialle varie tappe dell’esodo, agli anni nei campi profughi. E, attraverso testimonianze toccanti, lo spaesamento che li coglie quando, rinascendo per la seconda volta italiani, comprendono di essere accolti con distacco, imbarazzo e sospetto, come se la loro stessa esistenza fosse una colpa. La colpa, naturalmente, di essere presunti fascisti, mentre per i programmatori delle stragi e della pulizia etnica <non importava se chi indossava la divisa non era un fascista, anzi con il rischio della vita era passato nel fronte antifascista. Per non essere considerato “nemico del popolo” bisognava aderire al progetto di società socialista e nello stesso tempo appoggiare le pretese territoriali della nuova Jugoslavia> (p. 161). Come peraltro dimostrò, nel febbraio del 1945, la strage di Porzȗs.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

1948. Gli italiani nell’anno della svolta

Mario Avagliano, Marco Palmieri, 1948. Gli italiani nell’anno della svoltail Mulino, Bologna 2018//

Il  gennaio del 1948 entra in vigore la Costituzione della Repubblica Italiana. Frutto di un laborioso compromesso tra le forze politiche che avevano partecipato al Comitato di Liberazione Nazionale e ai primi governi dopo il periodo badogliano, rappresenta simbolicamente una svolta definitiva nella storia nazionale. Il 2 giugno del 1946 era stata eletta l’Assemblea Costituente e, con il referendum istituzionale, dal sistema monarchico si era passati a quello repubblicano. Dopo le presidenze del Consiglio di Ivanoe Bonomi e Ferruccio Parri la guida del governo era stata assunta dal leader democristiano Alcide De Gasperi. La fase transitoria della Repubblica si era conclusa. Le prime elezioni politiche furono dunque fissate per domenica 18 e lunedì 19 aprile. <Sono state un passaggio epocale – sottolineano Avagliano e Palmieri -, dall’esito tutt’altro che scontato> (p. 7). Se invece del blocco moderato e filo-occidentale avesse prevalso il blocco socialcomunista, l’Italia avrebbe imboccato una strada tutt’affatto diversa, che è anche difficile immaginare.

Al termine di <quella che può essere considerata la più accesa campagna elettorale della storia nazionale> (p. 7), l’Italia entrò a pieno titolo e senza dubbi, nel clima internazionale della “guerra fredda”, nell’area geopolitica liberaldemocratica, pur inaugurando la sua specifica anomalia politica, e cioè la presenza di un forte Partito Comunista, che nei fatti impedì l’alternanza tra due formazioni contrapposte, dando vita alla cosiddetta democrazia bloccata. Una anomalia che ha condizionato i decenni successivi. Ma in quale clima, con quali strumenti, con quali aspirazioni il popolo italiano visse lo scontro epocale del 18 aprile? A questi interrogativi rispondono gli autori in maniera esauriente ed efficace grazie a grande lavoro di scavo negli archivi pubblici e privati, utilizzando documenti, memorie, interviste, lettere. Ne deriva una densa e in qualche modo affascinante fotografia di un’epoca lontana, contrassegnata da scontri ideologici oggi impensabili. L’esito del 18 aprile non era già scritto, nonostante il sostegno americano e l’impegno della gerarchia cattolica a favore della coalizione centrista.

In quest’ottica, ampio spazio è giustamente dato all’attentato del 14 luglio contro il leader comunista Palmiro Togliatti. Il clima sociale e politico divenne incandescente. Una crisi generale, se non la rivoluzione, sembrò imminente. Ma Togliatti, il Pci e l’Unione Sovietica volevano realmente trasferire l’Italia nel blocco moscovita? E che cosa sarebbe avvenuto sul piano internazionale? E, soprattutto, come vissero questo momento gli italiani? Certo è che la Dc e i suoi alleati centristi furono in condizione, superata la crisi, <di avviare nel concreto la ricostruzione materiale, economica, sociale, politica e culturale del paese, sulla base dei valori del proprio mondo di riferimento> (p.367). Una storia che ha i colori del dramma, raccontata con rigore scientifico e grande maestria.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI