Donato alla Fondazione l’archivio di Roberto Melchionda

La Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ha acquisito l’archivio di Roberto Melchionda, grazie alla donazione fatta dallo stesso studioso. L’archivio consta di 6 fascicoli di corrispondenza con moltissimi esponenti dell’area politica e culturale della Destra del Novecento, da Luciano Lucci Chiarissi a Primo Siena, da Giovanni Volpe a Fausto Gianfranceschi e ancora Attilio Mordini, Giano Accame, Fabio De Felice, Gian Franco Lami, Franco Cardini, Enzo Erra e molti altri. Tutt’altro che infrequente è imbattersi in minute dello stesso Melchionda, non sempre reperibili negli archivi privati, i cui produttori spesso non conservano proprie missive a terzi.

Nel fondo archivistico sono presenti anche suoi scritti, ritagli stampa, brochures di libri, inviti a convegni. Non c’è dubbio che lo studio di queste carte possa illuminare un ambiente, il milieu politico-intellettuale del tradizionalismo cattolico incrociantesi con l’area politica conservatrice, e un periodo, quello degli anni Cinquanta-Settanta del XX secolo, non di rado di difficile esplorazione, per ricostruire gli stati d’animo, i desideri, gli intendimenti e i sentimenti di uomini dediti allo studio in uno spazio culturale spesso ignorato.

Nato nel 1927, Roberto Melchionda ha collaborato con numerose testate giornalistiche, tra le quali sono da ricordare «Tabula rasa» e «Totalità». Nei suoi studi si è occupato in particolare del pensiero filosofico di Julius Evola.

 

Terni, i garibaldini e la battaglia di Mentana

D.S. Pirro, F. Canali (a cura di), Correva l’anno 1867. Terni e l’impresa di Mentana nel 150esimo anniversario, Amici della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, Terni 2018

// Nel generale distacco della memoria storica nazionale dalle vicende del Risorgimento, il 150esimo anniversario della Campagna dell’Agro Romano è trascorso nella più generale indifferenza. Opportuno e meritevole, dunque, il Convegno tenutosi a Terni – città che vide raccogliersi i volontari garibaldini per tentare la conquista di Roma – il 7 ottobre 2017 che ha coinvolto anche il locale Liceo Classico “Tacito” e di cui sono stati pubblicati recentemente gli atti a cura della Delegazione di Terni degli Amici della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. Sia pure in dimensioni contenute, il volume consente di lumeggiare molti aspetti, non scontati, relativi alle res gestae che culminarono nella battaglia di Mentana; gli interventi riguardano infatti la situazione del Regno e dello Stato pontificio alla vigilia delle drammatiche vicende; la discussione in Parlamento prima, durante e dopo Mentana; il ruolo di Francesco Crispi nella Campagna; un ampio ritratto di un genius loci, il ternano Ottavio Coletti, patriota partecipe della spedizione e di molte altre vicende risorgimentali; infine un’interessante ricognizione dei monumenti garibaldini a Terni e provincia. Un volume che, fermo restando il carattere scientifico degli interventi, può essere un efficace strumento didattico per coltivare quelle che una volta si chiamavano le memorie della storia patria. (R.S.)

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX

25 luglio 1943: l’impossibile verità e la percezione dei contemporanei

La Sala del Pappagallo
(Archivio Fotografico Polo Museale
Roma – Fondo Hermanin)

di Gianni Scipione Rossi

//In Rosso e Nero Renzo De Felice definì “romanzo di Benito” l’insieme delle ricostruzioni – vere, verosimili, palesemente false – che per decenni hanno alimentato una corposa letteratura intorno alla morte di Mussolini. Di questo “romanzo” – o se si vuole di un altro “romanzo di Benito” – può essere considerata parte l’altrettanto ampia letteratura relativa al crollo del regime fascista, cioè alla preparazione e allo svolgimento della seduta del Gran Consiglio che ebbe luogo nella sala del Pappagallo di Palazzo Venezia tra il pomeriggio del 24 e la notte del 25 luglio 1943, con l’appendice dell’incontro di Mussolini con Re Vittorio Emanuele III, la nomina di Badoglio a Capo del Governo e l’arresto dello stesso Mussolini.

Di “romanzo” si può in qualche modo parlare perché gli storici si sono dovuti confrontare con due ostacoli insormontabili. Come è noto della seduta del Gran Consiglio non fu redatto verbale, che comunque era sempre stato molto stringato. D’altro canto il colloquio tra Mussolini e il Re a Villa Savoia avvenne senza testimoni, salvo l’aiutante di Campo di Vittorio Emanuele generale Puntoni, che tuttavia si limitò ad ascoltare con difficoltà da dietro una porta. Origliando, si potrebbe dire. <Il colloquio è breve, ma non sarà mai possibile ricostruirlo nei suoi termini esatti>, ammetteva Domenico Bartoli nella sua biografia del Re fin dall’aprile 1946. E così è stato.

Tutto ciò che è stato scritto su quelle 24 ore cruciali per la storia d’Italia si basa non su resoconti oggettivi, bensì sulle memorie divulgate a posteriori, in tempi diversi, dai protagonisti – Mussolini compreso –, da comprimari o da persone in qualche modo a loro legate, spesso sulla base di vere o presunte testimonianze prive di riscontri documentali. Per quanto concerne il Gran Consiglio, come ha confermato Emilio Gentile in una preziosa ma fatalmente non conclusiva indagine comparativa, <cosa veramente accadde in quelle dieci ore, prima della votazione finale, è tutt’ora avvolto nell’incertezza di testimonianze contraddittorie>.

Rimane dunque insuperata la ricostruzione di Renzo De Felice dei fatti accertati e del quadro politico d’insieme in cui maturò il crollo del regime fascista. Approssimativi restano i dettagli. Il che può apparire un paradosso storiografico se si ha presente come gli accadimenti del 25 luglio abbiano suscitato un comprensibile immediato e generale interesse negli italiani, e di conseguenza abbiano prodotto un fiorire incontenibile di pubblicistica. <I primi resoconti abbastanza ampi sulla seduta del Gran Consiglio – sottolinea De Felice – apparvero nella “Nueu rcher Zeitung” del 16 agosto 1943, successivamente pubblicato in Italiano col titolo 25 luglio 1943. L’ultima seduta del Gran Consiglio del Fascismo (s.l. e d.), e nella “Gazzetta Ticinese” del 9 settembre 1943>. Testi semplicemente rimaneggiati apparvero in contributi posteriori. Per quanto concerne la produzione italiana, De Felice segnalava <una pubblicistica coeva in genere poco o per nulla attendibile>. Ma tuttavia assai numerosa e capace di circolare ampiamente tra un pubblico affamato di notizie e retroscena. <Così come quella straniera, alla quale talvolta si rifà, questa pubblicistica – avverte De Felice è quasi sempre caratterizzata da un tono generale e da particolari drammatico-granguignoleschi del tutto fantastici: Mussolini che avviandosi alla riunione dice a Scorza “andiamo nella trappola” e che a un certo punto della seduta sussurra al segretario del partito “forse dovrò darvi l’ordine di arrestare questi messeri; e, ancora, Mussolini che cerca di scagliarsi contro Grandi ma è trattenuto da Scorza e Galbiati; Bottai che lo chiama “pagliaccio” e fa pesanti allusioni alle “sorelle Petacci” e a Magda Fontanges; Mussolini e De Bono (che a un certo punto estrae la pistola) che si scambiano reciprocamente accuse di tradimento; Marinelli che rinfaccia a Mussolini l’uccisione di Matteotti; Grandi che si è portato due bombe a mano e ne passa una a De Vecchi (che proclama di aver preveduto nel 1934 la rovina alla quale Mussolini avrebbe portato l’Italia); Pareschi che agli attacchi contro Mussolini sviene; Farinacci che a un certo punto della seduta fugge; Grandi e Federzoni che appena finita la riunione si recano dal re; ecc.>.

D’altronde le fonti erano – come si è detto – poche e scarsamente affidabili. Si pensi che nel notissimo discorso che il maresciallo Badoglio tenne agli ufficiali a San Giorgio Jonico il 18 ottobre 1943, lo stesso neo presidente del Consiglio sostiene che <La mattina del 25 luglio Mussolini si presentò a Villa Savoia a S. M. il Re e comunicò la mozione del Gran Consiglio>. Nella mattina, dunque, e non nel pomeriggio come fu nella realtà. Nella prima ricostruzione svizzera si afferma che il ministro della Real Casa Acquarone chiamò tre volte Mussolini, dalla mattina del 25, per chiedergli di andare a conferire con il Re. Un particolare che non ha mai avuto riscontri.

Solo nel giugno-luglio 1944 Mussolini pubblica la sua “verità” – la Storia di un anno – sul “Corriere della Sera”: una serie di articoli poi raccolti in un supplemento al quotidiano in agosto e, a novembre, nella prima edizione Mondadori. Mentre il primo memoriale Grandi – sei articoli scritti a Lisbona – apparve in Italia in una edizione Documenti nel gennaio 1945.

Tra i fascicoli coevi citati da Renzo De Felice, il più elaborato ma non per questo attendibile – è forse quello intitolato Dal 25 luglio al 10 settembre. Nuove testimonianze, privo di autore e di editore, ma che risulta stampato in Roma il 31 agosto 1944 nella tipografia S.A.I.G. Una prima edizione risulta curiosamente e forse solo formalmente stampata il 1° gennaio 1944. Entrambe hanno una copertina e un frontespizio interno. Nella prima edizione la copertina reca il titolo dal 25 luglio al 10 settembre. Nella seconda il titolo è semplicemente dal 25 luglio. In entrambi i casi il sottotitolo esterno recita: un organico complesso di documenti editi ed inediti sulla seduta del Gran Consiglio, l’arresto e il “prelievo” di Mussolini, e l’abbandono di Roma.

Misterioso resta l’autore. Una breve prefazione (non aggiornata tra gennaio e agosto) è firmata con le iniziali G. M. L’ignoto prefatore avverte correttamente e lucidamente che <gli avvenimenti italiani che vanno dal 25 luglio all’8 settembre 1943 sono tanto vicini a noi, e non ancora per così dire “scontati”, che difficile riuscirebbe volerli inquadrare nella storia. È per questo che le pagine che seguono altro fine non hanno se non quello di una cronaca pura e semplice, una cronistoria degli avvenimenti secondo le fonti sin’ora apparse, fonti per lo più incrinate da preconcetti di parte o sfasate da interessi di singoli>. Le identità di autore e prefatore restano per ora ignote. Potrebbero essere la stessa persona, ma non vi è alcun indizio in questo senso. G. M. potrebbero essere le iniziali di tale Giulio Mariotti, che ha firmato un fascicolo Verità sugli avvenimenti del 25 luglio e 8 settembre 1943, stampato nel 1946 nella tipografia Pozzolini di Livorno. Ma si tratta di una semplice congettura.

D’altronde, in quei mesi, e per qualche anno, prodotti editoriali di questo tipo – sempre presentati come una più vera verità – spesso sono non firmati o firmati con pseudonimi. Gli autori sono altrettanto spesso giornalisti che, nel trapasso di regime, hanno difficoltà a conservare il posto di lavoro o a trovarne uno nuovo. E si dedicano a questi lavori per integrare o garantirsi un reddito. Utilizzando lo stile dell’indagine scandalistica che caratterizzerà per anni, su questi temi, i diffusissimi rotocalchi.

Talvolta – e riguarda non solo la pubblicistica minore – vi sono anche ragioni di opportunità politico-editoriale. Si pensi al caso del volume agiografico Io difendo la monarchia, pubblicato nel marzo 1946 a firma di Pietro Silva (Parma, 1887 – Bologna, 1954), in vista del referendum istituzionale, ma in realtà commissionato da Alberto Bergamini e Mario Missiroli e scritto – come ha scoperto e spiegato Francesco Perfetti – non dallo storico Silva, bensì dal giornalista Ugo D’Andrea (L’Aquila, 1893 Roma, 1979), che già nel 1945 aveva utilizzato uno pseudonimo – Filippo Giolli – per firmare Come fummo ridotti alla catastrofe.

Una curiosità ulteriore riguarda l’editore del volume“monarchico”, stampato nella tipografia Novissima perdf de Fonseca Editore in Roma”, cioè da Giorgio de Fonseca. Figlio dell’intellettuale anglo-italiano Edoardo de Fonseca, profeta del modernismo d’inizio secolo con le riviste “Novissima” e “La Casa”, era sposato con la marchesa Angela d’Albertas, cugina dei Calvi di Bergolo. Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, marito di Iolanda di Savoia, era il genero di Vittorio Emanuele III. Un editore di estrema fiducia, dunque. E questo non sorprende. Ma Giorgio de Fonseca, fino al crollo del regime, con la sua Novissima, pubblicava i discorsi di Mussolini. Poi, nel febbraio 1945 dà vita alle Nuove Edizioni Italiane con Enrico Falqui, che dirige i trimestrali letterari “Poesia” e Prosa”. Nel maggio 1945 pubblica il fascicolo anonimo L’ultima ora di Mussolini, sulla cui fine si scrive che è stata <orrenda ma… meritata>. Nello stesso periodo la sorella di Giorgio, Alice de Fonseca, è ancora rifugiata a Lezzeno, sul lago di Como, dopo aver raggiungo Mussolini nella Repubblica Sociale. Alice de Fonseca era stata fin dal 1923 amante del duceforse padre di due dei suoi tre figli – e non aveva mai interrotto il rapporto. Grazie al quale, dopo vari rovesci di fortuna, riusciva anche a garantire al fratello la committenza pubblica per Novissima.

Vite e storie che si intrecciano. E che spiegano e giustificano gli pseudonimi. Come un Lorenzo Barbaro, citato dall’ignoto autore di dal 25 luglio al 10 settembre come fonte autorevole, poiché <cela la personalità di un giornalista molto noto>. Il riferimento è all’articolo “La giornata degli inganni”, apparso sul quotidiano“Risorgimento Liberale” il 25 luglio 1944. Che tuttavia contiene almeno un errore, perché indica in 45 minuti la durata del colloquio tra Mussolini e il Re a villa Savoia, piuttosto che in soli 20 minuti, come sembra accertato da successive convergenti testimonianze.

Siamo ancora nel campo delle congetture. Ma non è improprio immaginare che la citazione del <giornalista molto noto> sia una civetteria destinata a chi – e non era difficile per i contemporanei – ben conosceva l’identità celata: una sorta di compiaciuta autocitazione. Lorenzo Barbaro non era che lo pseudonimo del giovane Domenico Bartoli (Torino, 1912 Roma, 1989), da tempo collaboratore del “Corriere della Sera” e tra i fondatori di “Risorgimento Liberale”. Il futuro direttore del “Resto del Carlino” e de “La Nazione” scriveva corrispondenze per il Corriere dall’Italia occupata. Ma fu tra i primi a tentare di chiarire i misteri del 25 luglio, come ebbe a ricordare Enzo Forcella: <Un giorno sulla prima pagina del Corriere della Sera appare una particolareggiata ricostruzione di come erano andate effettivamente le cose nella famosa riunione del Gran Consiglio. [] Quali che fossero le sue fonti, comunque, per noi giovani nutriti sino ad allora con le veline del regime fu una grande lezione di giornalismo>. Il pezzo era uscito il 18 settembre 1943 con il titolo “Il 25 luglio a Villa Savoia”. Con lo pseudonimo Lorenzo Barbaro, svelato da Gerardo Nicolosi, Bartoli firmò nel luglio dell’anno successivo su “Risorgimento Liberale” l’articolo citato nel fascicolo anonimo. Tra il primo e il 19 agosto dedicò sullo stesso quotidiano quattro puntate al tema “Come si giunse al 25 luglio”. Materiali ancora grezzi, poi affinati nella sua biografia di Vittorio Emanuele uscita per Mondadori nell’aprile del 1946.

La diffusione degli anonimi e degli pseudonimi – e anche delle rifusioni da una sede all’altra di presunte scoperte giornalistiche – non consente, almeno per ora, di attribuire la paternità del fascicolo prefato da M.C. a Domenico Bartoli. Sarebbe, peraltro, solo una curiosità storiografica, anche se ulteriormente rivelatrice di come fosse in ebollizione e in perpetuo movimento l’ambiente giornalistico italiano nel lungo passaggio dal regime fascista alla Repubblica. Un mondo, come si è detto, che tentava con gli strumenti a disposizione di costruire una narrazione capace di rispondere alle domande che si poneva la gente comune.

[…]

Testo completo di riferimenti bibliografici e documento allegato in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX, pp. 201-218.

 

Dall’Adriatico al Tirreno, l’approdo genovese degli esuli giuliano-dalmati

Petra Di Laghi, Da profughi ad esuli. L’esodo giuliano-dalmata fra cronaca e memoriaEdizioni Accademiche Italiane, Chisinau 2018

//Sviluppo editoriale della sua tesi di laurea magistrale in Scienze storiche presso l’Università degli Studi di Torino, l’opera prima di Petra Di Laghi è dedicata all’accoglienza dei profughi istriani, fiumani e dalmati a Genova nel periodo 1945-1955. Oltre alla padronanza della bibliografia più aggiornata in merito alla complessa vicenda del confine orientale, l’autrice ha effettuato ricerche archivistiche a Genova e presso l’Archivio Museo Storico di Fiume al quartiere giuliano-dalmata di Roma.

La prima parte del volume è dedicata alle dinamiche che condussero all’allontanamento del 90% della comunità italiana dell’Adriatico orientale: in tal senso particolare rilievo è dato allo “spaesamento”, elemento determinante nella scelta dell’esodo assieme al clima di terrore diffuso dall’apparato poliziesco del nascente regime comunista jugoslavo. È inoltre ben contestualizzato il traumatico impatto dell’attentato dinamitardo titoista di Vergarolla che, con il suo lascito di decine di morti e di feriti tra i civili, fu una componente in più nell’indirizzare la quasi totalità degli abitanti di Pola ad esercitare l’opzione per la cittadinanza italiana e quindi l’abbandono della propria città. Prima di addentrarsi nel suo case study, l’autrice delinea le dinamiche dell’esodo a seconda della località di provenienza e specifica la scelta compiuta da molti, di fronte allo squallore dei campi profughi ed alla devastata situazione dell’Italia del dopoguerra, di emigrare oltreoceano (Americhe, Sudafrica, Australia).

A dispetto di quanto si potrebbe pensare conoscendo la tradizione comunista genovese e l’ostracismo che altre piazze “rosse” dedicarono ai connazionali in fuga dal confine orientale, la Di Laghi riferisce di un contesto che non ha manifestato avversione nei confronti dei circa 6.350 esuli giunti nel capoluogo ligure (8.500 in tutta la regione, stando al censimento contenuto in Amedeo Colella, L’esodo dalle terre adriatiche. Rilevazioni statistiche, Julia, Roma 1958). Costoro, fin dai primi arrivi, trovarono la prima accoglienza presso la stazione Principe a cura della Pontificia Commissione di Assistenza Auxilium e dell’Ente Comunale di Assistenza. La graduale sistemazione dei giuliano-dalmati a Genova avvenne non solo tramite il Centro Raccolta Profughi numero 72 della limitrofa Chiavari (ex colonia marittima fascista), ma anche attraverso la forma originale degli alloggi collettivi sparsi nell’area cittadina, sfruttando piccoli appartamenti e palestre. Solamente nel 1955 verranno edificate le prime case dell’Opera per i Profughi Giuliani e Dalmatiall’interno delle quali troveranno una collocazione anche i nonni materni dell’autrice, i quali hanno conservato nell’ambito della famiglia la memoria delle proprie radici e contribuito a stimolare l’attenzione e la passione storica della nipote verso queste pagine di storia nazionale troppo a lunghe rimaste in secondo piano.

Il lavoro della giovane ricercatrice genovese si contestualizza in un filone che ultimamente ha fornito interessanti contributi riguardo lo studio dell’arrivo e della sistemazione dei 350.000 istriani, fiumani e dalmati che avevano abbandonato le terre in cui vivevano radicati da secoli. Siamo passati dagli studi pionieristici non privi di memorialistica confezionati da Lino Vivoda (Campo profughi giuliani, Caserma Ugo Botti, La Spezia, Istria Europa, Imperia 1998) a Popolo in fuga. Sicilia terra d’accoglienza di Fabio Lo Bono, dedicato all’inserimento degli esuli nel contesto diTermini Imerese e recentemente pubblicato in una seconda edizione ampliata ed arricchita di contenuti. Se l’Istituto della Resistenza di Lucca ha sostenuto le ricerche di Armando Sestaniconfluite nel testo Esuli a Lucca. I profughi istriani, fiumani e dalmati 1947-1956 (Pacini Fazzi, Lucca 2015), un crescente numero di visitatori si reca al museo allestito dall’Unione degli Istriani all’interno dell’ex campo profughi di Padriciano sul Carso triestino.

Lorenzo Salimbeni

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2019, n. 1, nuova serie, a. XXXI.

 

La Destra, gli anni di piombo e l’illusione di Democrazia Nazionale

Giuseppe Parlato, La Fiamma dimezzata. Almirante e la scissione di Democrazia Nazionale, Luni, Milano 2017

// Nella ormai vasta e articolata offerta storiografica sulla destra politica post-fascista mancava una ricostruzione della vicenda di Democrazia Nazionale, il partito nato nel dicembre del 1976 per scissione dal Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale ed esauritosi nel 1979, dopo l’infausta partecipazione delle sue liste alle elezioni politiche di quell’anno, nelle quali raccolse appena lo 0,6% dei suffragi.
Non che siano mancati riferimenti nei volumi dedicati al Msi. Ma in quei contesti Democrazia Nazionale è stata trattata alla stregua di una semplice e velleitaria parentesi, appena più rilevante delle numerose altre micro-scissioni che hanno segnato il partito di estrema destra sin dalla fondazione.
Per dimensioni, caratteristiche, ambizioni Democrazia Nazionale fu in realtà molto di più e – per quanto breve – non può essere sminuita a episodio, ma è invece opportuno analizzarla come parte integrante della storia del postfascismo italiano. Giuseppe Parlato lo fa – si può dire finalmente – sulla base di un’accurata ricerca delle fonti, memorialistiche e archivistiche, ormai disponibili, collocando la vicenda nel fluire della storia del postfascismo e nel contesto degli avvenimenti politici italiani della seconda metà degli anni Settanta, essenzialmente caratterizzati dall’esperienza della “solidarietà nazionale”, che vide la collaborazione tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. I due partiti che insieme raccoglievano circa l’80% dei voti espressi, mentre si manifestava il clima degli “anni di piombo”, segnati dal terrorismo e dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro.
Un periodo particolarmente critico della storia repubblicana, che matura dopo la crisi della formula politica del centro sinistra, esauritasi con le elezioni politiche del 1972 dopo anni di fibrillazioni e incertezze. Anni in cui emerse la concreta opportunità per il Msi di tornare a svolgere – come negli anni Cinquanta – un ruolo politico non puramente testimoniale. La lunga leadership di Arturo Michelini era stata caratterizzata dal fallimento del progetto della “grande destra”, accettato dal Pdium di Alfredo Covelli ma rifiutato dal Pli di Giovanni Malagodi. Le elezioni politiche del 1968 per il Msi furono insoddisfacenti e ne certificarono l’isolamento. Con la morte prematura del segretario, l’anno successivo, la guida del partito fu affidata – e Parlato nel ricostruisce le ragioni – a Giorgio Almirante, che riuscì, grazie alla crisi del centro sinistra e alla battaglia parlamentare contro l’istituzione delle Regioni a statuto ordinario, a imprimere una svolta movimentista, sia pure con elementi di ambiguità culturale e programmatica che costituirono il brodo di coltura degli avvenimenti successivi.
Nelle vicende interne al Msi, Almirante rappresentava le suggestioni identitarie del neofascismo, opposte alla prospettiva di una storicizzazione del regime messa in campo – pur con accenti diversi – da esponenti del partito quali Ernesto De Marzio, Nino Tripodi, Pino Romualdi. Con il ritorno alla segreteria, Almirante tentò di gestire le diverse componenti proponendo da un lato il Msi come “alternativa al sistema” partitocratico; dall’altro come fulcro di una alleanza dei moderati anticomunisti, sulla scia della “grande destra” micheliniana. Da qui la nascita della Destra Nazionale, aperta a personalita’ estranee al neofascismo, che tuttavia nelle elezioni politiche del 1972 – a causa della capacità della Democrazia Cristiana di recuperare il “voto utile” in senso anticomunista – non riuscì a conquistare un consenso tale da renderla politicamente indispensabile.
In fondo da quella vittoria “dimezzata” – in un’Italia spazzata dal terrorismo – nasce la crisi interna del partito che porterà alla scissione del 1976, paradossalmente grazie all’intuizione di Almirante di ampliare il progetto della Destra Nazionale accelerandolo con la più ambiziosa Costituente di Destra, che servì agli scissionisti come strumento regolamentare per la costituzione di gruppi parlamentari autonomi.
Una scissione di vertice, certamente, della quale Parlato ricostruisce efficacemente genesi, passaggi, particolari e motivazioni. L’unica scissione partitica della storia repubblicana caratterizzata dall’abbandono della maggioranza degli eletti in Parlamento, che consentì di attribuire alla nuova formazione una quota rilevante del finanziamento pubblico sul quale, all’epoca, si reggeva l’attività dei partiti. La reazione di Almirante – che rimase alla guida del partito con l’appoggio di Romualdi e Rauti – fu incentrata sul concetto etico di “tradimento”, mentre nella vulgata cominciò immediatamente a circolare il sospetto di una manovra ordita e finanziata dalla Democrazia Cristiana. Parlato dimostra come tale sospetto fosse infondato sul piano fattuale e politico, mentre sottolinea l’abilità di Almirante – a costo di un’inversione rispetto alle prospettive di moderatismo da lui stesso alimentate – nel suscitare lo sdegno e la relativa mobilitazione della base del partito, che solo in misura esigua aderisce alla scissione in sede locale. Lo stesso Andreotti, nel suo diario, alla data della scissione scrive: «Qualcuno si congratula con me: non so se ci sia da congratularsi, ma sta di fatto che io l’ho appreso soltanto dopo e nessuno mi aveva chiesto un parere in proposito». D’altra parte – come rileva Parlato – per la Dc «era preferibile avere un Msi nostalgico ed estremista piuttosto che una destra moderna e compatibile con il sistema». Non c’erano, in sostanza, le condizioni politiche perché l’avventura di Democrazia Nazionale – formazione peraltro molto litigiosa al suo interno e priva di una indiscussa leadership – potesse evolvere in un progetto stabile e aggregante sul versante politico della destra. Per certi versi, gli esponenti di Democrazia Nazionale – additati di “tradimento” – furono a loro volta “traditi” dalla Dc. O, meglio, tradite furono le loro velleitarie aspettative, frutto di una errata lettura politica del momento storico e del tenore dei loro rapporti con esponenti democristiani.
«Il vero problema degli scissionisti – rileva Parlato – fu proprio la mancanza di veri rapporti istituzionali con il potere: se a livello di singoli gli esponenti del mondo moderato avevano contatti e amicizie in campo democristiano (Tedeschi con Piccoli, Delfino con Andreotti, De Marzio con Moro, Nencioni con Fanfani, solo per fare qualche esempio), nessuno di tali rapporti si trasformò in rapporto politico; e ciò basterebbe per smentire la strategia Dc su Democrazia Nazionale: in altre parole, se la Dc avesse voluto la scissione, l’avrebbe fatta meglio. Al dunque, solo Fanfani si spese a favore di Democrazia Nazionale in occasione della costituzione del gruppo al Senato e ciò non dipese dai contatti e dai rapporti con gli scissionisti ma da riflessioni autonome del Presidente del Senato in ordine alla evoluzione della politica Dc». Gli scissionisti, dunque, furono utilizzati per ragioni di tattica interna al partito democristiano, non nel quadro di una prospettiva politica neo moderata di lungo respiro.
Il fallimento di Democrazia Nazionale era sostanzialmente già scritto in nuce. Fu un’operazione inattuale e ingenua che – al di là del destino personale dei singoli scissionisti, in larga parte consapevoli dell’errore commesso – determinò un rallentamento di quel processo di costruzione – come lo definisce Parlato – di un «collettore di un elettorato moderato e anticomunista che spesso si trovava in difficoltà a votare per la Dc». Per ragioni ben comprensibili, avendo riguardo alla natura culturalmente plurale di quello che è stato definito “arcipelago democristiano”, destinato col tempo ad esaurire la sua stessa esperienza.

Gianni Scipione Rossi

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX

Note e riferimenti bibliografici nella versione cartacea.

 

In ristampa il primo fascicolo 2019 degli “Annali” della Fondazione

Esaurita la prima edizione, è in ristampa il primo fascicolo semestrale degli “Annali” della Fondazione (Anno I, n. 1/2019 XXXI, nuova serie).

I filosofi Ugo Spirito e Giovanni Gentile e il sociologo Gino Germani sono i “protagonisti” del nuovo fascicolo degli “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, che ha aperto la nuova fase della rivista fondata nel 1989. Trentuno anni dopo, gli “Annali”, conservando le caratteristiche di rigore scientifico che li hanno fatti apprezzare nel tempo, diventano un periodico semestrale.

Nel quadro delle iniziative che la Fondazione ha in programma nel quarantennale della morte di Ugo Spirito e nel novantesimo anniversario della nascita di Renzo De Felice, il fascicolo si apre con una sezione dedicata al filosofo aretino, curata da Gianni Scipione Rossi. Contiene l’inedito Verso la grande civilizzazione, scritto da Spirito nel 1978, come appendice a un libro dedicato all’analisi e alle prospettive della “rivoluzione bianca” voluta in Iran dallo Scià Mohammad Reza Pahlavi, rovesciato all’inizio del 1979 dalla rivoluzione islamista degli ayatollah. Il libro non è mai stato pubblicato in Italia nella sua integralità e fu al centro di un giallo bibliografico, che il saggio introduttivo intende finalmente chiarire sulla base di una approfondita analisi delle fonti archivistiche.

Nella seconda sezione, “Giovanni Gentile nella cultura italiana”, curata da Rodolfo Sideri e introdotta da Hervé A. Cavallera, trovano spazio gli atti del convegno tenuto in Fondazione sul pensiero del filosofo. Questi i saggi: Il soggetto gentiliano tra esistenzialismo e postmoderno di Rodolfo Sideri; Eternità e divenire dell’atto. La critica di Gentile al relativismo, di Hervé A. Cavallera; La Teoria generale dello spirito come atto puro e la costruzione dell’attualismo, di Massimo Piermarini; El desafío del devenir, di Francesc Moratò; L’ombra del pensato. La teoresi gentiliana dell’errore, di Giuseppe D’Acunto; Vae soli, attualismo e solipsismo, di Tiziano Sensi;L’Enciclopedia di Gentile, di Alessandra Cavaterra.

Gino Germani, un inedito e il suo archivio” è il titolo della sezione dedicata al sociologo italo-argentino nel quarantennale della morte. La sezione è introdotta dalla studiosa argentina Ana Grondona, con il saggioAutoritarismo(s), clases medias y el problema de las generaciones , che introduce lo scritto inedito di Gino Germani presente nel suo archivio, conservato dalla Fondazione: Ceti e generazioni alla vigilia della Marcia su Roma. La sezione è completata dal saggio Gino Germani: la sociología, los viajes, el exilio, nel quale lo studioso argentino Juan Ignacio Trovero dà conto analiticamente del contenuto dell’archivio Germani. Grondona e Trovero, che hanno a lungo esaminato le carte Germani presso la Fondazione, lavorano presso l’Università di Buenos Aires e nell’Instituto de Investigaciones Gino Germani attivo nella capitale argentina.

Il fascicolo presenta inoltre i saggi La genesi del Consiglio Nazionale delle Ricerche (1915-1923), di Andrea Perrone; Il capodanno perduto del 1947, di Leonardo Varasano; Il fascismo e l’europeismo di Gian Domenico Romagnosi, di Matteo Antonio Napolitano; Un guascone nel Novecento: Valerio Pignatelli di Cerchiara, di Andrea Cendali Pignatelli.

Nella nuova sezione “Note sul Novecento”, Danilo Breschi pubblica Quella voglia di libertà che da Praga brucia ancora e Nicola Rao 20 luglio 1969, l’avventura che ci fece sognare.
Completano il fascicolo le recensioni, le segnalazioni librarie e le notizie sull’attività della Fondazione.

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1969, quel giorno. Memoria semiseria di un adolescente

di Gianni Scipione Rossi

// Non avevo 16 anni. Seconda liceo in stile Coppedè, ma rimandato a settembre in matematica, come l’anno prima, e l’anno dopo. Perché mai ho rifiutato il Classico? Ma se nel 1968 non ti ribellavi, a qualunque cosa, chi eri? Se non ti ribelli a quattordici anni, chi sei?

Il mondo intero e gli ormoni erano in fermento. Quel giorno. C’è oggi un’ipertrofia di celebrazioni. Ma a me importava sul serio della Luna? Questo non riesco a metterlo bene a fuoco. A fuoco metto solo che da mesi puntavo E., che neppure mi guardava, o quasi. Ella non lo avrebbe fatto mai… Je t’aime… moi non plus. Ormai, comunque, ci si ripensava a fine settembre…

Evitare l’estate in campagna era impossibile, da rimandato. Ma non è che si zappasse… E ne guadagnai un Trotter, per andare a ripetizione in città. Talvolta. Talaltra al lago. Tanto non c’erano i cellulari. Viterbo. La mia città di nascita e del cuore. La città di vita era Roma, ovvio. Con una residua punta di nostalgia per Trieste, lasciata da poco. Anche sul confine orientale c’era una E., che non mi guardava…

Quel giorno. No, la Luna non era al centro dei miei pensieri. Ma c’era fibrillazione nella famiglia allargata ospite dei nonni. A loro della Luna importava meno di niente. Si erano stupiti per i dirigibili, gli aerei, le macchine. La modernità l’avevano digerita in due anteguerra e altrettanti dopoguerra. Che cosa vuoi che sia la Luna? Quella interessava la generazione di mezzo. Con un problema strategico. Nell’arcadia estiva dei nonni il televisore non c’era. E non ci mancava. Tre anni e un giorno prima avevo subito alla radio la tragica, catastrofica, incredibile sconfitta con la Corea del  del Nord.

Ma come si fa ad accontentarsi della radio mentre l’uomo alluna? Qualche lustro dopo avrei sostenuto il contrario, per ragioni di bottega. “Andiamo!”, ordinò mio zio al nipote maschio più grande, cioè sicuramente a me. “Andiamo!” E andammo, a traslocare l’arcano strumento urbano che doveva diventare villano.

Non c’erano suv in giro e l’Ape del mezzadro non sembrò adatto. Ma infilacela la monumentale tv lignea nel Maggiolone grigio topo del nonno, il mezzo di trasporto più ampio a portata di mano. Il televisore viaggio’ comodamente davanti, al posto della nonna. Un’avventura degna di Jules Verne, altro che Luna.

M’importava della conquista dello spazio? No, ma fu memorabile. Un’emozione difficile da descrivere. Incollati allo schermo, in circolo, nel salone dei pranzi familiari. “Fate silenzio!” Ne’ di Tito Stagno ne’ di Ruggero Orlando ho memoria. E anche oggi, con tutto il rispetto, non mi sembrano così importanti nella narrazione. Sarebbe meglio raccogliere quella di un contadino del Montana. È un po’ un tic narcisistico di noi giornalisti considerarci al centro della scena mentre abbiamo la fortuna di essere pagati per essere proprio lì.

Quel giorno. Gli eroi erano loro. Gli astronauti. Io non avrei mai avuto il coraggio. Mai. E loro ci portavano sulla Luna. Noi, al plurale, l’umanità. È servito a qualcosa? O era solo una inutile sfida da guerra fredda?  (comunque noi di qua la stavamo vincendo) Sotto il profilo tecnologico è servito, sicuramente. L’umanità è rimasta quel che era e sarà. Ma ogni tanto sogna.

Quel giorno, quanto sognammo quel giorno… Emozione, grida, paura… “E se precipita?” “Riusciranno a tornare?” “Fate silenzio!” Anche i nonni si emozionarono, pur indossando la maschera di un altero distacco.

A quindici anni e poco più pensi che se sei arrivato, con loro, sulla Luna, e hai sentito quel piede come tuo, la vita ti offrirà cose straordinarie. E sei felice. Ecco, quel giorno fui felice, accantonando E. Ce la giocheremo a settembre… Verrà lo so, verrà, la fine di agosto… Nell’attesa, con mia cugina, uscimmo a riveder le stelle. Un prato di lucciole ci abbagliò.

Poi ci sono toccati gli anni di piombo. Per un po’ non guardammo la Luna.

Ugo Spirito e l’Iran. L’inedito del 1978 in uscita a settembre

Nel quadro delle iniziative che la Fondazione sta intraprendendo a quarant’anni dalla morte di Ugo Spirito e a novant’anni dalla nascita di Renzo De Felice, per ricordare e valorizzare l’opera del filosofo e dello storico, particolare rilievo assume il programma di pubblicazione di una serie di volumi in co-edizione con la casa editrice Luni di Milano. L’iniziativa è resa possibile dalle previsioni ex Art. 1, comma 416 della Legge 30 dicembre 2018, n. 145.

Si tratta di pubblicare inediti e di rendere disponibili testi poco conosciuti, in particolare gli scritti giornalistici di due autori che, ciascuno nel suo campo, hanno dato lustro alla cultura italiana del Novecento.

Il primo volume a vedere la luce –  nel mese di settembre 2019 – sarà l’inedito di Ugo Spirito Filosofia della grande civilizzazione, a cura e con introduzione di Gianni Scipione Rossi e con una postfazione di Hervé A. Cavallera.

Negli ultimi mesi di una vita segnata da una speculazione che tende a inverarsi nell’azione politica, Ugo Spirito ha lavorato a un volume sull’Iran governato da Mohammad Reza Pahlavi. Un libro rimasto inedito nella sua stesura integrale e oggetto, in tempi diversi, di manipolazioni e censure, Conservato nel suo archivio privato, a quarant’anni di distanza il testo appare per la prima volta nella sua versione originale, che rivela il reale pensiero del filosofo.

Lo sforzo compiuto da Spirito è stato volto, nell’autunno del 1978, a comprendere e illustrare criticamente le linee guida della “rivoluzione bianca” dello Scià – avviata nel 1963 – inquadrandole nella storia della Persia e valutandone le possibili evoluzioni, mentre il Paese era sconvolto dalle proteste di piazza sfociate nel 1979 nella rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeyni.

In preparazione:

Ugo Spirito, Filosofia della grande civilizzazione. La “rivoluzione bianca” dello Scià, a cura di Gianni Scipione Rossi. Postfazione di Hervé A. Cavallera, Luni Editrice/Fondazione Ugo Spirito e a Renzo De Felice, Milano-Roma 2019

Il volume sarà acquistabile attraverso i normali canali di distribuzione e presso la sede della Fondazione.

Per prenotarlo: info@www.fondazionespirito.it

 

 

 

Dall’Archivio: Ugo Spirito, Romagnosi e l’idealismo (1925)

L’Archivio di Ugo Spirito è comparabile a uno scrigno: contenitore del passato, ma custode del presente e del futuro. Tra le numerose carte e i molti estratti, questo breve scritto sul rapporto tra Gian Domenico Romagnosi e l’idealismo – pubblicato sul noto «Giornale critico della filosofia italiana», diretto da Giovanni Gentile – svela, con un’analisi obiettiva, rigorosa e critica, un tratto fondamentale della costruzione filosofica di Romagnosi. Sul finale, inoltre, Spirito si pose il non scontato problema della memoria del contributo romagnosiano nel suo tempo. Nella sintesi, dunque, molta sostanza.