Ugo Spirito e l’Iran, esce il libro “fantasma”

Può già essere ordinato nelle librerie online il saggio che Ugo Spirito scrisse nel 1978 sull’Iran – Filosofia della grande civilizzazione – che vede la luce per la prima volta nella sua versione integrale, grazie alle iniziative prese dalla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice nella quarantennale della scomparsa del filosofo aretino. 

Il libro “fantasma” di Ugo Spirito

Nel gennaio del 1979, mentre il regime dello Scia’ stava cedendo il passo alla rivoluzione islamica, il testo apparve in una parziale e manipolata versione inglese, mai entrata nel mercato editoriale.

Il libro

Negli ultimi mesi di una vita segnata da una speculazione che tende a inverarsi nell’azione politica, Ugo Spirito ha lavorato a un volume sull’Iran governato da Mohammad Reza Pahlavi. Un libro rimasto inedito nella sua stesura integrale e oggetto, in tempi diversi, di manipolazioni e censure. Conservato nel suo archivio privato, a quarant’anni di distanza il testo appare per la prima volta nella sua versione originale, che rivela il reale pensiero del filosofo.

Lo sforzo compiuto da Spirito è stato volto, nell’autunno del 1978, a comprendere e illustrare criticamente le linee guida della “rivoluzione bianca” dello Scià – avviata nel 1963 – inquadrandole nella storia della Persia e valutandone le possibili evoluzioni, mentre il Paese era sconvolto dalle proteste di piazza sfociate nel 1979 nella rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeyni.

Lo Scià appare a Ugo Spirito come un sovrano illuminato e ne valuta positivamente il sogno di trasformare l’Iran in una sorta di Città del Sole, nella quale regnino l’armonia e la collaborazione tra le classi sociali, nella prospettiva di un intenso sviluppo industriale. Una “città” laica, in cui non vi siano più sfruttatori e sfruttati, ricchi e poveri, proprietari e servi, secondo la tradizione socialista dalla quale, secondo Spirito, lo Scià ha tratto ispirazione per tracciare una “terza via” tra liberismo e comunismo.

Per quanto illuminato, Spirito giudica il regime iraniano un dispotismo dittatoriale, errato sul piano teorico e fatalmente destinato a terminare con la scomparsa del suo protagonista.

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Ugo Spirito, Filosofia della grande civilizzazione. La “rivoluzione bianca” dello Scià, a cura di Gianni Scipione Rossi. Postfazione di Hervé A. Cavallera, Luni Editrice, Milano 2019, pp. 192, € 22.00

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Il ruolo di Ugo Spirito nell’Enciclopedia Italiana

//di Alessandra Cavaterra

Una fotografia, conservata nell’archivio personale di Ugo Spirito, risalente al 10 gennaio 1931, ritrae, nell’ordine, da sinistra, Giovanni Treccani, Benito Mussolini, Calogero Tumminelli, Giovanni Gentile in occasione della visita del Duce all’Istituto Giovanni Treccani, promotore della Enciclopedia italiana. Accanto a Gentile, in primo piano a destra ma con l’immagine fuori fuoco, vi è Ugo Spirito. Questa rappresentazione è assai significativa del ruolo avuto da Spirito nella realizzazione dell’opera enciclopedica: i responsabili e fondatori dell’Istituto sono i soggetti principali (Treccani fu il finanziatore dell’impresa, Tumminelli ne era il direttore editoriale, Gentile, con la carica di direttore scientifico, il deus ex machina, l’ideatore e l’animatore princeps), ma il filosofo aretino, benché ritratto come un ectoplasma, era pur sempre immortalato con li superiori, accanto al suo maestro, il quale riponeva in lui la massima fiducia e ne aveva fatto il suo ambasciatore presso alcune figure di spicco della redazione dell’opera. Ma vale la pena dare un’occhiata all’organizzazione del complesso sistema editoriale enciclopedico, così come si era formato dopo la costituzione dell’Istituto, nel febbraio 1925, per inquadrare meglio il ruolo ricoperto da Spirito nel sistema Enciclopedia.
L’idea di una enciclopedia che avesse un fondamento scientifico era nata in Gentile, e in altri intellettuali, in particolar modo dopo la guerra e dopo l’avvento del fascismo, per celebrare la nuova Italia, l’italiano nuovo o rigenerato dalla guerra, dalla vittoria e dalla rivoluzione fascista. Non si può non ricordare le parole di Ugo Spirito che rievocano l’entusiasmo che percorse l’Italia all’avvento del nuovo regime: «Erano i primi anni dopo il 1918 e la confusione dei motivi postbellici non consentiva di avere idee chiare e orientatrici. Ma dappertutto era vivo il bisogno di un rinnovamento generale che fosse illuminato da una fede profonda e costruttrice. E nel bisogno erano unite la vecchia e la nuova generazione, in un’azione concorde che si esprimeva in programmi comuni. […]. Basta ricordare gli anni dal 1918 al 1924 per comprendere cosa significasse la fede fascista nella nuova classe dirigente […]». Sono parole sentite, spontanee, scritte molti anni dopo gli avvenimenti e dunque di ancor maggiore interesse. Descrivono bene il clima del momento, da cui tanti italiani si fecero coinvolgere, convinti di essere protagonisti di un passaggio epocale. Questo passaggio comprese nuove iniziative, grandi e piccole, nella costruzione di un nuovo modello di Stato come nella diffusione della cultura. L’Enciclopedia italiana rientra in iniziative, subito compresa nelle altre sfere come opera di spessore elevato, forse anche perché volle presentarsi fin dall’inizio come indipendente da qualunque influenza, politica, ideologica, sociale, religiosa, quindi credibile.

Gioacchino Volpe

L’organizzazione interna prevedeva che le materie fossero raccolte in “sezioni”, affidate a un direttore, scelto tra i massimi esperti di ciascuna disciplina: per esemplificare, il direttore della sezione Storia medievale e moderna fu Gioacchino Volpe, la sezione Musica fu posta nelle mani di Ildebrando Pizzetti, della sezione Fisica fu responsabile Enrico Fermi. Gentile ricopriva la carica non solo di direttore scientifico, ma anche di direttore della sezione Filosofia e pedagogia e compilò alcune voci. I direttori davano l’impronta alla propria sezione, stabilivano le trattazioni necessarie e i relativi autori. Accanto ai direttori, vi erano i redattori, che avevano compiti di carattere scientifico quali la revisione dei manoscritti che giungevano dagli autori chiamati a compilare le voci, con il controllo della congruità del contenuto e dell’effettivo peso scientifico dell’argomento trattato. A Spirito fu affidata una vasta area redazionale, che comprendeva Filosofia e pedagogia, Economia e statistica, Materie ecclesiastiche e le quattro sezioni di diritto, cioè Diritto privato, Diritto e procedura penale, Diritto pubblico, Storia del diritto. Il suo ricordo gli fece dire in seguito di essere stato “segretario generale” dell’opera; alcuni studiosi lo definiscono “segretario particolare” di Gentile. Ma, al di là delle locuzioni che qualificano il suo compito, è indubbio che l’azione di Spirito nella redazione enciclopedica significò un contatto quotidiano con Gentile, con l’attuazione e talvolta l’interpretazione del pensiero del direttore scientifico circa l’impostazione da conferire alla complessa impresa editoriale. […]

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX

Geopolitica e “interesse nazionale”

Alessandro Aresu, Luca Gori, L’interesse nazionale: la bussola dell’Italia, il Mulino, Bologna 2018

//È apparso nelle librerie il volume L’interesse nazionale: la bussola dell’Italia, pubblicato dalle edizioni Il Mulino e realizzato con il contributo di un analista e consigliere scientifico di Limes, Alessandro Aresu, e di un diplomatico di carriera, Luca Gori, che hanno analizzato il problema, sottolineando le difficoltà che si incorrono nel promuovere l’argomento e ricordando come sia assolutamente necessario superare questo limite di fronte a un ritorno del tema nelle agende governative e nel dibattito pubblico internazionale.
Dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda in Italia, come nel resto del mondo, abbiamo assistito a un rinnovato interesse nei riguardi dell’idea di nazione, sia nella sua proiezione interna che nella sua proiezione internazionale. Il nuovo scenario internazionale geopolitico e geo-economico ha imposto agli Stati di ricercare la propria identità nazionale e di definire i propri interessi e le proprie priorità.
In Italia, lo studio di un tema complesso come quello dell’interesse na- zionale, è emerso dopo la pubblicazione di un discreto numero di saggi e di volumi sull’argomento iniziata agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso sull’onda di un convegno, che si tenne a Trieste nel 1994, organizzato da Giovanni Spadolini e con la partecipazione, fra gli altri, di Renzo De Felice, Ernesto Galli Della Loggia, Emilio Gentile e Arduino Agnelli. Si discusse non soltanto di nazione e delle sue diverse valenze e declinazioni, ma si cerco’ di fare il punto anche sul tema della “morte della patria”.
Nel 1996 e nel 1997, si sono tenuti due Convegni, con la pubblicazione degli Atti, che videro impegnati studiosi ed esponenti di vari settori, dai politologi agli economisti, dai politici agli esperti strategici.
Sempre nel 1997, venne editato il volume di Galli Della Loggia La morte della patria e un libro-intervista a De Felice, Rosso e Nero, che analizzava fra i molti temi quello della crisi dell’idea di nazione.
Ancora nel 1997, Carlo Jean si occupò dell’argomento in uno studio sulla geopolitica, inserendo il tema nei capitoli riguardanti “L’interesse nazionale”. A partire dal nuovo secolo, l’argomento ha interessato ancora Jean, che ha inserito il tema nel quadro della geopolitica attuale di crisi del sistema unipolare a conduzione statunitense, in quella che viene definita la geopolitica del caos, immettendola nel contesto delle strategie di sicurezza nazionali e di riscoperta dello Stato-nazione. […]

Andrea Perrone 

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX

La cultura del sindacalismo nazionale nell’Archivio della Fondazione

L’intervento di Marco Zaganella ha esaminato gli archivi dei sindacalisti nazionali.
La Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice è l’unico ente ad aver avviato la raccolta, l’organizzazione e la valorizzazione delle carte inerenti la storia del sindacalismo nazionale e il suo contributo allo sviluppo della legislazione sul lavoro.
In questo ambito rientrano il fondo Sindacalisti fascisti che comprende le carte di Diano Brocchi, Pietro Capoferri, Enrico Carloni, Ugo Clavenzani, Amilcare De Ambris, Mario Gradi, Francesco Grossi, Ugo Manunta, Domenico Pellegrini Giampietro il fondo Giuseppe Landi e il fondo Riccardo Del Giudice. La documentazione citata copre un arco temporale dal 1919 al 1988. Si tratta dunque di un corposo patrimonio archivistico, cui si affianca il relativo patrimonio bibliografico, che consente di rileggere l’evoluzione della legislazione sul lavoro tra le due guerre, con particolare riguardo alla modernizzazione della contrattualistica e allo sviluppo della previdenza sociale, di esaminare l’eredità lasciata all’Italia del secondo dopoguerra e indagare il percorso dei protagonisti del sindacalismo nazionale nel passaggio dal fascismo alla Repubblica.

Riccardo Del Giudice

Sotto il profilo della modernizzazione della contrattualistica di lavoro occorre considerare che l’Italia in cui prende il potere il fascismo è un Paese che ha da poco registrato il suo decollo industriale, coincidente con il periodo che dall’età giolittiana si estende fino al termine della prima guerra mondiale. Ne consegue che all’inizio degli anni Venti la legislazione sul lavoro è agli albori. Prima del 1926 almeno il 40% dei lavoratori italiani era sprovvisto di contratto di lavoro. Ne beneficiavano le categorie dei grandi complessi industriali, come ad esempio i metalmeccanici, i siderurgici, i metallurgici, i tessili, i chimici, le categorie della carta a stampa e gli edili. Nel commercio possedevano un contratto i rappresentanti ed i commessi, oppure il personale alberghiero e delle mense. Nell’agricoltura, talvolta, i braccianti ed i mezzadri. I salari erano regolati da consuetudini locali o da riferimenti a categorie di lavoratori non omogenee.
Le carte di Maceo Carloni e Pietro Capoferri consentono di approfondire in particolare lo sviluppo della contrattualistica. Carloni aveva svolto la sua attività di sindacalista a Terni, presso le Acciaierie, occupandosi del contratto nazionale per i dipendenti delle imprese meccaniche e metallurgiche. Pietro Capoferri è stato invece una figura di primo piano del sindacalismo bergamasco, divenuto segretario della Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria (Cfli), membro del Gran Consiglio e vicesegretario del Pnf tra il 1939 e il 1940.
L’attività dei sindacati fascisti fu ovviamente favorita dal Patto di Palazzo Vidoni del 1925, che li riconosceva come unici rappresentanti riconosciuto del mondo del lavoro. Essi si impegnarono per l’estensione a tutti i lavoratori dei contratti collettivi di lavoro, come previsto dalla Carta del Lavoro.
Un esempio della modernizzazione della contrattualistica di lavoro riguarda le norme che regolavano il salario degli impiegati privati. Ancora nel 1924 la legislazione non stabiliva una misura minima per gli stipendi. Inoltre richiamava per le “indennità di licenziamento” ed il tempo di preavviso il rispetto delle consuetudini locali. Nel 1931 a Milano, nel corso di una assemblea di impiegati svolta nel salone dell’Umanitaria in via Manfredo Fanti (dove avevano sede i sindacatifascisti), alla presenza del sottosegretario alle Corporazioni Dino Alfieri, furono denunciate le condizioni di inferiorità in cui si trovavano gli impiegati in mancanza di un contratto di lavoro che determinasse i minimi di stipendio, la misura delle indennità di licenziamento e la previdenza. Nel 1937 si giunse finalmente all’approvazione del Contratto collettivo nazionale di lavoro per gli impiegati dell’industria il quale stabiliva, con apposite tabelle, i minimi di stipendi, gli indennizzi ed i preavvisi. Il contratto regolava anche il diritto all’indennità di anzianità.
Nell’ambito della modernizzazione della contrattualistica di lavoro rientra il tentativo di regolamentazione del cottimo Bedeaux. Fu un tema al quale si dedicò in particolare Tullio Cianetti.
Il cottimo Bedeaux prevedeva il cronometraggio della quantità di lavoro che un operaio poteva compiere nell’arco di un minuto (il cosiddetto “60 di passo”). Nel momento in cui il “passo” era raggiunto da tutti i lavoratori, veniva sistematicamente aumentato. Chi non era in grado di rispettarlo, era però licenziato. Il cottimo Bedeuax si estese soprattutto in conseguenza della crisi del 1929. Fu allora, ad esempio, che la Fiat lo introdusse all’interno dello stabilimento del Lingotto.

Tullio Cianetti

Nel 1931 Tullio Cianetti fu nominato segretario della federazione nazionale dei sindacati delle industrie estrattive e cominciò a collaborare per la testata di Luigi Fontanelli “Il lavoro fascista”, dalle cui colonne criticò aspramente il “sistema Bedaux”. Lo stesso Cianetti fu uno dei promotori dell’accordo interconfederale del 20 dicembre 1937 relativo al Contratto collettivo nazionale per la disciplina del lavoro a cottimo nelle aziende industriali, artigiane e cooperative.
Tale accordo aveva l’obiettivo di regolamentare l’applicazione del sistema di cottimo, individuando delle tariffe minime, consentendo al lavoratore di avere certezza circa la sua retribuzione, lo standard di lavoro richiesto e regolamentando anche il passaggio a standard produttivi maggiori. Inoltre, intendeva difendere gli operai da una riduzione eccessiva di guadagno, sottraendo l’applicazione del cottimo all’arbitrio dell’imprenditore. Ad esempio, l’art. 2 stabiliva che «ogni tariffa di cottimo deve garantire al lavoratore il conseguimento di un guadagno non inferiore alla paga ad economia, maggiorata del percentuale di cottimo, stabilita dai singoli contratti collettivi di lavoro». L’art. 4 specificava che agli operai interessati dovranno essere comunicate per iscritto, all’inizio del lavoro, le indicazioni del lavoro da eseguire e del compenso unitario (tariffa di cottimo) corrispondente. Dovrà poi essere comunicato agli operai, per ogni singolo cottimo, la quantità del lavoro eseguito e il tempo impiegato. Tali comunicazioni dovranno rimanere in possesso degli operai perché essi possano sempre computare con facilità ed esattezza la propria retribuzione.
Le tariffe così stabilite, una volta superato il periodo di assestamento, non potranno essere variate.
Solo quando siano attuate modifiche nelle condizioni di esecuzione del lavoro, si potrà procedere alla variazione delle tariffe di cottimo, in proporzione delle variazioni di tempo che le modifiche stesse avranno determinato. La variazione delle tariffe in tal caso dovrà intervenire entro un periodo di assestamento uguale a quello stabilito nel seguente articolo.

L’art. 5 difendeva poi gli operai contro riduzioni eccessive di guadagno, stabilendo che qualora gli operai interessati nell’ambito di una tariffa di cottimo subiscano, nel complesso dei guadagno medio orario di due quindicine, una diminuzione in confronto del guadagno medio orario realizzato nel quadrimestre precedente, l’Organizzazione dei lavoratori ha facoltà di intervenire presso l’Organizzazione dei datori di lavoro per accertarne le cause.

Se risulterà – in base agli accertamenti che saranno compiuti dalle due Organizzazioni – che la discesa del guadagno sia stata determinata, in tutto o in parte, da cause non imputabili agli operai, le Organizzazioni determineranno la quota di guadagno che dovrà venire reintegrata e la ditta dovrà attuare gli opportuni provvedimenti per eliminare successivamente la discesa verificatasi.

Nelle carte dei sindacalisti emerge comunque lo scontento per il mancato rispetto dell’accordo da parte datoriale, dal momento che il 90% degli operai continuò ad essere impiegato con contratti a cottimo.
Confrontandosi con gli effetti della crisi del 1929, i sindacati fascisti oltre a condurre la battaglia contro il cottimo, si interrogarono sull’opportunità di favorire una riduzione dell’orario di lavoro settimanale per salvaguardare i posti di lavoro. Nella documentazione archivistica e bibliografica di Pietro Capoferri si rintraccia un interessante convergenza su questo tema con i sindacalisti francesi nell’ambito del Bureau International du Travail.
Mentre in Italia il Consiglio Nazionale delle Corporazioni discuteva e approvava, il 15 giugno 1931, la riduzione della settimana lavorativa a 40 ore, Giuseppe De Michelis, rappresentante del governo italiano presso il BIT, chiedeva, su invito dell’Organizzazione Operaria Italiana, l’estensione del medesimo provvedimento a livello internazionale.  Presso il BIT fu così creata una Commissione per le 40 ore in cui fu designato come rappresentante italiano Pietro Capoferri, che all’epoca dirigeva i sindacati dell’industria nella provincia di Milano. Si giunse alla discussione di un apposita convenzione, che fu osteggiata da parte inglese. La proposta italiana incontrò invece il supporto dalla delegazione francese, tra i cui rappresentanti spiccava Léon Jouhaux.
Un accordo fu raggiunto nel 1935 con la stipula della convenzione n. 47 del BIT concernente la riduzione della durata del lavoro a 40 ore settimanali. Nel frattempo anche a livello italiano si procedette in tale direzione. L’11 ottobre 1934 fu firmato un accordo tra la Confindustria guidata da Giorgio Pirelli e la CFLI diretta da Tullio Cianetti, in base al quale si prevedeva la riduzione della settimana lavorativa a 40 ore, l’eliminazione dello straordinario per contrastare la disoccupazione e l’istituzione della Cassa per gli assegni familiari. Quest’ultima disposizione prevedeva un assegno fisso integrativo dei salari da corrispondere ai lavoratori capi-famiglia per compensare la riduzione dell’orario di lavoro.
Vi è da dire che i sindacalisti fascisti, mentre chiedevano la riduzione dell’orario di lavoro, sottolineavano anche il pericolo di una distorta interpretazione del provvedimento da parte degli imprenditori. Sia Tullio Cianetti che Ugo Clavenzani, il quale aveva preceduto lo stesso Cianetti alla guida della CFLI, si erano battuti per una riduzione delle ore a parità di salario, intuendo che da parte datoriale si sarebbe colta l’occasione per una riduzione dei costi del lavoro. Proprio Tullio Cianetti, in una relazione al Ministro delle Corporazioni Ferruccio Lantini del 9 aprile 1937, notava come nella realtà il provvedimento stentasse a favorire il riassorbimento della disoccupazione, mentre si stava traducendo in una misura che decurtava il salario medio degli operai di circa il 17%, mentre gli imprenditori, grazie ai nuovi metodi di intensificazione del lavoro, riuscivano lo stesso ad aumentare la produttività.

Giuseppe Landi

L’Archivio Landi consente di approfondire sia lo sviluppo della previdenza sociale tra le due guerre, sia l’eredità e la riorganizzazione del sindacalismo nazionale nell’Italia repubblicana.
Invalido della prima guerra mondiale, Landi iniziò la sua carriera professionale come impiegato della Cassa nazionale infortuni. Assunse poi la direzione dei sindacati fascisti del commercio e dell’associazione fascista del pubblico impiego. Fu in seguito segretario della CFLI e dalla fine degli anni Trenta intraprese la carriera accademica come libero docente di legislazione del lavoro presso l’Università di Genova. Nel 1950 fu tra i fondatori della Confederazione Italiana Sindacati Nazionali dei Lavoratori (Cisnal), di cui divenne il primo segretario.

Come ricordava lo stesso Landi, all’inizio degli anni Venti uno dei campi totalmente aperti all’azione dei sindacati fascisti era l’assistenza in caso di malattia dei lavoratori. All’epoca l’Italia era sprovvista di leggi sulle assicurazioni obbligatorie contro le malattie, tranne che per i lavoratori delle province redente, dove si era mantenuta la legislazione austriaca, o per alcune categorie come i ferrotranvieri e i marittimi. Il contratto di impiego privato stabilito dal rdl del 13 novembre 1924 n. 1825 copriva contro la malattia e gli infortuni gli impiegati privati. I sindacati fascistidenunciarono tuttavia l’inadeguatezza della legislazione. Nel 1925 costituirono il Patronato Nazionale per l’Assistenza Sociale (PNAS) per offrire assistenza medico-legale ai lavoratori. Successivamente si impegnarono per garantire l’efficacia delle norme XXVI e XXVII della Carta del Lavoro, che prevedevano lo sviluppo della previdenza sociale sulla base dell’uguale ripartizione degli oneri tra datori di lavoro e lavoratori. Fu questo uno dei principali aspetti dei contratti collettivi di lavoro, che prevedevano l’istituzione delle Casse Mutue Malattia, alimentate proprio con il contributo paritetico di datori di lavoro e lavoratori, secondo i principi del corporativismo.

Obiettivo della mutua era garantire ad ogni lavoratore un indennizzo per la malattia e l’assistenza medica. Attraverso il sistema della Mutua il sindacato accrebbe notevolmente il suo peso nel corso degli anni Trenta. Basti pensare che nel 1939 la Mutualità contava 200 organismi con 1.477.533 iscritti. Nel 1939, la nomina di Tullio Cianetti a sottosegretario di Stato al ministero delle Corporazioni rifletteva il peso politico raggiunto dal sindacalismo.
Le carte di Giuseppe Landi, e in misura minore quelle di Diano Brocchi, ci consentono di leggere il percorso seguito dai sindacalisti nazionali dopo la caduta del regime. Si trattava di un patrimonio di competenze notevole, che aveva potuto formarsi sia sul campo delle battaglie sindacali, sia grazie alle scuole di formazione per i quadri sindacali che erano state create a partire dalla fine degli anni Venti.
Nel secondo dopoguerra il loro recupero fu dunque fondamentale. Molti confluirono nella Cgil di Giuseppe Di Vittorio. Altri seguirono invece il percorso di Giuseppe Landi e Diano Brocchi, dando vita alla Cisnal, attraverso la quale garantirono la trasmissione dei principi del sindacalismo nazionale all’Italia repubblicana.

In “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX, pp. 193-198, atti del convegno sui fondi archivistici della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice

La cultura del nazionalismo nell’Archivio della Fondazione

di Gianni Scipione Rossi

//Due sono i fondi archivistici conservati dalla Fondazione relativi a personalità strettamente riconducibili alla Associazione Nazionalista Italiana: Attilio Tamaro e Serafino Mazzolini.  Personalità peraltro legate da percorsi quasi paralleli, sia pure con significative differenze. Entrambi vengono dal giornalismo e da una giovanile attività politica tra i nazionalisti, per poi confluire nel Pnf e approdare alla carriera diplomatica.

Attilio Tamaro (Trieste, 1884 – Roma, 1956)

Attilio Tamaro
(Fototeca Civici Musei di Storia e Arte Trieste)

È difficile – e sarebbe forse arbitrario – chiudere Tamaro in una univoca definizione. È stato un giovane militante irredentista nella sua Trieste. Un teorico del diritto storico delle terre giuliane e dalmate di ricongiungersi all’Italia unita. È stato dunque un convinto irredentista. Non per caso a lui fu affidata nel 1933 la redazione della voce irredentismo dell’Enciclopedia Italiana. Tanto più che la definizione si presentava complessa.

Poiché la parola era nuova – notò Tamaro –, essa diede l’impressione che si volesse iniziare una nuova lotta, mentre in verità si trattava della continuazione del Risorgimento, non potendosi considerare compiuta l’unità nazionale finché l’Italia non fosse arrivata alle sue frontiere naturali e storiche. Venuta in uso la parola nuova, essa ebbe più sensi, appunto a causa dell’errore originale: giacché, per gli agitatori del regno, si riferì sempre al movimento da loro iniziato; per gl’irredenti, invece, a tutta la loro attività nazionale, dopo il 1866, e spesso anche alla più antica. Per questa erronea impostazione iniziale e per influsso delle ideologie democratiche, l’irredentismo fu concepito come applicazione del principio di nazionalità e rimase sempre incerto quanto ai limiti delle desiderate rivendicazioni: se solo a oriente o se anche a occidente, dove erano altre terre italiane soggette a stranieri; e a oriente sino al Brennero o a Salorno, sino al Monte Maggiore o a Fiume, nel Quarnaro o anche in Dalmazia? Si fecero discussioni come se il problema non fosse mai stato discusso nel Risorgimento e non gli appartenesse. 

Ma Tamaro non è stato solo un irredentista colto. Dopo la laurea in lettere a Graz e un biennio da bibliotecario a Parenzo, si dedicò completamente alla scrittura, sia come saggista sia come giornalista. A vent’anni pubblica il suo primo articolo sul triestino “L’Indipendente”: una recensione a Grandezza e decadenza di Roma di Guglielmo Ferrero. Nel 1910 comincia a collaborare con “Il Piccolo”. Nel 1914 con “Il Giornale d’Italia”. Ma nello stesso anno, il 2 ottobre, il foglio nazionalista “L’Idea Nazionale” da settimanale nato nel 1911 si trasforma in quotidiano. Il primo pezzo di Tamaro appare il 2 novembre, non per caso con il titolo “L’italianità della Dalmazia”.

Le sue collaborazioni si allargano con il passare degli anni. Al Corriere della Sera, al Secolo di Milano, al “Resto del Carlino”, alla Rassegna Italiana, alla Gazzetta di Venezia, a “Politica”, per ricordare solo le più rilevanti.

Nel 1920 comincia la sua collaborazione a “Il Popolo d’Italia”. Un anno prima aveva sofferto la delusione di non essere scelto da Teodoro Mayer come direttore de “Il Piccolo”, che rinasceva dopo la chiusura causata dalle devastazioni filo austriache del 1915, quando l’irredentista Tamaro è costretto a rifugiarsi a Roma.

Stando alla corrispondenza contenuta nel Fondo Tamaro, nel novembre 1918 Mayer gli aveva lasciato intendere che lo avrebbe nominato. Ma la scelta cade poi su Rino Alessi e provoca una sdegnata reazione di Tamaro, con una lunga lettera all’editore (18 aprile 1919). Non gli resta, per ora, che “L’Idea Nazionale”.

Non è qui il caso di ricostruire nel dettaglio le altalenanti vicende del quotidiano nazionalista, nel quale Tamaro viene assunto come caporedattore nel 1920, quando per un breve periodo è di proprietà del futuro guardasigilli Alfredo Rocco, per breve tempo con il finanziamento degli industriali Perrone.

Nell’archivio stano numerose tracce. Per fare un esempio, un ordine di servizio destinato il 15 settembre 1920 ai “redattori di provincia”. Tamaro ricorda che “I redattori delle cronache provinciali hanno l’obbligo di conoscere a pieno la posizione che il giornale prende difronte ai partiti e ai problemi maggiori e di mantenerle in tutte le sezioni”. Nella sostanza il quotidiano rischiava di smentirsi da una pagina all’altra.

“L’Idea Nazionale” comunque non decolla, da sempre gravata dalle divisioni politiche dell’ANI. Tamaro cerca dunque altre strade. Nel suo diario, registra il 17 agosto 1921: “Scritto a Rocco. L’Idea non può continuare nelle attuali condizioni, né io posso pregiudicare il mio avvenire dando la falsa impressione di essere il responsabile dell’eventuale caduta del giornale”. D’altronde anche Tamaro è parte del gioco politico. In fondo il quotidiano ha contribuito ad allargare le sue già vaste frequentazioni, anche epistolari, come testimoniano – per fare due esempi – i carteggi con lo scrittore Sem Benelli e con il giornalista, esploratore e geografo Corrado Zoli, che sarà sottosegretario agli Esteri della Reggenza del Carnaro, governatore dell’Eritrea e presidente della Società Geografica Italiana.

Tamaro diventerà, con il tempo, uno dei più informati esponenti del regime fascista. Per ora – cito una lettera del 14 agosto 1920 – può raccogliere, ad esempio, gli sfoghi e i consigli dell’economista Maffeo Pantaleoni: “Caro Tamaro, quel maiale di Salvemini non vi batta. Non va più sfidato a onesta tenzone. Va schiaffeggiato, sputacchiato”. È un piccolo spunto, naturalmente, in linea con il noto carattere fumantino di Pantaleoni. Uno spunto che, insieme a tanti altri, merita di essere contestualizzato.Pantaleoni fa riferimento alla polemica tra Gaetano Salvemini e Attilio Tamaro sulle prospettive dei rapporti tra popolazione slave e dalmate dopo la prima guerra mondiale. Alle posizioni filo-slave esposte nel 1918 da Salvemini e dal geografo Carlo Maranelli ne La questione dell’Adriatico, Tamaro reagì duramente. Ne derivò una replica altrettanto dura di Salvemini nella seconda edizione del libro, nel 1919. La polemica proseguì fino a metà degli anni Venti.

Tra corrispondenza e diario, va riconosciuto che il Fondo Tamaro è una miniera d’oro per i ricercatori interessati ad approfondire la storia e a cultura politica del nazionalismo italiano e del fascismo.Io gli debbo la completezza di due biografie, quella di Alice de Fonseca e quella di Camillo Castiglioni. Ma ancora molto c’è da scavare, in particolare per i decenni precedenti al 1922. D’altra parte è stato testimone privilegiato di eventi di grande rilievo, oltre che registratore attento e curioso di ciò che si muoveva intorno a lui, da vero giornalista. Volontario nel 1915, in missione “per incarico diretto del governo” a Parigi, prima, e a Londra, dopo, per curare l’attività di propaganda e difendere i diritti nazionali dell’Adriatico in vista della Conferenza di pace, dopo l’esperienza negativa a “L’Idea Nazionale”, raggiunge Vienna come corrispondente de “Il Secolo” e de “Il Popolo d’Italia” e come informatore del ministero degli Esteri, mentre prosegue la sua attività di storico. È del 1924 la sua fondamentale Storia di Trieste.

Dal 1923 al 1927 è delegato per i Fasci all’Estero per l’Austria, poi entra per nomina politica prima nella carriera consolare ad Amburgo e poi nella carriera diplomatica, come ministro plenipotenziario a Helsinky e a Berna.

Nel 1943 sarà richiamato a Roma ed espulso dal Pnf, con l’accusa di aver aiutato l’amico ebreo Castiglioni – già finanziatore de “L’Idea Nazionale” dopo i Perrone – nel quadro di una complessa vicenda che ho ricostruito – grazie anche alle carte Tamaro – nella mia biografia dell’industriale e finanziere triestino. Sia pure in questa sede per sua natura parziale, va ricordato che Tamaro fu tra i pochi esponenti del regime a prendere posizione contro le leggi razziali e la persecuzione degli italiani ebrei, pur provenendo da un milieu culturale e politico – quello nazionalista – nel quale non mancarono di manifestarsi sentimenti antisemiti, con lo stesso Maffeo Pantaleoni. In questo senso Tamaro è un vero figlio della complessità culturale triestina. Tra le sue carte le tracce sono numerose e significative. Il 31 marzo 1944 registra nel diario un colloquio con l’anziano Giorgio Pitacco, che da deputato triestino al parlamento di Vienna aveva fondato l’Associazione fra gli italiani irredenti, per poi essere sindaco della città giuliana dal 1922 al 26 e podestà dal 1928 al 1933: “Con Pitacco si discorreva oggi degli ebrei triestini e dei grandi meriti da loro conquistati nell’irredentismo. Gli ho raccontato che quando Andrea Torre, nel 1913, venne a Trieste, avendomi egli chiesto perché avessi tanta fiducia nella prossima redenzione della nostra città, gli risposi: perché tutti gli ebrei sono irredentisti…”

Si è detto che il fondo Tamaro è ancora in larga parte una miniera da esplorare. Altri esempi sulla questione leggi “razziste”, comecorrettamente le definisce spesso Tamaro, tratti dal diario.

Berna, 28 agosto 1941

L’ambasciatore Cerruti possiede tutt’ora una lettera autografa di Mussolini, con la quale questi – nel 1934 – lo invitò a recarsi da Hitler e a parlargli della questione ebraica: gli dicesse che egli, Mussolini, non credeva opportuno fare la guerra agli ebrei in quanto ebrei, ma che bisognava attaccarli e perseguitarli come comunisti, come antinazisti, come nemici del regime, essendo pericoloso tirarsi addosso l’ebraismo di tutto il mondo. Racconta Cerruti, che mentre egli leggeva e traduceva la lettera, Hitler scattò esclamando che Mussolini non capiva nulla della questione ebraica.

[…]

Roma, 10 agosto 1944

Enrico Rocca si è suicidato perché, dopo aver lungamente sofferto causa le leggi razziali, quando, ritornato a Roma, se ne credeva liberato, si vide minacciato da una nuova persecuzione per essere stato uno dei fondatori del fascio romano.

Tamaro non aderirà alla Repubblica Sociale, nonostante le insistenze della seconda personalità di origine nazionalista di cui la Fondazione conserva un fondo archivistico: Serafino Mazzolini. Nel dopoguerra, Tamaro si dedicherà ancora alla storia – con i volumi Due anni di storia e Vent’anni di storia, a lungo indispensabili fonti per tutti gli storici del fascismo – e alla pubblicistica, collaborando intensamente al primo giornale del mondo neofascista, il settimanale “La Rivolta Ideale”, oltre che, con molti pseudonimi, al “Messaggero”, al “Messaggero Veneto”, a “Italia Nuova” e a “L’Ora d’Italia”.

 

Serafino Mazzolini (Arcevia, 1890 San Felice del Benaco, 1945)

Serafino Mazzolini

La vicenda biografica di Serafino Mazzolini presenta molte similitudini con quella di Tamaro. Giovanissimo comincia l’attività politica nelle sue Marche, e presto, a Macerata – dove conosce Maffeo Pantaleoni – diventa un protagonista del movimento nazionalista. Avvocato, è anche giornalista e sarà direttore del “Corriere Adriatico”. Interventista, nella Grande Guerra è inviato al fronte come corrispondente de “L’Ordine” di Ancona.

Lo si potrebbe definire anche irredentista del fronte interno, poiché è culturalmente debitore della corrente che spinge per il ricongiungimento della Dalmazia all’Italia, nel quadro del sogno antico di consolidare l’Adriatico come un mare esclusivamente italiano. L’Adriatico lo attraverserà per raggiungere D’Annunzio a Fiume. Nella marcia su Roma guiderà le camicie azzurre anconetane, dopo aver guidato la Sezione Nazionalista di Ancona, gli ex combattenti della “Legione Sempre Pronti” e fondato il giornale “La Prora”.

Mazzolini, al centro, con le medaglie,
guida una squadra di nazionalisti,
probabilmente nell’agosto o nel
settembre 1922 nel corso, Vittorio Emanuele
di Ancona (oggi corso Garibaldi)

Nel 1921 è segretario amministrativo dell’ANI, ma manca l’elezione a deputato, data per avvenuta sulla base dei primi dati da “L’Idea Nazionale”. Dopo la confluenza dei nazionalisti nel fascismo, sarà segretario aggiunto del Pnf con Farinacci, commissario del partito a Napoli, deputato nel 1924, sempre in quota a Federzoni.

Poi, l’approdo alla carriera consolare – a Montevideo – e diplomatica come ministro plenipotenziario in Egitto e governatore civile in Montenegro. Da segretario generale degli Esteri, nonostante la fede monarchica, aderirà alla Rsi, rompendo i rapporti con Federzoni, e sarà sottosegretario di Mussolini.

Il Fondo Mazzolini conservato in Fondazione non è paragonabile come rilievo a quello Tamaro. È costituito dalla copia della versione integrale dei diari 1939-1945, che solo parzialmente ho potuto pubblicato in appendice alla sua biografia. Gli originali delle agende, carteggi, documenti, materiale filmato e fotografie – pur utilizzati – sono conservati dagli eredi e posti sotto tutela della Sovrintendenza dell’Umbria.

Il testo completo di apparato di note in “Annali della Fondazione Spirito”, a. 2018, XXX

Il fascismo tra antiurbanesimo e modernità

Danilo Breschi, Mussolini e la città. Il fascismo tra antiurbanesimo e modernitàLuni Editrice, Milano 2018

//Ormai da tempo la storiografia più avvertita utilizza per il fascismo la categoria della complessità che abbandona il modello fisico classico della ricerca della causa prima, della causa efficiente, nella consapevolezza che anche fenomeni apparentemente secondari incidono sulla realtà complessiva e costituiscono perciò, per lo storico, un angolo visuale persino più ampio dei macrofenomeni. Il saggio di Breschi si pone a pieno titolo all’interno di questa prospettiva analizzando il rapporto città-campagna nel fascismo che consente una riflessione, ampia ed estremamente documentata, del rapporto del fascismo con la modernità, o meglio, con l’idea di modernità che esso teoreticamente coltivò e cercò di praticare. Come è naturale, data la natura polimorfica del regime fascista, in particolare della sua ideologia, le tesi dell’Autore hanno una caratteristica ellittica, così come ellittico fu il rapporto del fascismo con il fenomeno dell’urbanesimo e della ruralizzazione.

Dopo un’introduzione all’urbanesimo e all’ideologia dell’antiurbanesimo in Italia e in Europa agli inizi del Novecento, Breschi analizza l’atteggiamento del regime verso l’urbanesimo e l’opposizione ad esso tra gli anni Venti e gli anni Trenta, senza che sia possibile una distinzione ideologica che corra attraverso precise linee temporali; in tutte e due le fasi storiche, infatti, il primato della campagna e l’opera urbanistica del fascismo si sovrappongono, a volte persino si connettono a delineare un quadro di sostanziale governance della modernità che il fascismo voleva realizzare. Si trattava, cioè di cavalcare la tigre per non esserne sbranati, alla ricerca di modelli di sviluppo non sempre coerenti e lineari. Come scrive l’Autore: «L’obiettivo di fondo era appunto cogliere a pieno i vantaggi materiali che lo sviluppo tecnologico porta inevitabilmente con sé, finalizzando il tutto all’affermazione della potenza – economica e militare – italiana nel mondo, cercando nel contempo di mantenere pressoché intatta la gerarchia sociale e soprattutto la scala di valori morali ereditata dalla società preesistente» (p. 26). Un tema che il fascismo non poteva ignorare in quanto fenomeno di massa; e l’urbanizzazione prefigurava un processo di standardizzazione  eindividualizzazione, che sarà poi chiamata civiltà dei consumi con il quale fare i conti. Non a caso, ricorda l’Autore, studioso di Pellizzi e Spirito, alcuni intellettuali fascisti dedicarono ampie discussioni ai problemi connessi alla società di massa che poneva come alternativa o una progressiva democratizzazione del regime o un rafforzamento dell’autorità podestarile. Proprio queste diverse prospettive si leggono in controluce nella diatriba tra strapaese e stracittà e nella volontà di controllo del territorio che non casualmente inizia nel 1925-1926, nel momento in cui inizia il regime.

Il fascismo, anche se non solo dittatura di sviluppo, non poteva né voleva rinunciare a un’azione modernizzatrice del Paese, così che la sua ideologia ruralizzatrice può essere letta come residuo del fondo squadristico del fascismo agrario e come propaganda tesa a rassicurare i ceti interessati alla conservazione dello status quo: «Il ruralismo fascista fu compensazione retorica per un’operazione, solo in minima parte riuscita, di controllo sociale delle campagne, anzi di loro immobilizzazione o “cristallizzazione”, mentre si procedeva alla ristrutturazione di città di cui si avvertiva l’inevitabile espansione» (p. 198). Non solo propaganda però; Breschi connette, in modo ci sembra molto opportuno, il tema della ruralizzazione a quello dell’uomo nuovo o meglio dell’italiano nuovo che il fascismo si era riproposto di realizzare. Se l’ideale era il cittadino fedele ai valori della tradizione che trovava la sua identità sociale nel diritto di proprietà e che interpreta, o meglio vive, il progresso non come rottura degli assetti culturali e sociali precedenti, ma come modernizzazione di quegli stessi assetti, il rurale si prestava meglio dell’anonima e sradicata massa urbanizzata. L’Autore ritiene che ciò urti «con quell’impersonalità, con quel senso di devozione e dedizione alla causa collettiva della nazione, su cui Mussolini e molti fascisti facevano affidamento sia per marcare il proprio “passaggio” nella storia d’Italia sia per effettuare mobilitazioni di massa necessarie all’affermazione del prestigio internazionale» (p. 481). E ciò è ulteriore elemento dell’impassein cui si trovò il fascismo sia come ideologia sia come prassi di governo, anche se, almeno nell’ideologia se non nella prassi di governo, il fascismo non intese la mobilitazione di massa come negazione dell’individualità, ma come la sua subordinazione agli interessi collettivi della nazione. Non si trattava, cioè, di negare l’individualità, ma di integrarla in una concezione superiore; così come la proprietà privata non venne negata, ma subordinata agli interessi economici della nazione. Superare la dimensione individuale integrandola in quella sociale, non cancellarla; il fascismo non è una mistica, anche se, come noto, ebbe una Scuola di mistica.

Comunque quest’oscillazione si tradusse nella legislatura e nelle realizzazioni del regime che nei suoi primi quattro anni di vita favorì la creazione di grandi centri metropolitani, mentre, a partire dal 1926, si cominciò a sottolineare con forza che l’urbanesimo costituiva un problema anche grave, preludio al discorso dell’Ascensione, che Mussolini tenne alla Camera dei deputati il 26 maggio 1927. Il Duce divideva il suo discorso in tre parti: nella prima teneva l’esame del popolo italiano dal punto di vista della salute fisica e della razza, mentre la terza stabiliva le future direttive politiche generali dello Stato; la seconda riguardando l’assetto amministrativo della nazione. Mussolini lamentava la recrudescenza delle malattie cosiddette sociali che ha spinto il regime a un’intensa campagna profilattica e igienica; auspica inoltre una «frustrata demografica» che giustificava la tassa sui celibi, in nome del suo noto antimalthusianesimo. Parte di questa strategia era, nel discorso del capo del fascismo, la lotta a un certo tipo di urbanesimo, quello industriale, ma anche alla piccola proprietà rurale che conduce alla medesima sterilità i popoli. A dimostrazione, come scrive Breschi, che «l’avversione contro l’urbanesimo non era infine indiscriminata e totalmente accecata da un’ideologia antimodernista» (p. 297); perché non si combatteva la città in quanto luogo simbolo del moderno, ma la sua degenerazione in non-luogo, generatore di nevrosi e causa della perdita del senso di continuità generazionale a favore di un individualismo atomistico che avrebbe alla lunga reso liquida e indeterminata la società.  Non solo però ragioni eugenetiche in vista dell’italiano nuovo, ma anche preoccupazione politica di controllo della condotta pubblica e privata, più facile «se le possibilità di contatto e scambio fossero risultate diminuite in numero e quindi fossero diventate anche più agevolmente controllabili dalle autorità podestarili e prefettizie» (p. 314).

[…]

Rodolfo Sideri

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX

 

Filosofia e politica in Giovanni Gentile

Vincenzo Pirro, Filosofia e politica in Giovanni Gentile, a cura di Hervé A. Cavallera, Aracne, Roma, 2017

//Nella generale ripresa degli studi su Giovanni Gentile, un contributo di grande interesse viene da un volume postumo di Vincenzo Pirro, studioso del filosofo di Castelvetrano e allievo di Ugo Spirito, che altri lavori ha dedicato all’attualismo, tutti caratterizzati da profondità di analisi e rara capacità di utilizzo dei testi. Filosofia e politica ha il merito di utilizzare i termini in questione non come una diade, ma di comprenderli come due facce dell’attualismo, che è politica in quanto filosofia e filosofia in quanto politica. Politica non nel senso della partigiana militanza di parte – nemmeno negli anni dell’adesione al fascismo – quanto della necessità di ripensare lo Stato attribuendogli quella sostanza etica che ne faccia l’autentico rappresentante della comunità. Uno Stato così concepito è uno Stato “filosofo”, uno Stato “educatore”, al quale non può essere estranea la dimensione spirituale e religiosa dell’esistenza e dell’esistente. Pirro coglie la continua circolazione, nel pensiero di Gentile, di politica, educazione e religione che è alla base del progetto attualista di un’identità politico-religiosa che, pur restando nell’alveo cristiano e cattolico, si profila come una riforma orientata a restituire alla religione la serietà del pensiero e al pensiero la sacralità della religione. Gentile, infatti, è il filosofo che ha riportato la metafisica nel tempio della nazione, affinché lo Stato si spiritualizzi e la nazione si educhi secondo un grande progetto insieme politico e religioso. Se il tema è hegeliano, il terreno di coltura è diverso, muovendosi Gentile nel cattolicesimo (contro) riformato e non nell’ambito del rigoroso monismo teistico del luteranesimo, cosicché la divinità che il filosofo intende restaurare è quella rivelata nel Nuovo Testamento, «centrato sulla figura del Cristo che redime l’uomo dalla natura e gli dà il vigore della libertà spirituale» (p. 42). Se la riforma politica è religiosa, quella religiosa è politica nel momento in cui restaura l’autentico cristianesimo nel cuore dello Stato, consentendogli di alimentare l’azione politica. Quasi novello Gioacchino da Fiore, Gentile annuncia l’età nuova, l’età dello Spirito, la nuova civiltà degli uomini contro la natura; civiltà che apre lo spazio al dominio tecnico. Al Dio ebraico, ferocemente estraneo all’uomo, egli rivendica il Dio dell’Uomo che si fa uomo, la nuova alleanza da cui deriva la creatività dello spirito umano che il filosofo chiama “atto puro”.
Il cristianesimo di Gentile è una religione demitizzata, ovvero sottratta alla sovrastruttura materiale, che esalta il suo senso di religione prometeica, eroica, in cui il Figlio si oppone al Padre per amore degli uomini. Sottrarre alla religione il suo materialismo, i suoi miti, comporta rifiutare la trascen- denza irrelata, perché la sussistenza di Dio senza l’uomo significa la sussistenza dell’oggetto senza il soggetto, che consegna l’uomo alla passività del dato. «La riforma della religione e la riforma della filosofia sono, per Gentile, due operazioni complementari, come sono complementari ragione e fede» (p. 46). Cristianizzare vuol dire spiritualizzare, interiorizzare l’oggetto che in ambito politico ed educativo si identifica con lo Stato e con la scuola: l’assoluto è il momento istituzionale: interiorizzarlo significa sottrarsi al momento coercitivo per sostituirlo con il consenso. La metafisica riportata nel sacrario della nazione è quella del soggetto e della mente, per la quale il pensiero è assoluta soggettività che tesse la trama dell’universo e fuori della quale non sussiste una realtà oggettiva. Cosicché, la filosofia gentiliana, nell’appassionata lettura di Pirro, si configura come itinerarium mentis in Deum, dove il realismo ingenuo e la trascendenza, lo scarto tra essere e dover essere, sono superati in nome di un’immanenza che riconduce Dio nella coscienza. Combattere il realismo, sul piano politico, significa combattere il democratismo sul piano della cultura e della mentalità, col proposito di riannodarsi alle scaturigini del pensiero risorgimentale e all’azione politica della Destra storica. Sempre con la chiara coscienza che il realismo non si combatte negandolo, ma assorbendolo nello stesso idealismo, attraversandolo come momento, che proprio per questo è continuamente risorgente, ogni volta, dalla profondità dello stesso pensiero. È il momento in cui la religione pone Dio in un cielo lontano dalla nostra esperienza; è il momento in cui la scienza presup- pone una natura indipendente dalla mente che la conosce; nel combattere il realismo, «la filosofia partecipa alla riscossa del sentimento religioso, che è ribellione contro rappresentazioni materialistiche del divino, e sforzo di inte- riorizzazione e di approfondimento spirituale» (p. 58). Per Gentile, la filosofia è il supremo grado di consapevolezza dello spirito umano nel suo storico divenire e il suo oggetto è lo stesso spirito in quanto attività, formazione. La filosofia è quindi fin dall’inizio una questione di pedagogia nazionale, educazione non rivoluzione, processo senza fratture di crescita della società.
Questa filosofia religiosa non poteva non essere politica, poiché la reli- gione educa alla serietà della vita e degli studi e spinge l’intellettuale in strada perché partecipi alle cose del mondo. Come il fascismo, anche Gentile prospetta un uomo nuovo, giacobino nella sua integralità, in cui convivono anima libertaria e autoritaria, titanismo e fanatismo ideologico. Il “letterato” è il costante bersaglio polemico di Gentile, che usa il termine per intendere anche il poeta, l’artista, il filosofo, lo scienziato, insomma chiunque faccia professione di scienza e cultura per giustificare il proprio isolamento dalla realtà degli uomini, al di fuori e al di sopra delle leggi di Dio e di quelle degli uomini. «Lo scopo è quello di denunciare la debolezza del carattere nazionale, di fustigare il costume degli intellettuali italiani, che anche nei momenti cruciali della storia non prendono seriamente le cose, non si assumono la responsabilità di quello che pensano sfidando il potere. Il difetto morale del popolo italiano Gentile lo chiama intellettualismo» (p. 67). Intellettualistica è una cultura senza la fede religiosa, senza un imperativo morale, senza una ragione per vivere e per morire, ma l’opposto rischia, nota Pirro, di incoraggiare e sostenere una cultura politicizzata o peggio una cultura irrazionale e reazionaria. Un rischio che Gentile si sente di correre affinché sia possibile una riforma filosofica e politica e questa riforma porta il nome di attualismo, che è vera religione in quanto celebra la potenza dello spirito e immortala l’uomo ed è vera politica perché restituisce allo Stato, inteso come orga- nizzazione politica di una comunità nazionale, la dimensione spirituale che consente di intenderlo in interiore homine. Questo spiega perché Gentile può considerare filosofia e Stato come intimamente connesse, con la conseguen- za di uno Stato che non può tollerare accanto a sé, dentro di sé, una Chiesa detentrice del monopolio dello spirito: «come il pensiero non può spogliarsi della sua funzione religiosa, senza precipitare nell’astrattezza e nello scetticismo, così lo Stato non può sequestrare da sé il divino, senza soffocare quella vita in cui deve pur realizzarsi» (p. 129). Per essere veramente laico, lo Stato deve spogliarsi della religione posticcia e artificiosa per riempirsi di una sua interna religione; per avere sovranità e autonomia lo Stato non può essere agnostico, ma deve essere compenetrato dal senso del divino e considerare la Chiesa come un’alleata che rinuncia, però, per questo, a ogni prerogativa e privilegio.
A liberare queste riflessioni è la Grande guerra e il diritto dello Stato di chiamare vaste masse nell’olocausto delle trincee, un diritto che può arrogarsi solo in quanto Stato etico e non certo come Stato meccanizzato, freddo amministratore di interessi; e il centro della necessaria energia spirituale non può che essere la religione da cui lo Stato deriva la disciplina che spoglia l’uomo dalle inclinazioni dell’egoismo. Questo Stato Gentile lo trova nel fascismo, dinanzi al quale si consuma il dissidio con Benedetto Croce. L’adesione, o meno, al fascismo impone infatti un chiarimento teorico e pratico sui rapporti tra regnum e studium: «Croce e Gentile fanno le proprie scelte e si ritrovano in campi opposti, non per ragioni di comodo o per capricci perso- nali, ma per obbedire alla logica interna del loro pensiero» (p. 161). Gentile aderisce per la sua convinzione che gli interessi universali si incarnino e si attuino solo nello Stato ed è Croce a separarsi da lui, elaborando per opposi- zione una propria concezione politica che tuttavia, proprio per questo, nota Pirro, conserva il carattere reattivo e si specifica più in senso negativo, come antifascismo, risolvendosi interamente sul piano morale e coscienziale del dissenso e dell’opposizione ideale. Gentile, invece vuole costruire la nazione, declinandola in senso attualistico, non naturalistico, per intenderla come farsi dello spirito e non come fatto della natura o della storia: la nazione non c’è se non in quanto si fa, con il lavoro serio, con sforzo.
[…]

Rodolfo Sideri

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2014-2015, XXIV-XXV

 

Gli opuscoli prima di Caporetto: nuovi prodotti per la propaganda

di Federica Formiga

//In epoca greca e romana la carica propagandistica era affidata alla scultura, alla statuaria, alle iscrizioni, alle monete, alle rappresentazioni iconografiche, cioè a tutte quelle fonti che avevano come oggetto l’esaltazione e l’affermazione del potere, l’approvazione e la condivisione ideologica; diver- so invece fu nei periodi successivi e in particolare durante la Prima Guerra mondiale, quando ad ausilio della propaganda venne fatto un uso intensivo di mezzi d’azione di massa significativi quali appunto la stampa. La propaganda dell’inizio del XX secolo non ha nulla a che vedere con quella greca e soprattutto con quella dell’età di Pericle, il primo forse a tentare di influire psicologicamente e ideologicamente sulla folla. Di quest’influenza fu mago il tiranno Pisistrato (600-527) perché si servì di diversi strumenti, dall’eloquenza alle elargizioni al popolo, alla capacità di ‘rivelare’ i nemici che, nella loro violenza, erano un pericolo non solo per la sua persona, ma anche per tutti i cittadini ateniesi. Però ‘l’uso’ del nemico, la sua individuazione divenne un sistema primario di propaganda solo con la rivoluzione francese.
<La designazione del nemico ufficiale è il mezzo per eccellenza atto a provo- care un’emozione popolare, per smuovere le folle ed ottenere da esse un’a- desione su punti ben diversi dalla semplice lotta al nemico.>
È a partire dall’impero romano che la propaganda viene elaborata sotto forme diverse a seconda dei regimi, nei quali però aveva degli elementi in comune: verso l’esterno mirava a far sentire i popoli conquistati parte integrante del perfetto sistema romano e non soggiogati con la forza e, verso l’interno, era basata su quello che potremmo chiamare ante litteram nazionalismo. Cicerone è forse tra coloro che utilizzarono il termine propaganda nel senso più vicino al concetto odierno in quanto nel De officiis (2, 43) scrisse «vera gloria radices agit, atque etiam propagatur»; in questo passo propago ha il significato di diffusione, ampliamento, trasmissione ed è proprio con tali accezioni che oggi utilizziamo il sostantivo, sebbene lo carichiamo di valenza negativa. L’impero romano fu il primo a servirsi dell’informazione come propaganda facendo redigere manifesti che raccontassero la vita so- ciale, dessero notizie politiche, riassumessero le leggi, i discorsi e i lavori del senato e se la propaganda scritta nell’impero romano restò un fenomeno letterario limitato alle classi colte superiori, da queste l’imperatore doveva attirare consensi, non fu esclusivamente così durante la Grande Guerra perché la propaganda era destinata a tutti. Gli strumenti a disposizione erano le feste (motivi di intrattenimento erano organizzati, soprattutto dopo Caporetto, anche per i soldati), i discorsi (ai soldati e alla massa si parlava attraverso conferenze e comizi), manifesti e iscrizioni (prime forme di quelli che saranno i Bollettini, gli opuscoli e i cartelloni propagandistici), la letteratura (fiorente fu quella di guerra creata per deformare gli avvenimenti o denunciarli). La propaganda doveva però avere caratteri diversi a seconda di chi si rivolgesse, perché doveva essere semplice soprattutto se rivolta alla masse; mentre per gli ufficiali e anche per la truppa necessitava di peculiarità diverse, perché si puntava sull’elevato ceto sociale, sulla nobiltà dei sentimenti, invece per la truppa serviva trovare rispondenza nello spirito popolare e rude del soldato.
La forma con la quale fare propaganda andò a perfezionarsi solo tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo quando, consapevoli che era impossibile spiegare una dottrina politica al popolo, si passò alla forma dello slogan, brevi frasi facili da diffondere e ricordare. Le monarchie centralizzate che stavano occupando sempre più potere avevano l’obiettivo di giustificare e di far capire alla gente le proprie azioni attraverso il diritto e per questo i legisti adottarono formulazioni dottrinali che potessero giustificare l’agito, bastava diffonderle per farle diventare accettabili senza spirito critico; ancora una volta quasi nulla di diverso dalla propaganda messa in campo tra il 1914 e il 1918; al XIV secolo però mancavano i mezzi d’azione e anche i migliori tecnici della propaganda, come i legisti medievali, lavoravano con scritti diffusi in pochi esemplari e con la parola, ma soprattutto senza mai sistematizzare un metodo visto che le esperienze di propaganda dopo un certo tempo venivano abbandonate e non servivano per formulare una regola che riguardasse la propaganda in generale. Occorrerà l’apparizione dei caratteri mobili perché la propaganda avesse a disposizione uno strumento di conoscenza rapida ed efficace.
<La stampa permette di far circolare le idee tra le masse in modo molto più considerevole che i discorsi, di agire a distanza, di creare un’opinione pubbli- ca e di tenere molto meno conto dei costumi esistenti. Bisogna considerare che in quest’epoca lo stampato aveva molta più autorità sul lettore di quanta ne abbia oggi; era ancora un oggetto raro e poteva contenere, agli occhi del lettore, solo la verità. Ma bisognava saper leggere […]. Proprio perché l’individuo sa leggere diventa più accessibile alla carta stampata. La grande forza della Riforma sarà quella di influenzare l’opinione pubblica con la circolazione di opuscoli.>
Il termine propaganda tra l’altro comparve solo nel 1622 quando papa Gregorio XV istituì formalmente la Sacra congregatio de propaganda Fide, una nuova strategia della Chiesa per esercitare contemporaneamente un potere amministrativo, giudiziario, coercitivo e per controllare la vita intellettuale attraverso la censura, ma anche la diffusione di testi religiosi attraverso la Stamperia poliglotta.
L’ultimo passo da compiere nello sviluppo fu quello di dare alla pro- paganda le caratteristiche che ancora le mancavano, cioè essere duratura e organizzata, passaggio avvenuto con la Rivoluzione francese. La propaganda tendeva a raggiungere l’opinione pubblica nella sua globalità, a plasmarla, diventando quindi di massa soprattutto grazie all’utilizzo della stampa, mezzo essenziale per Napoleone che fece pubblicare il Parallelo fra Cesare, Cromwell e Bonaparte, celebre opuscolo panegirico sulla sua figura. Anthony Pratkanis e Elliot Aroson attribuiscono la nascita della propaganda, come oggi la conosciamo, al momento in cui venne aperta a Philadelphia nel 1843 la prima agenzia di pubblicità e con la Prima Guerra mondiale il processo venne a compimento grazie al modo e soprattutto ai mezzi con i quali venne condotta. Se già agli albori dell’introduzione della tipografia i messaggi erano divenuti più capillarmente trasmissibili, grazie ai tempi rapidi di preparazione e diffusione del testo, ci vollero secoli e nuove tipologie di prodotto (manifesti illustrati, cartoline, brevi opuscoli) per iniziare a creare un punto di vista, un’opinione facendo in modo che il destinatario del messaggio lo recepisse intuitivamente e lo accettasse ‘volontariamente’ fino a farlo divenire proprio. Sono questi gli anni di un salto decisivo per la propaganda con un coinvolgimento più massiccio della popolazione nella vita politica e nella ridefinizione radicale degli strumenti e dei linguaggi della comunicazione: la missione più importante era fabbricare la vittoria e lo si poteva fare popo- lando l’opinione pubblica di eroi e di nemici, sfumare le implicazioni disastrose che la guerra portava con sé e diffondere l’ottimismo.
L’Italia entrò militarmente in guerra il maggio del 1915, ma ne fu coivolta psicologicamente fin dall’inizio del conflitto e ne sono prova il dibattito tra interventisti e neutralisti oppure, soprattutto durante il conflitto, le voci dissidenti quali quelle dei ‘disfattisti’, in particolar modo i socialisti, che pure avevano scelto di ‘non aderire, né sabotare’. Gli schieramenti e le varie fazioni al loro interno si sono rapportati con delle nuove forme di comunizione tutte rivolte, in un senso o nell’altro, a fare propaganda. La storiografia ormai assegna la nascita di quest’ultima proprio alla Grande Guerra perché fu il periodo durante il quale si svilupparono nuovi strumenti che andavano dal cinematografo, ai manifesti e a piccole spicciole pubblicazioni da distribuire, spesso cladestinamente, tra i civili e i militari, sia amici sia nemici. La propaganda si rivolgeva infatti a tre categorie distinte: ai soldati, per alimentare la volontà di combattere; al nemico per incoraggiare la rivolta e la diserzione; ai civili per chiedere il sostegno morale ed economico alla guerra. Tra le professioni direttamente coinvolte in tali attività ci fu senza dubbio quella editoriale perché la parola scritta, anche sotto forma di slogan, rivestì un ruolo fondamentale che nei secoli precedenti non aveva avuto così tanta fortuna. L’impresa già nei decenni immediatamente successivi all’Unità d’Italia aveva subito delle trasformazioni, o meglio, un’evoluzione tecnica e finanziaria delle sue strategie di mercato, anche se con le dovute differenze regionali. Nei primi anni del Novecento iniziarono la loro attività gran parte delle case editrici destinate a diventare colossi editoriali quali Rizzoli, Mondadori e Laterza; però nelle grandi città la piccola stamperia e la grande azienda editoriale continuavano a convivere, nonostante il dislivello tecnologico raggiunto fosse nettamente disomogeneo a vantaggio delle grandi aziende che investivano nei torchi meccanici. Le tipografie in Italia aumentarono di numero, quasi raddoppiando tra il 1844 e il 1873 passando così da circa 490 a 911, mantenendo però sempre il modello a conduzione familiare e il loro ruolo fu determinante nella pubblicazione di tutti quegli opuscoli che ebbero vita durante il conflitto bellico. Nella prima metà dell’Ottocento esistevano discrete aziende tipografiche, ma i dazi doganali non le faceva- no crescere e se da un lato le tenevano lontane dai rischi imprenditoriali, dall’altro non permettevano il fiorire della concorrenza. Dopo l’Unità fu eliminato il farraginoso meccanismo delle tasse, ma servirono quasi altri due decenni per superare la logica localistica e familiare e per pensare di poter entrare nel mercato nazionale anche grazie a strumenti, al momento inesistenti, quali un catalogo unificato di informazione bibliografica e di organizzazione degli editori6. Solo nel 1888 l’Associazione Libraria italiana, divenuta Associazione tipografico-libraria italiana, diede alla luce gli annuari del commercio librario, gli elenchi dei periodici e delle biblioteche e soprattutto i primi cataloghi collettivi che fornirono un panorama della produzione. Nel 1897, grazie alla presidenza Bocca, nacque il Catalogo generale della libreria italiana, il cosiddetto Pagliaini, dal nome del compilatore, che assolse per anni una funzione indispensabile nel panorama bibliografico che si andava profilando. Giuseppe Pomba nel 1872 scrisse che l’editoria in Italia faceva i progressi necessari per poterla far stare al passo con le altre Nazioni e ne sono prova editori quali Sonzogno, Barbèra, Le Monnier, Pomba e Treves i quali, attraverso la creazione di nuove collane i cui volumetti erano destinati al popolo o alla massa, consentirono al mondo dell’editoria di sopravvivere anche durante il periodo bellico. Difficile però tratteggiare un quadro uniforme perché la realtà si scomponeva in una serie di situazioni ben distinte: molti erano i casi lungo tutta la penisola di esercizi strutturati in forma di libreria-editrice; esisteva poi lo squilibrio tra l’entità dei volumi stampati e la relativa distribuzione e che portò allo scontro tra i librai, che rivendicavano una percentuale più alta sulle vendite, con gli editori, che invece li accusavano di non prodigarsi abbastanza per allargare il circuito distributivo.
Però, stranamente, i cambiamenti politici e lo scontro bellico alle porte modificarono lo scenario grazie anche alla nascita di nuovi soggetti sociali e di moderni partiti di massa. L’anno dello scoppio della Prima guerra mondiale a Milano l’Unione italiana dell’educazione popolare promosse una ‘biblioteca di coltura popolare’, nota per il colore della sua copertina, come ‘collana rossa’, di cui 2.000 copie sulle 10.000 stampate erano state diffuse gratuitamente nelle biblioteche popolari delle quali, sul territorio nazionale, alla fine del 1914 se ne contano circa 1.400. Il conflitto portò a un aumento delle stampe riguardanti lo scontro, tanto che il Giornale della libreria elenca oltre 194 titoli tra libri, opuscoli ed estratti pubblicati nel 1914 e 295 nel 1915 riguardanti la guerra e la sua preparazione. Lo scontro portò inoltre a una serie di cambiamenti a partire dalla distribuzione libraria:
<Italiani, dagli ospedali militari, dai paesi di confine, dalle trincee, dagli estremi ridotti, ogni giorno, giungono a noi dai fratelli feriti, dai fratelli combattenti, commosse domande di libri: e i rappresentanti delle Istituzioni e dei Comitati delle maggiori città italiane, riuniti a Milano, hanno con grande dolore constatato che, diffusi a centinaia di migliaia di volumi raccolti, le riserve librarie sono oramai quasi esaurite, così che da oggi diventerebbe impossibile soddisfare le ripetute insistenti richieste, se di nuovo non soccorra la vostra fraternità.>
<La donazione di libri da parte di case editrici (Barbèra, Le Monnier, Bemborad, Nerbini e Salani fino a Sandron) e di singoli tipografi divenne tra i sistemi più diffusi anche per approvvigionare le biblioteche militari il cui allestimento e cura rientravano nel progetto di educazione nazionale; durante il periodo bellico si distribuivano libri piacevoli, divertenti, e soprattutto ispirati agli ideali nazionali, ma anche di conforto, di antidoto ai vizi e, ovviamente, di propaganda patriottica>.
La propaganda svolse un ruolo importante e crescente nel primo conflitto mondiale, tanto da essere considerata una delle armi principali con cui la guerra fu combattuta, sia sul fronte militare sia sul fronte interno. In Europa, particolarmente in Italia, essa accompagnò l’affermarsi della società di massa di cui la guerra fu levatrice, con i suoi nuovi linguaggi, leader e soggetti politici.
Così il conflitto fu anche una ‘Grande Guerra delle parole’ come si legge in Peter Buitenhuis.
Si gettavano quindi le premesse e maturavano i presupposti che a breve, di fronte all’evento bellico, condurranno anche in Italia a una serie di iniziative tese alla diffusione di materiale da lettura fra le truppe impegnate in guerra, sull’esempio di quanto andavano facendo le altre potenze europee quali Francia, Inghilterra, Germania.
Anche se di fronte a milioni di morti è azzardato, oltre che irriverente, affermare che il mondo editoriale ebbe motivo di sviluppo non possiamo non constatare che, allo scoppio della guerra, ci fu una presa di coscienza di quanto fosse necessario pubblicare per creare anche nuovi lettori tra quei giovani soldati leve dello sviluppo nazionale grazie ai quali si poteva tentare di sconfiggere quell’endemica ignoranza contro la quale si lottava dall’inizio del Novecento. Nella congiuntura che si stava profilando la lettura poteva diventare un agile strumento di sollievo, ma nell’immediato proprio anche di propaganda coinvolgendo tutti, e non solo le reclute combattenti, in quella vorticosa dialettica divisa tra interventismo e astensionismo.
Gli eventi diminuirono le vendite della produzione che potremmo defi- nire classica, ma le perdite vennero largamente compensate da altri titoli o nuove forme librarie e i contraccolpi incisero sulle caratteristiche che l’edito- ria italiana aveva avuto fino a quel momento. Una delle forme a stampa che si andò sviluppando fu quella degli opuscoli, cioè pubblicazioni di dimensioni ridotte e di veste editoriale economica, generalmente destinate a fornire una breve sintesi di un argomento o a dare informazioni di carattere generale e pratico. Tra le differenze più evidenti tra l’editoria postunitaria e quella sviluppatasi durante il conflitto bellico c’è anche quella legata ai nuovi lettori provenienti dai ceti urbani emergenti dotati di un reddito frutto delle loro attività mercantili e professionali; non si tratta più esclusivamente di uno strato intellettuale, spesso legato al patriziato, contemporaneamente produttore e fruitore, ma di un nuovo pubblico con altre domande da soddisfare e richiedente nuovi generi. Con questo contesto culturale e sociale l’Italia entrò  nel conflitto e l’editoria non poteva non tenerne conto nel suo statuto e nel proprio codice comunicativo. Non era possibile trascurare il nuovo ceto medio neanche nelle nuove forme del libro sempre più realizzabile a vaste tirature grazie a una tecnologia ormai consolidata. Infatti le nuove possibilità di espansione editoriale trovavano linfa nei recenti miglioramenti tecnico-tipografici che consentivano di impaginare facilmente e con miglior risultati testo e immagine. Edoardo Sonzogno e Adriano Salani, su un piano popolare, Treves e Hoepli, su un livello più elevato furono i primi ad applicare le innovazioni. La guerra inoltre portò a una serie di cambiamenti tra i quali, e non da ultimo, la nascita di uomini ‘illeterati’, che scrivevano dando vita a una produzione di prodotti editoriali che testimoniano le trasformazioni altropologiche e sociali che la guerra portava con sé. Non è questa però la sede per studiarne la scrittura, spesso stentata o spesso semplice traduzio- ne di un’oralità, sebbene fosse meno dialettale grazie al fronte in guerra che contribuì all’utilizzo unicamente dell’italiano. La vera trasformazione antropologica fu quella di potersi rapportare con i nuovi mezzi e forme di comunicazione dei quali il conflitto bellico divenne il trampolino di lancio nonostante gli strumenti fossero all’inizio quasi esclusivamente governati dallo Stato, che non poteva non approfittarne di essere perennamente pre- sente con simboli e slogan.
L’ufficio storiografico della mobilitazione, istituito presso il ministero per le armi e munizioni con lo scopo di raccogliere dati e documenti della guer- ra, iniziò nel primo volume del 1918 dell’Archivio storico italiano un’attività che doveva essere una rassegna bibliografica ragionata di guerra. L’idea era di offrire agli studiosi un complesso organico per ulteriori indagini bibliografiche e a Giuseppe Prezzolini spettò di aprire l’iniziativa, che però non ebbe un seguito. Prezzolini esordì il suo articolo sottolineando che la produzione libraria italiana di guerra non poteva non tener conto delle condizioni sociali, economiche e politiche molto diverse regionalmente e che la produzione libraria di un paese si poteva dividere in quella fatta per scopi non commerciali da enti e privati non speculatori e in quella per scopi commerciali, fatta da editori che si proponevano di trarne un utile. Fu la prima categoria a portare subito a un aumento di produzione durante il triennio bellico perché erano i prodotti commissionati direttamente dallo Stato che, accorgendosi soprattutto dell’enorme importanza della propaganda, ha sussidiato o direttamente sostenuto le spese di molte pubblicazioni, in varie lingue e in varie forme, dal foglio all’opuscolo, dal volume alla strenna, dal calendario al segnalibro, o sotto le mentite spoglie di numeri unici di riviste, di volumi e opuscoli da collezioni. Gli stessi organi di Stato si sono prodigati a diventare editori di bollettini, di notiziari, di raccolte di regolamenti e di annuari, di elenchi, di volumi e di brevi pubblicazioni per l’istruzione alla guerra. Tra le funzioni, compiute tra l’altro ancor oggi lo Stato, quella di editore è tra i pubblici servizi:
essa assorbe tutta o gran parte della attività di parecchi rami dell’amministrazione governativa e tende ad acquistare un’importanza sempre maggiore, poiché si accentua la convenienza per lo Stato di far conoscere alla colletti- vità le condizioni e i risultati della propria azione e per la collettività la convenienza di valersi dello Stato per poter esaminare taluni indici e dati sulla situazione economica e sociale e generale e per svariate indagini scientifiche e tecniche. Parte di tale produzione, anche durante il conflitto, era destinate anche alla vendita, ma finì spesso al macero sia per una sbagliata distribuzione sia per la difficoltosa consultabilità dettata dalla mole di materiale. Tutto era pubblicato senza un’adeguata e necessaria sintesi e a questo si aggiun- gono quelle pubblicazioni completamente assenti di coordinamento, di un programma di svolgimento definito; l’accusa era che gli uffici di redazione inserissero materiale del quale disponevano occasionalmente: leggi, analisi di mercato, relazioni di fatti e bilanci che non avevano nessun seguito, che restavano discorsi o argomenti estemporanei per la cui pubblicazione si era- no affrontati notevoli costi, difficilmente recuperabili con la vendita privata, ma soprattutto inutili a fini propagandistici. Il Prezzolini nella produzione non commerciale inserisce anche quella dei privati sollecitati dai pretesti, ma anche dalla vanità, di portare il loro contributo alla guerra di carta e di parole stampate attraverso testi commemorativi o la stampa, per volere delle famiglie, delle lettere e dei diari dei soldati caduti.
Il problema invece dell’editoria commerciale durante il conflitto bellico era stabilire l’equazione tra il costo della materie prime e l’altezza dei salari da una parte con la capacità d’acquisto del Paese dall’altra. Dal 1914 la realtà editoriale fu molto meno rosea di quanto previsto, infatti erano da affrontare non solo le spese delle materie prime, ma anche la rarefazione dei produttori (autori) e ovviamente dei compratori. La capacità di acquisto era anche limitata per altre ragioni: <l’analfabetismo letterale e spirituale, la lingua italiana pochissimo conosciuta all’estero e il commercio librario male organizzato. La crisi però non fu affatto devastante in quanto gli italiani in quegli anni di guerra hanno letto di più sebbene abbiano letto peggio, perché di fronte a un languire della cultura e del senso critico e un minor vigore intellettuale si fece vivo un maggior bisogno di divertimento che poteva essere soddisfatto con una produzione rapida e ‘acciabattata’: le letture di svago e gli opuscoli d’occasione prendono il passo sopra gli studi seri e i volumi organici […]. La vita attiva della guerra, stagnando con la trincea, ha creato una certa disposizione, se non altro alla mediazione, certo alla lettura.>
I primi editori che si accorsero che la guerra poteva essere un volano commerciale furono quelli delle carte geografiche che fin dalla neutralità incominciaro a pubblicarle per rendere edotti su dove si stesse svolgendo il conflitto europeo assecondando così quella curiosità più legata al luogo che al perché. Tra le sorprese e le innovazioni portate dalla guerra ci furono poi le tipografie da campo sempre più operative a partire dal 1915.
<A che può servire ormai la parola, quando parlano i cannoni e i mortai? Ciò è tanto vero che nemmeno il piano di mobilitazione tedesca, tanto perfetto e completo, si era provveduto il caso in cui si dovessero stampare ancora le parole sulla carta. Ma venne la rapida invasione del Belgio, la rapida occupazione di alcune provincie francesi, che fecero sentire il bisogno di sempre più numerose carte topografiche […]. Una tipografia venne impiantata in un treno ferroviario […]. Il suo compito consiste nello stampare carte nella quali, con segni rossi e azzurri, vengono contraddistinte le posizioni proprie e del nemico […]. Il funzionamento dell’officina tipografica acuì il desiderio, se non il bisogno, di avere altri stampati e soprattutto qualche giornaletto.>
Questo portò alcune tipografie a stampare anche in città, lontano dal fragore dei cannoni. Era questa la soluzione produttiva adottata che condusse già dai primi mesi dall’inizio del conflitto a una sovrabbondanza di opuscoli in crescita poi esponenziale nei tre anni successivi. Tra le prime pubblicazioni uscirono solo due libretti: G. Bordoni, La grande guerra: la conflagrazione europea e Norberto Dell’armi, Piccola storia del popolo germanico, ma la situazione era destinata a cambiare rapidamente grazie anche all’attività di autori ed editori, che diedero eco al disagio e al nuovo stato degli intellettuali italiani, alimentati sempre più dalla tensione legata alla politica. L’editoria all’inizio fece fatica a diventare il diffusore delle loro opinioni, perché era rimasta indietro rispetto al confronto, continuava a produrre testi scolastici, volumi di storia e romanzetti d’appendice, come non esistesse il presente almeno fino a quando gli intellettuali non iniziarono a giocare un ruolo determinante e trovarono spazio di espressione nelle riviste e nei giornali.
Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, promotori e collaboratori della Voce, furono tra i primi a emergere tra gli intellettuali a favore della guerra
<si trasformarono in militanti di un’iniziativa politica e culturale che non può fare a meno degli strumenti messi a loro disposizione dall’editoria, e gior- nalistica e libraria: e su di essa confrontano anche l’attività letteraria, per esempio con la condanna del romanzo ‘commerciale’, frutto di un’editoria fondata sul profitto.>
Il rapporto della politica con l’editoria e viceversa si era fatto più urgente all’inizio nel secondo decennio del Novecento. I giovani intellettuali, tra i quali si contavano anche molti letterati, avevano la necessità di conquistare la fiducia di tutti coloro, cioè i borghesi, che potevano contribuire alla ‘rinascienza’ della nazione italiana e al loro servizio ci doveva essere una nuova editoria per diffondere l’idealismo. Il problema nel consenso nasceva quindi prima tra gli intellettuali e i maestri, secondo Prezzolini, dovevano dirsi persuasori; è in questo clima che nel 1908 era sorta la rivista La Voce le cui edizioni miravano ad allargare il pubblico e per lo stesso motivo nel 1911 venne aperta anche la Libreria La Voce per combattere la letteratura di consumo in nome di una libreria di diffusione; l’esperienza fu immediatamente seguita da un’attività di editoria libraria per, come affermò Prezzolini, «creare uno strumento di studio e di azione in Italia». Sempre nel 1911 il Prezzolini dichiarava che lo strumento sarebbero stati gli opuscoli a basso prezzo (10-15 centesimi) e che le questioni trattate sarebbero state attuali:
<Noi pubblicheremo opuscoli. Saranno opuscoli popolari, di questioni vive, nazionali. Bisogna che penetrino dappertutto. In campagna, nei piccoli pa- esi, dove non c’è libraio; nei sobborghi; fra gli studenti; fra i maestri; fra i parroci.>
È noto e in più sedi è stato trattato come la stampa abbia ricoperto sin dai suoi albori il ruolo di diffusore, su larga scala e in tempi rapidi, del pensiero politico oltre ad aver contribuito alla conoscenza della letteratura nazionale e classica; a cavallo tra il XIX e XX secolo, quando ciascuno poteva leggere ciò che voleva, la tensione tra la libertà e i tentativi di orientamento si fece più forte e raggiunse l’apice a partire dalla fine del 1914 con la propaganda bellica interventistica che fece largo uso del messaggio stampato, in primis attraverso la stampa periodica, ma anche di altro materiale quali i manifesti, le cartoline e appunto gli opuscoli, oggetti che non avevano la prospettiva di durare per sempre, e soprattutto non avevano alcun valore economico, ma erano idonei a influenzare l’opinione pubblica. Il libro, corposo o meno, non si configurava più come nei primi anni del Novecento quale un genere di consumo riservato ad aree sociali circoscritte, abituate a considerarlo come un elemento di corredo obbligatorio per lo status sociale e per qualificare il grado culturale24. Già nell’ottobre del 1914 il Republican di Springfield scriveva che il grande conflitto europeo avrebbe modificato il gusto dei lettori. La previsione profetizzava che i libri ricercati sarebbero stati quelli sulla guerra e molti argomenti, nei tempi del conflitto, sarebbero passati in secondo piano25. Aumentò il numero dei lettori che avevano bisogno di notizie in tempi brevi e soprattutto efficaci. Nulla più poteva viaggiare nell’ottica del progetto culturale per il popolo, ma si doveva ricorrere ad altri mezzi, quali proprio la propaganda, arma che si verifico’ assai efficace sia da mettere in campo per sollevare l’umore delle truppe e dei civili sia per distruggere l’amor proprio nemico. La letteratura della e sulla guerra fece così aumentare la produzione tipografica. Il settore di intervento, sviluppatosi dapprima a Firenze, fu così proprio quello di una vasta produzione di fogli volanti, opuscoli e libretti a poco prezzo, cioè strumenti che erano il terreno per far crescere la coscienza nazionale e destinati a diventare poi dei veri e propri monumenti di carta. Un ruolo di punta venne ricoperto proprio dalle edizioni della Voce che contribuirono a vivacizzare il dibattito antigiolittiano e portarono avanti la rivoluzione contro l’italietta e la cultura ufficiale e accademica alla ricerca di innovazione politica e culturale
<Gli editori impararono a parlare un linguaggio intriso di tecniche pubbli- citarie per conquistare un pubblico generico, se vogliamo di massa, e non classista, mentre piano piano il numero degli alfabetizzati registrava flessioni in aumento e l’editoria di cultura non si dimostrava così solida, tanto che gli editori potevano sopravvivere nel mercato con tranquillità dedicandosi quasi esclusivamente alla produzione scolastica o alla divulgazione. Le case editrici divennero più agili, aggressive e pronte a cogliere le opportunità diversificando la produzione nei generi e sfruttando la capacità distributiva sempre più sviluppatasi in reti. Inoltre gli editori presero coscienza della loro possibile autonomia sin dalla dichiarazione formale di guerra alla Germania, con la quale tra l’altro interrupero gli scambi creando così le basi per una propria indipendenza dall’influenza estera e soprattutto da quella tedesca. […]>

Il saggio completo, con il titolo Gli opuscoli prima di Caporetto: nuovi prodotti per la propaganda, corredato di apparato di note, in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2014-2015, XXIV-XXV, pp. 35-104.

Il tema è stato sviluppato dall’autrice nel volume:

Federica Formiga, Anche le parole sono in armi. Opuscoli e propaganda nella Grande Guerra, Luni Editrice , Milano 2019

 

 

Fiume, la “città di passione” e la sua storia complessa

Raoul Pupo, Fiume città di passioneLaterza, Bari-Roma 2018

// È dedicata a Fiume l’ultima fatica di Raoul Pupo. Il volume ricostruisce nel centenario dell’omonima impresa la storia di una città-simbolo del Novecento, che nel primo dopoguerra Gabriele D’Annunzio definì “Città di passione”, emblema cioè della “vittoria mutilata” da imporre all’attenzione internazionale affinché, dopo la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, Fiume diventasse a tutti gli effetti italiana, in risposta alle decisioni prese con il Patto di Londra e poi con idiktat di Versailles.

Pupo, che in passato ha descritto il dramma delle foibe, dell’esodo degli italiani del limes nord-orientale e di Trieste, questa volta volge il suo sguardo alla città di confine vittima della sua posizione geografica, come tante altre nel corso dei secoli, da Salonicco, a Smirne fino a Königsberg, dopo gli stravolgimenti provocati dalla disgregazione degli Imperi Centrali.

Lo studioso tratteggia con acume e capacità comunicativa l’iter storico della città che, dalla fine del Settecento (23 aprile 1779) con la politica di Maria Teresa, attribuisce a Fiume il ruolo di corpo separato annesso alla sacra corona del regno d’Ungheria, passando poi per la Grande Guerra, allo squadrismo e alla violenza del fascismo di confine, al secondo conflitto mondiale fino all’avvento della repressione operata dal comunismo titino e agli anni della Guerra Fredda.

         L’autore analizza la vita della città di confine nell’Ottocento, dopo i moti del Quarantotto i fiumani raggiungono l’idillio con il mondo magiaro, mettendo a disposizione del nuovo governo alcune delle loro navi da guerra, affinché si possano gettare le basi per la creazione di una marina ungherese, che avrebbe dovuto difenderli dalle presunte minacce dei croati, soltanto immaginate all’epoca, ma che diverranno realtà alla fine del secolo. I timori in quel momento, ovvero al termine dei moti del 1848, scompaiono quando il nuovo governatore di origine croata si mostra molto disponibile e rispettoso dell’autonomia cittadina.

Nel corso del XIX secolo i rapporti fra le due comunità fiumana e magiara si mantengono sostanzialmente buoni, i primi segni della crisi e dei primi sintomi di insofferenza frutto del nazionalismo strisciante in tutta Europa e di conseguenza anche nella regione emergono solo attorno al 1895, con le posizioni assunte dal governatore magiaro che si mostra intenzionato ad agire senza ascoltare i voleri della comunità cittadina, dotata di una forte autonomia. Lentamente si acuiscono le differenze tra due visioni nazionalistiche contrapposte. I fiumani ritengono che il conflitto non è etnico, perché popolazione e classe dirigente sono di origine composita: italica, mediterranea, slava, ungherese. È un conflitto politico, perché i fiumani difendono la loro volontà di autogoverno; ed è un conflitto identitario, perché i fiumani parlano fin dal medioevo una lingua italica, la veneta, e si riconoscono nella cultura italiana e nell’idea di nazione su base volontaristica, più simile al modello francese che a quello tedesco. La loro è una nazionalità culturale, che può convivere a lungo con un vivace patriottismo istituzionale ungherese. Viceversa, i croati e i movimenti nazionali slavi perseguono una visione etnicista e naturalistica della nazione, poiché rifiuta qualsiasi forma di assimilazione ritenendo impossibile rifiutare il destino nazionale. È evidente che per gli slavi del sud, la pretesa dei fiumani di essere italiani sembra un atto contro natura.

I fiumani quindi sono ben lieti della protezione ungherese, ma agli inizi del XX secolo il governo di Budapest cerca di avviare una politica di “magiarizzazione”, che riguarda la scuola e l’estensione delle leggi ungheresi senza il preventivo consenso del Comune. Per reazione, nasce a Fiume un partito autonomista, che si batte per la difesa dei privilegi tradizionali e dell’identità italiana, senza però mettere in discussione l’appartenenza all’Ungheria. Tale prospettiva realistica e legalitaria non basterà però ad un piccolo gruppo di giovani, che negli anni successivi darà vita ad un movimento irredentista, avente cioè come obiettivo l’annessione al regno d’Italia.

Dagli inizi del Novecento e fino alla Grande Guerra, il confronto fra etnie nella città di confine si acuisce e radicalizza. A Fiume lo scontro fra autonomisti e irredentisti aumenta, nonostante i rapporti idilliaci del passato. Degenera lo scontro con i croati, anche se il confronto serrato non sfocia in atti di violenza, mentre cresce la violenza operaia con manifestazioni e scioperi nel 1906 a sostegno delle rivendicazioni dei marinai della Società ungaro-croata che paralizzano la città tanto da provocare la morte di un operaio fiumano Pietro Kobek, durante le manifestazioni di protesta di 20.000 lavoratori, giunto lì soltanto per curiosare. Il decesso di Kobek originario della Stiria è provocato dai gendarmi croati del borgo satellite di Sušak, i sindacati trasformano la morte casuale dell’operaio in un simbolo e in un martire del socialismo fiumano. Sempre a Sušak, divenuta ormai un borgo tanto forse da rappresentare la seconda città croata dopo Zagabria, a far corso dagli inizi del Novecento si inizia a creare un movimento politico-comunicativo che mira a ottenere dei forti risultati elettorali per il popolo croato. A guidarlo è un giovane croato Franjo Supilo, brillante giornalista di Ragusa/Dubrovnik, che vuole trasformare Fiume nel centro di una coalizione fra gli slavi del sud viventi nell’Impero austro-ungarico, ai danni della monarchia asburgica. I risultati non si fanno attendere, quando con la dichiarazione di Fiume (Riječka rezolucija) del 1905, stilata da Ante Trumbić alcuni esponenti del mondo politico croato e serbo s’impegnano per agire in vista della difesa dei comuni interessi nazionali. La risoluzione sostiene apertamente i fautori del distacco dell’Ungheria dall’Austria, chiedendo in cambio l’unificazione tra Croazia-Slavonia e Dalmazia. Dopo Fiume è la volta di Zara (Zadarska rezolucija) che sostiene l’equiparazione fra la nazione serba e la nazione croata in seno a una Croazia unita e indipendente all’interno di un’Ungheria totalmente sovrana. Infine, nel dicembre del 1905, Supilo e il leader serbo SvetozarPribičević danno vita alla Coalizione serbo-croata (Hrvatsko-srpska koalicija). Nonostante i contrasti personali e politici e la crisi il processo rappresenterà una tappa storica per la nascita dello jugoslavismo.

Nel 1906, avvengono i primi scontri fra croati e italiani proprio a Sušak, appena oltre la Fiumara.Quando i croati, di ritorno da Zagabria, dopo una delle grandi manifestazioni del movimento dei Sokol (falco), che da Praga si era diffuso in tutte le regioni dell’Impero, organizzando le comunità slave in vista di una mobilitazione nazionale, infiammati dal loro patriottismo decidono di scendere dal treno, poiché Sušak non è collegata dalla rete ferroviaria, per marciare lungo le strade di Fiume cantando slogan contro gli italiani e a sostegno di Fiume croata. Gli incidenti tra le due comunità si verificheranno a Fiume, a Sušak e a Tersatto con una serie di manifestazioni e contro-manifestazioni in un clima di acceso patriottismo. Gli irredentisti italiani una volta cresciuti e approdati allo squadrismo fascista ricorderanno quei giorni di guerriglia urbana con nostalgia, come inizio della loro battaglia contro lo slavismo.

Nel 1909, inizia l’attacco alla Rappresentanza municipale da parte del governatore di Fiume, IstvánWickenburg, che prospetta la magiarizzazione dell’istruzione, l’introduzione della polizia di stato, lo scioglimento della Giovine Fiume, l’espulsione dalla città dell’irredentista Icilio Baccich, l’introduzione di una legge sugli stranieri che rappresenta una spada di Damocle e consente l’eventuale allontanamento dei 10.000 residenti italiani. A questo punto il consiglio comunale reagisce e viene immediatamente sciolto. Inizia così la stagione delle bombe contro il palazzo del governatore. Ma ciò che sta accadendo a Fiume alla vigilia dell’intervento militare italiano nella Grande Guerra non preoccupa l’Italia, più attenta ai problemi di Trento, Trieste e della Dalmazia. Se ne parlerà alla fine del conflitto, ma sarà troppo tardi per le trattative fra i governi. Il Patto di Londra stipulato in gran segreto nel 1915 non prevedeva l’assegnazione di Fiume all’Italia. Del resto, la città-porto non era stata inserita nel Trattato. In tal modo l’Austria, seppur fosse uscita perdente dal conflitto mondiale, avrebbe avuto un porto come garanzia per lo sbocco sull’Adriatico.Nessuno si aspettava che Vienna una volta sconfitta avrebbe perso per sempre il suo impero. Intanto croati, serbi e sloveni, si erano organizzati e reclamavano la nascita di un regno, con il sostegno di Francia e Gran Bretagna.

L’Italia si sente tradita dopo aver compreso che le due maggiori potenze europee, di fronte alla disgregazione dell’impero austro-ungarico, non intendono lasciare mano libera all’Italia nel Mar Adriatico, rinnegando così le clausole del Patto di Londra. Il sostegno accordato agli slavi del sudda parte di Francia e Gran Bretagna, trova d’accordo anche il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson che, rifiutando gli accordi di Londra firmati prima dell’entrata in guerra dell’esercito statunitense, sogna la realizzazione di un nuovo ordine internazionale fondato sull’autodeterminazione delle nazionalità e non vi è posto per un’Italia che abbia mano libera nell’Adriatico.

In Italia, la posizione assunta dagli Stati Uniti e dalle grandi potenze europee, risulta particolarmente sgradita agli ambienti del nazionalismo, che criticano apertamente la politica estera dei governi liberali italiani. D’Annunzio rifiuta la linea adottata da Francesco Saverio Nitti nei confronti delle scelte operate dalle grandi potenze e predispone un colpo di mano con i suoi legionari, occupando Fiume. Il poeta-soldato entra nella città nel settembre 1919, chiamato dai fiumani, perché alla conferenza della pace le potenze vincitrici non riescono a trovare un accordo sulle sorti della città. L’evento attira l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, per il coraggio mostrato da D’Annunzio e dai suoi seguaci nello sfidare le decisioni di Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Il Natale di sangue del 1920, sancisce però la cacciata a colpi di cannone di D’Annunzio e dei legionari da parte del governo italiano.

I fiumani sperano che la città non venga annessa alla Jugoslavia, preferiscono l’Italia, perché necondividono la nazionalità e per la quale alcuni giovani volontari irredentisti hanno combattuto. Si spera nell’annessione, ma forse sarebbe meglio la creazione di una piccola città-Stato libera, che permetterebbe di salvare identità e affari.

Nel frattempo, i fiumani apprezzano la creazione di uno Stato cuscinetto decisa dal Trattato italo-jugoslavo di Rapallo e, nel 1921, sostengono alle votazioni il partito autonomista guidato daRiccardo Zanella, che viene nominato presidente dello Stato libero.

Ma la situazione politica della città assume sempre più toni di stampo nazionalistico e antidemocratico. A Fiume gli autonomisti sono la maggioranza nelle urne, ma nelle piazze sono più forti gli ex legionari dannunziani e i fascisti. Il governo di Roma non interviene per garantire l’ordine, mentre quello di Belgrado, incapace nel frenare i contrasti fra serbi e croati, è impotente nel vedere Fiume che diventa italiana. Nel marzo 1922, i fascisti compiono un colpo di stato e mettono in fuga Zanella. Per due anni lo Stato libero è retto da un commissario italiano, finché un nuovo accordo italo-jugoslavo, firmato a Roma nel gennaio 1924, sancisce la definitiva annessione di Fiume all’Italia. 

L’avvento del regime fascista e la particolare connotazione del fascismo di confine peserà sul futuro della città. […]

Andrea Perrone

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 1, n. 1, 2019, nuova serie (a. XXXI)