Gli opuscoli prima di Caporetto: nuovi prodotti per la propaganda

di Federica Formiga

//In epoca greca e romana la carica propagandistica era affidata alla scultura, alla statuaria, alle iscrizioni, alle monete, alle rappresentazioni iconografiche, cioè a tutte quelle fonti che avevano come oggetto l’esaltazione e l’affermazione del potere, l’approvazione e la condivisione ideologica; diver- so invece fu nei periodi successivi e in particolare durante la Prima Guerra mondiale, quando ad ausilio della propaganda venne fatto un uso intensivo di mezzi d’azione di massa significativi quali appunto la stampa. La propaganda dell’inizio del XX secolo non ha nulla a che vedere con quella greca e soprattutto con quella dell’età di Pericle, il primo forse a tentare di influire psicologicamente e ideologicamente sulla folla. Di quest’influenza fu mago il tiranno Pisistrato (600-527) perché si servì di diversi strumenti, dall’eloquenza alle elargizioni al popolo, alla capacità di ‘rivelare’ i nemici che, nella loro violenza, erano un pericolo non solo per la sua persona, ma anche per tutti i cittadini ateniesi. Però ‘l’uso’ del nemico, la sua individuazione divenne un sistema primario di propaganda solo con la rivoluzione francese.
<La designazione del nemico ufficiale è il mezzo per eccellenza atto a provo- care un’emozione popolare, per smuovere le folle ed ottenere da esse un’a- desione su punti ben diversi dalla semplice lotta al nemico.>
È a partire dall’impero romano che la propaganda viene elaborata sotto forme diverse a seconda dei regimi, nei quali però aveva degli elementi in comune: verso l’esterno mirava a far sentire i popoli conquistati parte integrante del perfetto sistema romano e non soggiogati con la forza e, verso l’interno, era basata su quello che potremmo chiamare ante litteram nazionalismo. Cicerone è forse tra coloro che utilizzarono il termine propaganda nel senso più vicino al concetto odierno in quanto nel De officiis (2, 43) scrisse «vera gloria radices agit, atque etiam propagatur»; in questo passo propago ha il significato di diffusione, ampliamento, trasmissione ed è proprio con tali accezioni che oggi utilizziamo il sostantivo, sebbene lo carichiamo di valenza negativa. L’impero romano fu il primo a servirsi dell’informazione come propaganda facendo redigere manifesti che raccontassero la vita so- ciale, dessero notizie politiche, riassumessero le leggi, i discorsi e i lavori del senato e se la propaganda scritta nell’impero romano restò un fenomeno letterario limitato alle classi colte superiori, da queste l’imperatore doveva attirare consensi, non fu esclusivamente così durante la Grande Guerra perché la propaganda era destinata a tutti. Gli strumenti a disposizione erano le feste (motivi di intrattenimento erano organizzati, soprattutto dopo Caporetto, anche per i soldati), i discorsi (ai soldati e alla massa si parlava attraverso conferenze e comizi), manifesti e iscrizioni (prime forme di quelli che saranno i Bollettini, gli opuscoli e i cartelloni propagandistici), la letteratura (fiorente fu quella di guerra creata per deformare gli avvenimenti o denunciarli). La propaganda doveva però avere caratteri diversi a seconda di chi si rivolgesse, perché doveva essere semplice soprattutto se rivolta alla masse; mentre per gli ufficiali e anche per la truppa necessitava di peculiarità diverse, perché si puntava sull’elevato ceto sociale, sulla nobiltà dei sentimenti, invece per la truppa serviva trovare rispondenza nello spirito popolare e rude del soldato.
La forma con la quale fare propaganda andò a perfezionarsi solo tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo quando, consapevoli che era impossibile spiegare una dottrina politica al popolo, si passò alla forma dello slogan, brevi frasi facili da diffondere e ricordare. Le monarchie centralizzate che stavano occupando sempre più potere avevano l’obiettivo di giustificare e di far capire alla gente le proprie azioni attraverso il diritto e per questo i legisti adottarono formulazioni dottrinali che potessero giustificare l’agito, bastava diffonderle per farle diventare accettabili senza spirito critico; ancora una volta quasi nulla di diverso dalla propaganda messa in campo tra il 1914 e il 1918; al XIV secolo però mancavano i mezzi d’azione e anche i migliori tecnici della propaganda, come i legisti medievali, lavoravano con scritti diffusi in pochi esemplari e con la parola, ma soprattutto senza mai sistematizzare un metodo visto che le esperienze di propaganda dopo un certo tempo venivano abbandonate e non servivano per formulare una regola che riguardasse la propaganda in generale. Occorrerà l’apparizione dei caratteri mobili perché la propaganda avesse a disposizione uno strumento di conoscenza rapida ed efficace.
<La stampa permette di far circolare le idee tra le masse in modo molto più considerevole che i discorsi, di agire a distanza, di creare un’opinione pubbli- ca e di tenere molto meno conto dei costumi esistenti. Bisogna considerare che in quest’epoca lo stampato aveva molta più autorità sul lettore di quanta ne abbia oggi; era ancora un oggetto raro e poteva contenere, agli occhi del lettore, solo la verità. Ma bisognava saper leggere […]. Proprio perché l’individuo sa leggere diventa più accessibile alla carta stampata. La grande forza della Riforma sarà quella di influenzare l’opinione pubblica con la circolazione di opuscoli.>
Il termine propaganda tra l’altro comparve solo nel 1622 quando papa Gregorio XV istituì formalmente la Sacra congregatio de propaganda Fide, una nuova strategia della Chiesa per esercitare contemporaneamente un potere amministrativo, giudiziario, coercitivo e per controllare la vita intellettuale attraverso la censura, ma anche la diffusione di testi religiosi attraverso la Stamperia poliglotta.
L’ultimo passo da compiere nello sviluppo fu quello di dare alla pro- paganda le caratteristiche che ancora le mancavano, cioè essere duratura e organizzata, passaggio avvenuto con la Rivoluzione francese. La propaganda tendeva a raggiungere l’opinione pubblica nella sua globalità, a plasmarla, diventando quindi di massa soprattutto grazie all’utilizzo della stampa, mezzo essenziale per Napoleone che fece pubblicare il Parallelo fra Cesare, Cromwell e Bonaparte, celebre opuscolo panegirico sulla sua figura. Anthony Pratkanis e Elliot Aroson attribuiscono la nascita della propaganda, come oggi la conosciamo, al momento in cui venne aperta a Philadelphia nel 1843 la prima agenzia di pubblicità e con la Prima Guerra mondiale il processo venne a compimento grazie al modo e soprattutto ai mezzi con i quali venne condotta. Se già agli albori dell’introduzione della tipografia i messaggi erano divenuti più capillarmente trasmissibili, grazie ai tempi rapidi di preparazione e diffusione del testo, ci vollero secoli e nuove tipologie di prodotto (manifesti illustrati, cartoline, brevi opuscoli) per iniziare a creare un punto di vista, un’opinione facendo in modo che il destinatario del messaggio lo recepisse intuitivamente e lo accettasse ‘volontariamente’ fino a farlo divenire proprio. Sono questi gli anni di un salto decisivo per la propaganda con un coinvolgimento più massiccio della popolazione nella vita politica e nella ridefinizione radicale degli strumenti e dei linguaggi della comunicazione: la missione più importante era fabbricare la vittoria e lo si poteva fare popo- lando l’opinione pubblica di eroi e di nemici, sfumare le implicazioni disastrose che la guerra portava con sé e diffondere l’ottimismo.
L’Italia entrò militarmente in guerra il maggio del 1915, ma ne fu coivolta psicologicamente fin dall’inizio del conflitto e ne sono prova il dibattito tra interventisti e neutralisti oppure, soprattutto durante il conflitto, le voci dissidenti quali quelle dei ‘disfattisti’, in particolar modo i socialisti, che pure avevano scelto di ‘non aderire, né sabotare’. Gli schieramenti e le varie fazioni al loro interno si sono rapportati con delle nuove forme di comunizione tutte rivolte, in un senso o nell’altro, a fare propaganda. La storiografia ormai assegna la nascita di quest’ultima proprio alla Grande Guerra perché fu il periodo durante il quale si svilupparono nuovi strumenti che andavano dal cinematografo, ai manifesti e a piccole spicciole pubblicazioni da distribuire, spesso cladestinamente, tra i civili e i militari, sia amici sia nemici. La propaganda si rivolgeva infatti a tre categorie distinte: ai soldati, per alimentare la volontà di combattere; al nemico per incoraggiare la rivolta e la diserzione; ai civili per chiedere il sostegno morale ed economico alla guerra. Tra le professioni direttamente coinvolte in tali attività ci fu senza dubbio quella editoriale perché la parola scritta, anche sotto forma di slogan, rivestì un ruolo fondamentale che nei secoli precedenti non aveva avuto così tanta fortuna. L’impresa già nei decenni immediatamente successivi all’Unità d’Italia aveva subito delle trasformazioni, o meglio, un’evoluzione tecnica e finanziaria delle sue strategie di mercato, anche se con le dovute differenze regionali. Nei primi anni del Novecento iniziarono la loro attività gran parte delle case editrici destinate a diventare colossi editoriali quali Rizzoli, Mondadori e Laterza; però nelle grandi città la piccola stamperia e la grande azienda editoriale continuavano a convivere, nonostante il dislivello tecnologico raggiunto fosse nettamente disomogeneo a vantaggio delle grandi aziende che investivano nei torchi meccanici. Le tipografie in Italia aumentarono di numero, quasi raddoppiando tra il 1844 e il 1873 passando così da circa 490 a 911, mantenendo però sempre il modello a conduzione familiare e il loro ruolo fu determinante nella pubblicazione di tutti quegli opuscoli che ebbero vita durante il conflitto bellico. Nella prima metà dell’Ottocento esistevano discrete aziende tipografiche, ma i dazi doganali non le faceva- no crescere e se da un lato le tenevano lontane dai rischi imprenditoriali, dall’altro non permettevano il fiorire della concorrenza. Dopo l’Unità fu eliminato il farraginoso meccanismo delle tasse, ma servirono quasi altri due decenni per superare la logica localistica e familiare e per pensare di poter entrare nel mercato nazionale anche grazie a strumenti, al momento inesistenti, quali un catalogo unificato di informazione bibliografica e di organizzazione degli editori6. Solo nel 1888 l’Associazione Libraria italiana, divenuta Associazione tipografico-libraria italiana, diede alla luce gli annuari del commercio librario, gli elenchi dei periodici e delle biblioteche e soprattutto i primi cataloghi collettivi che fornirono un panorama della produzione. Nel 1897, grazie alla presidenza Bocca, nacque il Catalogo generale della libreria italiana, il cosiddetto Pagliaini, dal nome del compilatore, che assolse per anni una funzione indispensabile nel panorama bibliografico che si andava profilando. Giuseppe Pomba nel 1872 scrisse che l’editoria in Italia faceva i progressi necessari per poterla far stare al passo con le altre Nazioni e ne sono prova editori quali Sonzogno, Barbèra, Le Monnier, Pomba e Treves i quali, attraverso la creazione di nuove collane i cui volumetti erano destinati al popolo o alla massa, consentirono al mondo dell’editoria di sopravvivere anche durante il periodo bellico. Difficile però tratteggiare un quadro uniforme perché la realtà si scomponeva in una serie di situazioni ben distinte: molti erano i casi lungo tutta la penisola di esercizi strutturati in forma di libreria-editrice; esisteva poi lo squilibrio tra l’entità dei volumi stampati e la relativa distribuzione e che portò allo scontro tra i librai, che rivendicavano una percentuale più alta sulle vendite, con gli editori, che invece li accusavano di non prodigarsi abbastanza per allargare il circuito distributivo.
Però, stranamente, i cambiamenti politici e lo scontro bellico alle porte modificarono lo scenario grazie anche alla nascita di nuovi soggetti sociali e di moderni partiti di massa. L’anno dello scoppio della Prima guerra mondiale a Milano l’Unione italiana dell’educazione popolare promosse una ‘biblioteca di coltura popolare’, nota per il colore della sua copertina, come ‘collana rossa’, di cui 2.000 copie sulle 10.000 stampate erano state diffuse gratuitamente nelle biblioteche popolari delle quali, sul territorio nazionale, alla fine del 1914 se ne contano circa 1.400. Il conflitto portò a un aumento delle stampe riguardanti lo scontro, tanto che il Giornale della libreria elenca oltre 194 titoli tra libri, opuscoli ed estratti pubblicati nel 1914 e 295 nel 1915 riguardanti la guerra e la sua preparazione. Lo scontro portò inoltre a una serie di cambiamenti a partire dalla distribuzione libraria:
<Italiani, dagli ospedali militari, dai paesi di confine, dalle trincee, dagli estremi ridotti, ogni giorno, giungono a noi dai fratelli feriti, dai fratelli combattenti, commosse domande di libri: e i rappresentanti delle Istituzioni e dei Comitati delle maggiori città italiane, riuniti a Milano, hanno con grande dolore constatato che, diffusi a centinaia di migliaia di volumi raccolti, le riserve librarie sono oramai quasi esaurite, così che da oggi diventerebbe impossibile soddisfare le ripetute insistenti richieste, se di nuovo non soccorra la vostra fraternità.>
<La donazione di libri da parte di case editrici (Barbèra, Le Monnier, Bemborad, Nerbini e Salani fino a Sandron) e di singoli tipografi divenne tra i sistemi più diffusi anche per approvvigionare le biblioteche militari il cui allestimento e cura rientravano nel progetto di educazione nazionale; durante il periodo bellico si distribuivano libri piacevoli, divertenti, e soprattutto ispirati agli ideali nazionali, ma anche di conforto, di antidoto ai vizi e, ovviamente, di propaganda patriottica>.
La propaganda svolse un ruolo importante e crescente nel primo conflitto mondiale, tanto da essere considerata una delle armi principali con cui la guerra fu combattuta, sia sul fronte militare sia sul fronte interno. In Europa, particolarmente in Italia, essa accompagnò l’affermarsi della società di massa di cui la guerra fu levatrice, con i suoi nuovi linguaggi, leader e soggetti politici.
Così il conflitto fu anche una ‘Grande Guerra delle parole’ come si legge in Peter Buitenhuis.
Si gettavano quindi le premesse e maturavano i presupposti che a breve, di fronte all’evento bellico, condurranno anche in Italia a una serie di iniziative tese alla diffusione di materiale da lettura fra le truppe impegnate in guerra, sull’esempio di quanto andavano facendo le altre potenze europee quali Francia, Inghilterra, Germania.
Anche se di fronte a milioni di morti è azzardato, oltre che irriverente, affermare che il mondo editoriale ebbe motivo di sviluppo non possiamo non constatare che, allo scoppio della guerra, ci fu una presa di coscienza di quanto fosse necessario pubblicare per creare anche nuovi lettori tra quei giovani soldati leve dello sviluppo nazionale grazie ai quali si poteva tentare di sconfiggere quell’endemica ignoranza contro la quale si lottava dall’inizio del Novecento. Nella congiuntura che si stava profilando la lettura poteva diventare un agile strumento di sollievo, ma nell’immediato proprio anche di propaganda coinvolgendo tutti, e non solo le reclute combattenti, in quella vorticosa dialettica divisa tra interventismo e astensionismo.
Gli eventi diminuirono le vendite della produzione che potremmo defi- nire classica, ma le perdite vennero largamente compensate da altri titoli o nuove forme librarie e i contraccolpi incisero sulle caratteristiche che l’edito- ria italiana aveva avuto fino a quel momento. Una delle forme a stampa che si andò sviluppando fu quella degli opuscoli, cioè pubblicazioni di dimensioni ridotte e di veste editoriale economica, generalmente destinate a fornire una breve sintesi di un argomento o a dare informazioni di carattere generale e pratico. Tra le differenze più evidenti tra l’editoria postunitaria e quella sviluppatasi durante il conflitto bellico c’è anche quella legata ai nuovi lettori provenienti dai ceti urbani emergenti dotati di un reddito frutto delle loro attività mercantili e professionali; non si tratta più esclusivamente di uno strato intellettuale, spesso legato al patriziato, contemporaneamente produttore e fruitore, ma di un nuovo pubblico con altre domande da soddisfare e richiedente nuovi generi. Con questo contesto culturale e sociale l’Italia entrò  nel conflitto e l’editoria non poteva non tenerne conto nel suo statuto e nel proprio codice comunicativo. Non era possibile trascurare il nuovo ceto medio neanche nelle nuove forme del libro sempre più realizzabile a vaste tirature grazie a una tecnologia ormai consolidata. Infatti le nuove possibilità di espansione editoriale trovavano linfa nei recenti miglioramenti tecnico-tipografici che consentivano di impaginare facilmente e con miglior risultati testo e immagine. Edoardo Sonzogno e Adriano Salani, su un piano popolare, Treves e Hoepli, su un livello più elevato furono i primi ad applicare le innovazioni. La guerra inoltre portò a una serie di cambiamenti tra i quali, e non da ultimo, la nascita di uomini ‘illeterati’, che scrivevano dando vita a una produzione di prodotti editoriali che testimoniano le trasformazioni altropologiche e sociali che la guerra portava con sé. Non è questa però la sede per studiarne la scrittura, spesso stentata o spesso semplice traduzio- ne di un’oralità, sebbene fosse meno dialettale grazie al fronte in guerra che contribuì all’utilizzo unicamente dell’italiano. La vera trasformazione antropologica fu quella di potersi rapportare con i nuovi mezzi e forme di comunicazione dei quali il conflitto bellico divenne il trampolino di lancio nonostante gli strumenti fossero all’inizio quasi esclusivamente governati dallo Stato, che non poteva non approfittarne di essere perennamente pre- sente con simboli e slogan.
L’ufficio storiografico della mobilitazione, istituito presso il ministero per le armi e munizioni con lo scopo di raccogliere dati e documenti della guer- ra, iniziò nel primo volume del 1918 dell’Archivio storico italiano un’attività che doveva essere una rassegna bibliografica ragionata di guerra. L’idea era di offrire agli studiosi un complesso organico per ulteriori indagini bibliografiche e a Giuseppe Prezzolini spettò di aprire l’iniziativa, che però non ebbe un seguito. Prezzolini esordì il suo articolo sottolineando che la produzione libraria italiana di guerra non poteva non tener conto delle condizioni sociali, economiche e politiche molto diverse regionalmente e che la produzione libraria di un paese si poteva dividere in quella fatta per scopi non commerciali da enti e privati non speculatori e in quella per scopi commerciali, fatta da editori che si proponevano di trarne un utile. Fu la prima categoria a portare subito a un aumento di produzione durante il triennio bellico perché erano i prodotti commissionati direttamente dallo Stato che, accorgendosi soprattutto dell’enorme importanza della propaganda, ha sussidiato o direttamente sostenuto le spese di molte pubblicazioni, in varie lingue e in varie forme, dal foglio all’opuscolo, dal volume alla strenna, dal calendario al segnalibro, o sotto le mentite spoglie di numeri unici di riviste, di volumi e opuscoli da collezioni. Gli stessi organi di Stato si sono prodigati a diventare editori di bollettini, di notiziari, di raccolte di regolamenti e di annuari, di elenchi, di volumi e di brevi pubblicazioni per l’istruzione alla guerra. Tra le funzioni, compiute tra l’altro ancor oggi lo Stato, quella di editore è tra i pubblici servizi:
essa assorbe tutta o gran parte della attività di parecchi rami dell’amministrazione governativa e tende ad acquistare un’importanza sempre maggiore, poiché si accentua la convenienza per lo Stato di far conoscere alla colletti- vità le condizioni e i risultati della propria azione e per la collettività la convenienza di valersi dello Stato per poter esaminare taluni indici e dati sulla situazione economica e sociale e generale e per svariate indagini scientifiche e tecniche. Parte di tale produzione, anche durante il conflitto, era destinate anche alla vendita, ma finì spesso al macero sia per una sbagliata distribuzione sia per la difficoltosa consultabilità dettata dalla mole di materiale. Tutto era pubblicato senza un’adeguata e necessaria sintesi e a questo si aggiun- gono quelle pubblicazioni completamente assenti di coordinamento, di un programma di svolgimento definito; l’accusa era che gli uffici di redazione inserissero materiale del quale disponevano occasionalmente: leggi, analisi di mercato, relazioni di fatti e bilanci che non avevano nessun seguito, che restavano discorsi o argomenti estemporanei per la cui pubblicazione si era- no affrontati notevoli costi, difficilmente recuperabili con la vendita privata, ma soprattutto inutili a fini propagandistici. Il Prezzolini nella produzione non commerciale inserisce anche quella dei privati sollecitati dai pretesti, ma anche dalla vanità, di portare il loro contributo alla guerra di carta e di parole stampate attraverso testi commemorativi o la stampa, per volere delle famiglie, delle lettere e dei diari dei soldati caduti.
Il problema invece dell’editoria commerciale durante il conflitto bellico era stabilire l’equazione tra il costo della materie prime e l’altezza dei salari da una parte con la capacità d’acquisto del Paese dall’altra. Dal 1914 la realtà editoriale fu molto meno rosea di quanto previsto, infatti erano da affrontare non solo le spese delle materie prime, ma anche la rarefazione dei produttori (autori) e ovviamente dei compratori. La capacità di acquisto era anche limitata per altre ragioni: <l’analfabetismo letterale e spirituale, la lingua italiana pochissimo conosciuta all’estero e il commercio librario male organizzato. La crisi però non fu affatto devastante in quanto gli italiani in quegli anni di guerra hanno letto di più sebbene abbiano letto peggio, perché di fronte a un languire della cultura e del senso critico e un minor vigore intellettuale si fece vivo un maggior bisogno di divertimento che poteva essere soddisfatto con una produzione rapida e ‘acciabattata’: le letture di svago e gli opuscoli d’occasione prendono il passo sopra gli studi seri e i volumi organici […]. La vita attiva della guerra, stagnando con la trincea, ha creato una certa disposizione, se non altro alla mediazione, certo alla lettura.>
I primi editori che si accorsero che la guerra poteva essere un volano commerciale furono quelli delle carte geografiche che fin dalla neutralità incominciaro a pubblicarle per rendere edotti su dove si stesse svolgendo il conflitto europeo assecondando così quella curiosità più legata al luogo che al perché. Tra le sorprese e le innovazioni portate dalla guerra ci furono poi le tipografie da campo sempre più operative a partire dal 1915.
<A che può servire ormai la parola, quando parlano i cannoni e i mortai? Ciò è tanto vero che nemmeno il piano di mobilitazione tedesca, tanto perfetto e completo, si era provveduto il caso in cui si dovessero stampare ancora le parole sulla carta. Ma venne la rapida invasione del Belgio, la rapida occupazione di alcune provincie francesi, che fecero sentire il bisogno di sempre più numerose carte topografiche […]. Una tipografia venne impiantata in un treno ferroviario […]. Il suo compito consiste nello stampare carte nella quali, con segni rossi e azzurri, vengono contraddistinte le posizioni proprie e del nemico […]. Il funzionamento dell’officina tipografica acuì il desiderio, se non il bisogno, di avere altri stampati e soprattutto qualche giornaletto.>
Questo portò alcune tipografie a stampare anche in città, lontano dal fragore dei cannoni. Era questa la soluzione produttiva adottata che condusse già dai primi mesi dall’inizio del conflitto a una sovrabbondanza di opuscoli in crescita poi esponenziale nei tre anni successivi. Tra le prime pubblicazioni uscirono solo due libretti: G. Bordoni, La grande guerra: la conflagrazione europea e Norberto Dell’armi, Piccola storia del popolo germanico, ma la situazione era destinata a cambiare rapidamente grazie anche all’attività di autori ed editori, che diedero eco al disagio e al nuovo stato degli intellettuali italiani, alimentati sempre più dalla tensione legata alla politica. L’editoria all’inizio fece fatica a diventare il diffusore delle loro opinioni, perché era rimasta indietro rispetto al confronto, continuava a produrre testi scolastici, volumi di storia e romanzetti d’appendice, come non esistesse il presente almeno fino a quando gli intellettuali non iniziarono a giocare un ruolo determinante e trovarono spazio di espressione nelle riviste e nei giornali.
Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, promotori e collaboratori della Voce, furono tra i primi a emergere tra gli intellettuali a favore della guerra
<si trasformarono in militanti di un’iniziativa politica e culturale che non può fare a meno degli strumenti messi a loro disposizione dall’editoria, e gior- nalistica e libraria: e su di essa confrontano anche l’attività letteraria, per esempio con la condanna del romanzo ‘commerciale’, frutto di un’editoria fondata sul profitto.>
Il rapporto della politica con l’editoria e viceversa si era fatto più urgente all’inizio nel secondo decennio del Novecento. I giovani intellettuali, tra i quali si contavano anche molti letterati, avevano la necessità di conquistare la fiducia di tutti coloro, cioè i borghesi, che potevano contribuire alla ‘rinascienza’ della nazione italiana e al loro servizio ci doveva essere una nuova editoria per diffondere l’idealismo. Il problema nel consenso nasceva quindi prima tra gli intellettuali e i maestri, secondo Prezzolini, dovevano dirsi persuasori; è in questo clima che nel 1908 era sorta la rivista La Voce le cui edizioni miravano ad allargare il pubblico e per lo stesso motivo nel 1911 venne aperta anche la Libreria La Voce per combattere la letteratura di consumo in nome di una libreria di diffusione; l’esperienza fu immediatamente seguita da un’attività di editoria libraria per, come affermò Prezzolini, «creare uno strumento di studio e di azione in Italia». Sempre nel 1911 il Prezzolini dichiarava che lo strumento sarebbero stati gli opuscoli a basso prezzo (10-15 centesimi) e che le questioni trattate sarebbero state attuali:
<Noi pubblicheremo opuscoli. Saranno opuscoli popolari, di questioni vive, nazionali. Bisogna che penetrino dappertutto. In campagna, nei piccoli pa- esi, dove non c’è libraio; nei sobborghi; fra gli studenti; fra i maestri; fra i parroci.>
È noto e in più sedi è stato trattato come la stampa abbia ricoperto sin dai suoi albori il ruolo di diffusore, su larga scala e in tempi rapidi, del pensiero politico oltre ad aver contribuito alla conoscenza della letteratura nazionale e classica; a cavallo tra il XIX e XX secolo, quando ciascuno poteva leggere ciò che voleva, la tensione tra la libertà e i tentativi di orientamento si fece più forte e raggiunse l’apice a partire dalla fine del 1914 con la propaganda bellica interventistica che fece largo uso del messaggio stampato, in primis attraverso la stampa periodica, ma anche di altro materiale quali i manifesti, le cartoline e appunto gli opuscoli, oggetti che non avevano la prospettiva di durare per sempre, e soprattutto non avevano alcun valore economico, ma erano idonei a influenzare l’opinione pubblica. Il libro, corposo o meno, non si configurava più come nei primi anni del Novecento quale un genere di consumo riservato ad aree sociali circoscritte, abituate a considerarlo come un elemento di corredo obbligatorio per lo status sociale e per qualificare il grado culturale24. Già nell’ottobre del 1914 il Republican di Springfield scriveva che il grande conflitto europeo avrebbe modificato il gusto dei lettori. La previsione profetizzava che i libri ricercati sarebbero stati quelli sulla guerra e molti argomenti, nei tempi del conflitto, sarebbero passati in secondo piano25. Aumentò il numero dei lettori che avevano bisogno di notizie in tempi brevi e soprattutto efficaci. Nulla più poteva viaggiare nell’ottica del progetto culturale per il popolo, ma si doveva ricorrere ad altri mezzi, quali proprio la propaganda, arma che si verifico’ assai efficace sia da mettere in campo per sollevare l’umore delle truppe e dei civili sia per distruggere l’amor proprio nemico. La letteratura della e sulla guerra fece così aumentare la produzione tipografica. Il settore di intervento, sviluppatosi dapprima a Firenze, fu così proprio quello di una vasta produzione di fogli volanti, opuscoli e libretti a poco prezzo, cioè strumenti che erano il terreno per far crescere la coscienza nazionale e destinati a diventare poi dei veri e propri monumenti di carta. Un ruolo di punta venne ricoperto proprio dalle edizioni della Voce che contribuirono a vivacizzare il dibattito antigiolittiano e portarono avanti la rivoluzione contro l’italietta e la cultura ufficiale e accademica alla ricerca di innovazione politica e culturale
<Gli editori impararono a parlare un linguaggio intriso di tecniche pubbli- citarie per conquistare un pubblico generico, se vogliamo di massa, e non classista, mentre piano piano il numero degli alfabetizzati registrava flessioni in aumento e l’editoria di cultura non si dimostrava così solida, tanto che gli editori potevano sopravvivere nel mercato con tranquillità dedicandosi quasi esclusivamente alla produzione scolastica o alla divulgazione. Le case editrici divennero più agili, aggressive e pronte a cogliere le opportunità diversificando la produzione nei generi e sfruttando la capacità distributiva sempre più sviluppatasi in reti. Inoltre gli editori presero coscienza della loro possibile autonomia sin dalla dichiarazione formale di guerra alla Germania, con la quale tra l’altro interrupero gli scambi creando così le basi per una propria indipendenza dall’influenza estera e soprattutto da quella tedesca. […]>

Il saggio completo, con il titolo Gli opuscoli prima di Caporetto: nuovi prodotti per la propaganda, corredato di apparato di note, in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2014-2015, XXIV-XXV, pp. 35-104.

Il tema è stato sviluppato dall’autrice nel volume:

Federica Formiga, Anche le parole sono in armi. Opuscoli e propaganda nella Grande Guerra, Luni Editrice , Milano 2019

 

 

Fiume, la “città di passione” e la sua storia complessa

Raoul Pupo, Fiume città di passioneLaterza, Bari-Roma 2018

// È dedicata a Fiume l’ultima fatica di Raoul Pupo. Il volume ricostruisce nel centenario dell’omonima impresa la storia di una città-simbolo del Novecento, che nel primo dopoguerra Gabriele D’Annunzio definì “Città di passione”, emblema cioè della “vittoria mutilata” da imporre all’attenzione internazionale affinché, dopo la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, Fiume diventasse a tutti gli effetti italiana, in risposta alle decisioni prese con il Patto di Londra e poi con idiktat di Versailles.

Pupo, che in passato ha descritto il dramma delle foibe, dell’esodo degli italiani del limes nord-orientale e di Trieste, questa volta volge il suo sguardo alla città di confine vittima della sua posizione geografica, come tante altre nel corso dei secoli, da Salonicco, a Smirne fino a Königsberg, dopo gli stravolgimenti provocati dalla disgregazione degli Imperi Centrali.

Lo studioso tratteggia con acume e capacità comunicativa l’iter storico della città che, dalla fine del Settecento (23 aprile 1779) con la politica di Maria Teresa, attribuisce a Fiume il ruolo di corpo separato annesso alla sacra corona del regno d’Ungheria, passando poi per la Grande Guerra, allo squadrismo e alla violenza del fascismo di confine, al secondo conflitto mondiale fino all’avvento della repressione operata dal comunismo titino e agli anni della Guerra Fredda.

         L’autore analizza la vita della città di confine nell’Ottocento, dopo i moti del Quarantotto i fiumani raggiungono l’idillio con il mondo magiaro, mettendo a disposizione del nuovo governo alcune delle loro navi da guerra, affinché si possano gettare le basi per la creazione di una marina ungherese, che avrebbe dovuto difenderli dalle presunte minacce dei croati, soltanto immaginate all’epoca, ma che diverranno realtà alla fine del secolo. I timori in quel momento, ovvero al termine dei moti del 1848, scompaiono quando il nuovo governatore di origine croata si mostra molto disponibile e rispettoso dell’autonomia cittadina.

Nel corso del XIX secolo i rapporti fra le due comunità fiumana e magiara si mantengono sostanzialmente buoni, i primi segni della crisi e dei primi sintomi di insofferenza frutto del nazionalismo strisciante in tutta Europa e di conseguenza anche nella regione emergono solo attorno al 1895, con le posizioni assunte dal governatore magiaro che si mostra intenzionato ad agire senza ascoltare i voleri della comunità cittadina, dotata di una forte autonomia. Lentamente si acuiscono le differenze tra due visioni nazionalistiche contrapposte. I fiumani ritengono che il conflitto non è etnico, perché popolazione e classe dirigente sono di origine composita: italica, mediterranea, slava, ungherese. È un conflitto politico, perché i fiumani difendono la loro volontà di autogoverno; ed è un conflitto identitario, perché i fiumani parlano fin dal medioevo una lingua italica, la veneta, e si riconoscono nella cultura italiana e nell’idea di nazione su base volontaristica, più simile al modello francese che a quello tedesco. La loro è una nazionalità culturale, che può convivere a lungo con un vivace patriottismo istituzionale ungherese. Viceversa, i croati e i movimenti nazionali slavi perseguono una visione etnicista e naturalistica della nazione, poiché rifiuta qualsiasi forma di assimilazione ritenendo impossibile rifiutare il destino nazionale. È evidente che per gli slavi del sud, la pretesa dei fiumani di essere italiani sembra un atto contro natura.

I fiumani quindi sono ben lieti della protezione ungherese, ma agli inizi del XX secolo il governo di Budapest cerca di avviare una politica di “magiarizzazione”, che riguarda la scuola e l’estensione delle leggi ungheresi senza il preventivo consenso del Comune. Per reazione, nasce a Fiume un partito autonomista, che si batte per la difesa dei privilegi tradizionali e dell’identità italiana, senza però mettere in discussione l’appartenenza all’Ungheria. Tale prospettiva realistica e legalitaria non basterà però ad un piccolo gruppo di giovani, che negli anni successivi darà vita ad un movimento irredentista, avente cioè come obiettivo l’annessione al regno d’Italia.

Dagli inizi del Novecento e fino alla Grande Guerra, il confronto fra etnie nella città di confine si acuisce e radicalizza. A Fiume lo scontro fra autonomisti e irredentisti aumenta, nonostante i rapporti idilliaci del passato. Degenera lo scontro con i croati, anche se il confronto serrato non sfocia in atti di violenza, mentre cresce la violenza operaia con manifestazioni e scioperi nel 1906 a sostegno delle rivendicazioni dei marinai della Società ungaro-croata che paralizzano la città tanto da provocare la morte di un operaio fiumano Pietro Kobek, durante le manifestazioni di protesta di 20.000 lavoratori, giunto lì soltanto per curiosare. Il decesso di Kobek originario della Stiria è provocato dai gendarmi croati del borgo satellite di Sušak, i sindacati trasformano la morte casuale dell’operaio in un simbolo e in un martire del socialismo fiumano. Sempre a Sušak, divenuta ormai un borgo tanto forse da rappresentare la seconda città croata dopo Zagabria, a far corso dagli inizi del Novecento si inizia a creare un movimento politico-comunicativo che mira a ottenere dei forti risultati elettorali per il popolo croato. A guidarlo è un giovane croato Franjo Supilo, brillante giornalista di Ragusa/Dubrovnik, che vuole trasformare Fiume nel centro di una coalizione fra gli slavi del sud viventi nell’Impero austro-ungarico, ai danni della monarchia asburgica. I risultati non si fanno attendere, quando con la dichiarazione di Fiume (Riječka rezolucija) del 1905, stilata da Ante Trumbić alcuni esponenti del mondo politico croato e serbo s’impegnano per agire in vista della difesa dei comuni interessi nazionali. La risoluzione sostiene apertamente i fautori del distacco dell’Ungheria dall’Austria, chiedendo in cambio l’unificazione tra Croazia-Slavonia e Dalmazia. Dopo Fiume è la volta di Zara (Zadarska rezolucija) che sostiene l’equiparazione fra la nazione serba e la nazione croata in seno a una Croazia unita e indipendente all’interno di un’Ungheria totalmente sovrana. Infine, nel dicembre del 1905, Supilo e il leader serbo SvetozarPribičević danno vita alla Coalizione serbo-croata (Hrvatsko-srpska koalicija). Nonostante i contrasti personali e politici e la crisi il processo rappresenterà una tappa storica per la nascita dello jugoslavismo.

Nel 1906, avvengono i primi scontri fra croati e italiani proprio a Sušak, appena oltre la Fiumara.Quando i croati, di ritorno da Zagabria, dopo una delle grandi manifestazioni del movimento dei Sokol (falco), che da Praga si era diffuso in tutte le regioni dell’Impero, organizzando le comunità slave in vista di una mobilitazione nazionale, infiammati dal loro patriottismo decidono di scendere dal treno, poiché Sušak non è collegata dalla rete ferroviaria, per marciare lungo le strade di Fiume cantando slogan contro gli italiani e a sostegno di Fiume croata. Gli incidenti tra le due comunità si verificheranno a Fiume, a Sušak e a Tersatto con una serie di manifestazioni e contro-manifestazioni in un clima di acceso patriottismo. Gli irredentisti italiani una volta cresciuti e approdati allo squadrismo fascista ricorderanno quei giorni di guerriglia urbana con nostalgia, come inizio della loro battaglia contro lo slavismo.

Nel 1909, inizia l’attacco alla Rappresentanza municipale da parte del governatore di Fiume, IstvánWickenburg, che prospetta la magiarizzazione dell’istruzione, l’introduzione della polizia di stato, lo scioglimento della Giovine Fiume, l’espulsione dalla città dell’irredentista Icilio Baccich, l’introduzione di una legge sugli stranieri che rappresenta una spada di Damocle e consente l’eventuale allontanamento dei 10.000 residenti italiani. A questo punto il consiglio comunale reagisce e viene immediatamente sciolto. Inizia così la stagione delle bombe contro il palazzo del governatore. Ma ciò che sta accadendo a Fiume alla vigilia dell’intervento militare italiano nella Grande Guerra non preoccupa l’Italia, più attenta ai problemi di Trento, Trieste e della Dalmazia. Se ne parlerà alla fine del conflitto, ma sarà troppo tardi per le trattative fra i governi. Il Patto di Londra stipulato in gran segreto nel 1915 non prevedeva l’assegnazione di Fiume all’Italia. Del resto, la città-porto non era stata inserita nel Trattato. In tal modo l’Austria, seppur fosse uscita perdente dal conflitto mondiale, avrebbe avuto un porto come garanzia per lo sbocco sull’Adriatico.Nessuno si aspettava che Vienna una volta sconfitta avrebbe perso per sempre il suo impero. Intanto croati, serbi e sloveni, si erano organizzati e reclamavano la nascita di un regno, con il sostegno di Francia e Gran Bretagna.

L’Italia si sente tradita dopo aver compreso che le due maggiori potenze europee, di fronte alla disgregazione dell’impero austro-ungarico, non intendono lasciare mano libera all’Italia nel Mar Adriatico, rinnegando così le clausole del Patto di Londra. Il sostegno accordato agli slavi del sudda parte di Francia e Gran Bretagna, trova d’accordo anche il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson che, rifiutando gli accordi di Londra firmati prima dell’entrata in guerra dell’esercito statunitense, sogna la realizzazione di un nuovo ordine internazionale fondato sull’autodeterminazione delle nazionalità e non vi è posto per un’Italia che abbia mano libera nell’Adriatico.

In Italia, la posizione assunta dagli Stati Uniti e dalle grandi potenze europee, risulta particolarmente sgradita agli ambienti del nazionalismo, che criticano apertamente la politica estera dei governi liberali italiani. D’Annunzio rifiuta la linea adottata da Francesco Saverio Nitti nei confronti delle scelte operate dalle grandi potenze e predispone un colpo di mano con i suoi legionari, occupando Fiume. Il poeta-soldato entra nella città nel settembre 1919, chiamato dai fiumani, perché alla conferenza della pace le potenze vincitrici non riescono a trovare un accordo sulle sorti della città. L’evento attira l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, per il coraggio mostrato da D’Annunzio e dai suoi seguaci nello sfidare le decisioni di Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Il Natale di sangue del 1920, sancisce però la cacciata a colpi di cannone di D’Annunzio e dei legionari da parte del governo italiano.

I fiumani sperano che la città non venga annessa alla Jugoslavia, preferiscono l’Italia, perché necondividono la nazionalità e per la quale alcuni giovani volontari irredentisti hanno combattuto. Si spera nell’annessione, ma forse sarebbe meglio la creazione di una piccola città-Stato libera, che permetterebbe di salvare identità e affari.

Nel frattempo, i fiumani apprezzano la creazione di uno Stato cuscinetto decisa dal Trattato italo-jugoslavo di Rapallo e, nel 1921, sostengono alle votazioni il partito autonomista guidato daRiccardo Zanella, che viene nominato presidente dello Stato libero.

Ma la situazione politica della città assume sempre più toni di stampo nazionalistico e antidemocratico. A Fiume gli autonomisti sono la maggioranza nelle urne, ma nelle piazze sono più forti gli ex legionari dannunziani e i fascisti. Il governo di Roma non interviene per garantire l’ordine, mentre quello di Belgrado, incapace nel frenare i contrasti fra serbi e croati, è impotente nel vedere Fiume che diventa italiana. Nel marzo 1922, i fascisti compiono un colpo di stato e mettono in fuga Zanella. Per due anni lo Stato libero è retto da un commissario italiano, finché un nuovo accordo italo-jugoslavo, firmato a Roma nel gennaio 1924, sancisce la definitiva annessione di Fiume all’Italia. 

L’avvento del regime fascista e la particolare connotazione del fascismo di confine peserà sul futuro della città. […]

Andrea Perrone

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 1, n. 1, 2019, nuova serie (a. XXXI)

Pedagogia e dimensione umana: la riflessione di Hervé A. Cavallera

Hervé A. Cavallera, Storia delle dottrine e delle istituzioni educative, la Scuola, Brescia 2017

// La lezione pedagogica di Hervé Cavallera, attenta al momento sapienziale della formazione, della Bildung, trova il suo inveramento nel presente volume che ripercorre la storia delle dottrine e delle istituzioni educative. L’ispirazione gentiliana conduce infatti l’Autore a cogliere il divenire spirito dell’uomo nell’inquietudine dello stare nel tempo, nel suo farsi storia, istituzione, per il bisogno di comunicare il sapere pedagogico. La dimensione umana dell’uomo, che Cavallera ritiene urgente recuperare nel formativo al fine di costruire un argine alle degenerazioni del presente, è oggetto della sua tensione educativa, volta a mantenere l’uomo e l’umano al centro della sua storia. Come è stato giustamente rilevato, Cavallera ci affida, attraverso la sua opera scientifica, «una visione dell’educazione come processo spirituale di crescita, sviluppo, darsi-forma di cui l’io è sempre protagonista» (F. Cambi, Attualismo, Bildung, Postmoderno. Tre nuclei-chiave della filosofia dell’educazione di Hervé A. Cavallera, in Eventi e Studi. Scritti in onore di Hervé A. Cavallera).
Non è quindi possibile restringere la storia di Cavallera nel genere della manualistica, perché la storiografia pedagogica «non è mai meramente asettica, come non può essere asettica l’opera di alcuno storico […], bensì permeata di un pathos formativo che costituisce la sua identità» (p. 9). Si tratta di una conseguenza inevitabile dal momento che la storia della civilizzazione coincide con quella dell’educazione, persino nei momenti in cui organizzazione e trasmissione del sapere erano automatismi di adattamento alle sfide ambientali. Cavallera sottolinea però come solo a un certo momento il processo educativo è diventato consapevole, con la nascita della sophia, della dimensione sapienziale, speculativa, che l’Autore considera momento ineludibile di un’autentica azione educativa.

Un momento dunque speculare alla nascita della filosofia in Grecia, con il primo grande educatore che fu Omero, capace di offrire al mondo greco «l’idea di un’unità che attraversa le stesse polis in continuo contrasto tra loro» (p. 14); con i modelli spartano e ateniese che, pur nella loro diversità, sono interessati a un’educazione integrativa del singolo nella comunità; con i culti misterici, il cui cammino iniziatico è un processo formativo che apre alla dimensione ultraterrena; con i filosofi che, in particolare a partire dalla sofistica, comprendono il valore performativo del sapere, fino a Platone, considerato culmine della paideia greca, sia «per la fusione degli ideali di bellezza, verità, bontà», sia per aver accentuato nella filosofia il lato della sophia, il carattere illuminante del sapere, imprescindibile possesso dell’uomo di governo. La fine del mondo classico assegna alla pedagogia un ruolo meno politico e più soteriologico, meno attento al mondo e più volto al’io. I due momenti si unificheranno nel mondo romano, nel quale l’esempio della virtus costituisce un modello personale e sociale. Il cristianesimo, invece, introduce una svolta rivoluzionaria legata all’insegnamento del Cristo, interamente direzionato alla dimensione sapienziale; infatti, «nelle sue parole confluisce tutta l’antica sapienza esoterica innovata dall’insegnamento dell’amore che permea ogni sua parola» (p. 66).

San Tommaso in una vetrata
della Cattedrale
di Saint-Rombouts,
Mechelen (Belgio)

Molto ricca la ricostruzione dell’Autore dei molteplici aspetti della innumerevole messe di pensatori, in particolare Agostino e Tommaso d’Aquino, e delle istituzioni educative medievali, in particolare delle università. Interes- sante il capitolo dedicato alla civiltà bizantina – contributo di Giovanni Cavallera – nella comprensione dell’essenzialità di quel mondo per lo sviluppo della civiltà occidentale, in particolar modo per l’Umanesimo e il Rinascimento. La gentiliana concordia-discors spiega, per l’Autore, la ricchezza culturale dell’Italia del Cinquecento che trae alimento dalla varietà politica degli Stati italiani e la centralità della questione educativa che, per la prima volta, «comincia ad essere costitutiva dell’intera società» (p. 117), in virtù del carattere dinamico di una nuova organizzazione in cui diventa possibile una maggiore mobilità e di conseguenza diventa produttivo l’investimento in sapere dei figli. Numerose sono le scuole – tutte con efficace sintesi attraversate dalla riflessione di Cavallera – sorte nel periodo, anticipatrici della pedagogia attivistica di molti secoli successiva. Tuttavia, il forte senso storico dell’Autore non gli fa dimenticare che nell’epoca rinascimentale, in realtà, «giunge a compimento un percorso culturale avviato da tempo e che è perdurato all’interno dello stesso Medioevo, un percorso volto ad affermare in maniera esplicita l’interazione tra microcosmo e macrocosmo in un’ottica in cui il discorso speculativo non intende essere disgiunto da quello religioso» (p. 135). Un aspetto che ricorre in Lutero che affida all’educazione il successo della sua Riforma, ma anche nei Gesuiti e gli altri ordini della Controriforma che affidano all’educazione la difesa del cattolicesimo. Il Seicento, il secolo della nuova scienza, individua due percorsi in ambito pedagogico: «Il primo è ancora una volta quello sapienziale, cha appare però minoritario ed esposto ai rischi dell’eresia. Il secondo è quello diretto particolarmente all’istruzione della borghesia» (p. 159). Tuttavia, il primo percorso viene espunto dall’orizzonte scolastico che si laicizza e perde, di conseguenza, il carattere iniziatico e formativo della persona che fino a quel momento aveva conser- vato. Una tendenza che giunge a compimento nel Settecento empiristico, utilitarista e liberista: il secolo dell’individualismo, in cui il processo educativo è volto alla legittimazione della pretesa della classe borghese di arrivare al potere.

Jean-Jacques Rousseau

«La scuola deve “servire”» (p. 192) e a questo, ci sembra di ricavare dall’analisi di Cavallera, non fa eccezione nemmeno Rousseau, di cui pure vengono acutamente segnalate le tortuosità, ma anche gli stimoli che la sua riflessione politica ed educativa ha offerto alla storia della pedagogia. Infatti, «Rousseau fa del precettore il sapiente e occulto regista di un’onnipotente educazione che vuol render l’uomo quello che potenzialmente è, limitando nella sua stessa natura il proprio futuro» (p. 216) e così continua nella direzione vettoriale della moderna soggettività che pretende di esaurire in se stessa ogni aspetto dell’essere. Eritis sicut dii. La dimensione sapienziale è però un fiume carsico, pronto a riemergere quando in superficie si aprono spazi. Così, nel Romanticismo il sentimento nelle sue diverse declinazioni – politiche come estetiche come pedagogiche – contribuisce all’edificazione di una razionalità superiore «che riprende lo spirito del Rinascimento nel suo anelito di infinito che genera la fusione di arte, filosofia e religione» (p. 235). Se recuperano la dimensione sapienziale, gli educatori e le istituzioni del Romanticismo non trascurano l’elemento pratico e funzionale dell’insegna- mento, riuscendo ad operare una sintesi dei due momenti che coinvolge anche l’infanzia, specie quella resa orfana dalle guerre napoleoniche.

Johann Heinrich Pestalozzi

Pestalozzi, Herbart, Froebel, il pensiero spiritualistico del Risorgimento italiano, per citare solo i passaggi storici più rilevanti, consentono all’Autore di inverare le sue riflessioni teoriche, volte a sottolineare l’aspetto sapienziale del processo educativo che l’avvento del positivismo nella seconda metà del secolo rischia di mettere in pericolo. Rischia, perché in fondo, ci suggerisce l’Autore, la confutazione del positivismo è nel positivismo stesso che lascia sopravvivere il momento fideistico «proprio nel convincimento che nulla esista fuori dai fatti e nel non considerare a fondo che gli stessi vanno interpretati e quindi connessi per il tramite di una visione organica che supera il mero accadimento» (p. 289). Nel Novecento, i processi educativi si traducono in una forte spinta alla valorizzazione delle capacità intellettuali e spirituali degli alunni all’interno di una cornice di scolarizzazione di massa. Da un lato, la pedagogia anglosassone accentua l’individualità del soggetto pedagogico, da un altro si privilegia l’aspetto comunitario dell’educazione. Da un lato l’attivismo pedagogico, dall’altro Gentile. Alla figura del filosofo italiano, l’Autore, che ne è il massimo interprete, dedica ampio spazio per ricordare ai molti che lo hanno dimenticato, o che per ragioni ideologiche non lo hanno mai capito, che l’attualismo, considerando la realtà come spirito in perpetuo farsi, è una filosofia intrinsecamente educativa; la filosofia, infatti, «coincide dialetticamente con la pedagogia in quanto se la prima è conoscenza/attuazione della verità, non diversamente deve esserlo la seconda, in quanto l’educazione nel senso più alto comporta la conoscenza della verità e si attua attraverso un processo di autoformazione» (p. 333).

Giovanni Gentile

Di qui, la volonta’ di promuovere processi di libera formazione del soggetto come processo di autoeducazione, all’interno di una sintesi di maestro e allievo «che avviene allorché i due effettivamente comunicano in un coinvolgimento reciproco, all’interno del quale si realizza l’unità spirituale» (p. 334). Tutto il Novecento pedagogico viene comunque attraversato dalla riflessione di Cavallera, che non si limita a illustrare con efficace sintesi anche le più residuali espressioni pedagogiche, ma invita alla riflessione su questioni aperte, come, per fare un solo esempio, gli accordi tra gli Stati europei che «non sempre hanno vivificato i sistemi educativi, insistendo più su una comunanza strutturale che su una effettiva condivisione spirituale» (p. 390).
Il volume si conclude con una ricca bibliografia ragionata e con una storia schematica delle scuole europee, ma, lo ripetiamo, al di là dell’aspetto manualistico, l’importante lavoro di Cavallera ha il merito, nell’attuale autunno dell’educazione, di ricordare agli operatori culturali di non lasciarsi sopraffare dall’aspetto operativo e meramente strumentale del processo educativo, legato alle contingenze dell’effettuale, «per ritornare invece ad un’attività educativa capace di dare un senso non effimero e relativo al volgersi delle cose e delle persone» (p. 390).

Rodolfo Sideri

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX

Istituzioni politiche e mobilitazioni di piazza

Andrea Ciampani, Domenico Maria Bruni (a cura di), Istituzioni politiche e mobilitazioni di piazza, Rubbettino Università, Soveria Mannelli 2018

//In che modo e con quale incisività la “piazza” – nel senso di movimenti collettivi che si mobilitano al di fuori del “Palazzi” – sono stati in relazione con le istituzioni politiche nell’Italia unita? Con quali caratteristiche comuni o differenziate la “piazza” si è manifestata nelle diverse contingenze storiche? E con quali esiti? A questi quesiti di fondo rispondono i saggi raccolti in questo volume, che coprono un secolo e mezzo di storia unitaria. Dall’intervento di Garibaldi a Palazzo Carignano dell’aprile 1861 al lancio delle monetine contro Bettino Craxi nel 1993. Passando per tutti i salienti sommovimenti popolari che hanno segnato la storia nazionale, dalla “settimana Rossa” alla marcia su Roma, dalla rivoluzione mancata per l’attentato a Togliatti al luglio antifascista nel 1960, dalla contestazione studentesca all’autunno caldo, per citarne solo alcuni. In tutti questi momenti cruciali, come notano i curatori, l’interazione tra “piazza” e istituzioni è ricorrente e incisiva. Sia pure con analogie e distinzioni che bene sono evidenziate nei singoli contributi, capaci nel complesso di fornire una rilettura originale della storia italiana.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX

Camillo Castiglioni, vita spericolata nei marosi del Novecento

Gianni Scipione Rossi, Lo “squalo” e le leggi razziali. Vita spericolata di Camillo Castiglioni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017

//Chi sa chi era Camillo Castiglioni? Probabilmente quasi nessuno. Ma al suo tempo, cioè nella prima metà del secolo scorso, era uno dei più noti finanzieri internazionali. Ebreo e triestino aderì al fascismo; dopo la caduta della monarchia asburgica – cui aveva fornito gran parte degli aeroplani impiegati durante la guerra – divenne il principale operatore nelle borse mitteleuropa e uno dei più importanti suscitatori di iniziative industriali; dopo la Seconda Guerra Mondiale mediò il primo grosso prestito occidentale alla Jugoslavia di Tito, ma dovette farle causa (in Italia) per ottenere il pagamento della provvigione.
Il titolo del libro di Gianni Scipione Rossi è dovuto al fatto che, malgrado avesse i titoli (e i meriti) per essere “discriminato” (cioè sottratto alle limitazioni persecutorie inflitte agli ebrei italiani) non lo fu. Ma, anche non essendolo, il suo attento biografo ci ricorda come, perfino nell’Italia occupata dai nazisti, si muovesse indisturbato, dalla sua base di S. Marino dove viveva in convento sotto gli abiti di frate. Dato che non rinunciava agli agi e alle comodità da grande capitalista, sotto i sandali portava calze di seta di ottima qualità; i sanmarinesi, ridendo sull’improbabile mascheratura, lo avevano so- prannominato “il frate con le calze di seta”.
Proprietario (tra l’altro) della Bmw fece affari con Göring, Ciano e forse Mussolini. Al Duce consigliò di tenersi fuori dalla guerra e suggerì che, a un’Italia neutrale, gli Usa avrebbero riservato un ruolo privilegiato (in particolare sul piano economico). La lettura, chiara e scorrevole, della biografia di Castiglioni è interessante perché piena di accadimenti, contraddizioni, e si dipana in un versante decisivo della storia moderna.
Per il lettore di oggi occorre selezionare gli spunti più interessanti per orientarsi: in particolare nella contemporaneità e tra i luoghi comuni spesso ripetuti. Ad esempio la convinzione che sia l’economia a determinare la politica. Il potere politico è un elemento della vita pubblica, il cui compito – ancor più da quando è organizzato in Stato sociale – è (sostengono tanti) di servire l’economia, e quindi di obbedirle. Ma, nella realtà, politica ed economia non sono separabili né graduabili. Direbbe Freund perché ambedue sono essenze e quindi irriducibili l’una dall’altra. Sono aspetti dell’(unica) esistenza umana. La vita di Castiglioni lo dimostra: il finanziere si muoveva (altrettanto bene) sia sul piano politico che su quello economico e non trascurava mai l’uno rispetto all’altro. Sia che si trattasse di industrie in cui investire, sia di nuove iniziative da prendere, o consigli da dare ai politici, le intuizioni e le azioni del finanziere valutavano sempre ambedue gli aspetti, le reciproche connessioni e gli effetti. Come ad esempio, consigliando a Mussolini di tenere l’Italia neutrale, ne sottolineava i benefici economici derivanti, specialmente dagli Usa.
L’altro, e connesso, che economia e politica sono collegate e reciprocamente influenti, di guisa che un obiettivo può – spesso – essere raggiunto con mezzi economici o politici (o con entrambi). Anche se poi, aggiungiamo noi, l’elemento decisivo è quello politico. Tra i molti episodi della vita di Castiglioni, è la lezione che si può ricavare (in particolare) dall’ultimo: l’aiuto dato alla Jugoslavia. Se Castiglioni non fosse riuscito in quello in cui stava fallendo la nomenklatura comunista (delle cui capacità “economiche” Tito, giustamente, si fidava poco) la Jugoslavia sarebbe stata costretta a rientrare nell’orbita sovietica, un po’ come, qualche anno dopo, capitò all’Egitto di Nasser che si rivolse alla Russia dopo il diniego anglo-americano di finanziare la diga di Assuan.

Camillo Castiglioni

Il trattamento poi praticato a Castiglioni nell’Europa dell’Asse è ancor più sorprendente: data la notorietà del personaggio, che si muovesse e facesse affari nel mentre i suoi correligionari erano deportati, corrobora quanto scriveva Orwell sul principio di eguaglianza (lì nel comunismo sovietico): che tutti sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri. Per cui si deroga alla regola, talvolta a favore, talaltra contro. Per fortuna di Castiglioni, a suo beneficio. D’altra parte, anche in Germania, s’ironizzava su (almeno) due personaggi dell’olimpo nazista chiamandoli “ariani per ordine di Hitler”: il ministro dell’economia Schacht (che aveva una nonna ebrea) e il maresciallo von Manstein (in effetti nato Lewinsky, poi adottato); i quali ciò nonostante ebbero ruoli rilevantissimi (e capacità proporzionate) nel governo e nell’esercito tedesco.
Per cui, specie quando riguarda i ruoli pubblici, sembra di poter dedurre che la regola da applicare è quella di Deng Xiaoping, che non importa il colore del gatto, ma che acchiappi i topi. E Castiglioni, come Schacht e von Manstein, dimostrò di saperli acchiappare. Diversamente da certi personaggi dell’Italia contemporanea, che, in economia e in politica, hanno dimostrato ripetutamente di essere stati scelti non per le capacità e competenze, ma per il colore o l’albero genealogico (o altro). Non si spiega altrimenti, nella cronaca attuale, come la più antica banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena, sopravvissuta alla caduta di Siena, a quella dei Medici, degli Asburgo-Lorena, dei Savoia e del fascismo, rischi di estinguersi con la repubblica “nata dalla resistenza” e continui ad operare solo a prezzo di aiuti a carico dello Stato e quindi dei contribuenti. Banca che un tempo finanziava gli Stati, e ora vive della loro elemosina.

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX

 

Newsletter Agosto 2019

Premi per giovani con laurea specialistica
o magistrale per ricerche sull’opera
di Ugo Spirito e Renzo De Felice

1. Nell’ambito del programma delle attività istituite per celebrare il quarantesimo anno dalla scomparsa di Ugo Spirito (28 aprile 1979) e il novantesimo della nascita di Renzo De Felice (8 aprile 1929), la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice di Roma bandisce un concorso destinato a neolaureati.
2. Possono prendere parte al concorso i cittadini italiani che siano in possesso di laurea specialistica o magistrale conseguita a partire dal 1° gennaio 2015 ed entro, e non oltre, la data di pubblicazione del presente bando.
3. Si può partecipare presentando progetti di ricerca che mirino alla riscoperta, approfondimento e valorizzazione dell’opera del filosofo Ugo Spirito o dello storico Renzo De Felice, esaminati anche nel più ampio contesto della cultura italiana ed europea del Novecento. Pertanto, le ricerche potranno essere svolte lungo due indirizzi di studio, filosofico e storico. Sarà altresì possibile svolgere uno studio di taglio interdisciplinare, al contempo storiografico e filosofico, sempre e comunque inteso a valorizzare le fonti documentarie, bibliotecarie e archivistiche, presenti presso la Fondazione.
4. Il concorso prevede la selezione da parte del Comitato scientifico dei primi dieci migliori progetti di ricerca. Una volta selezionati, e comunicata la decisione ai diretti interessati, i progetti dovranno essere elaborati e redatti nell’arco di quattordici mesi (dal 1° ottobre 2019 al 30 novembre 2020). Tra questi dieci elaborati finali (di lunghezza non inferiore alle 50.000 battute – spazi inclusi –; più dettagliate norme redazionali verranno comunicate in seguito ai dieci selezionati) il Comitato scientifico premierà le tre ricerche valutate più valide per rigore scientifico ed originalità interpretativa. Il premio consisterà nell’assegnazione di tre borse di studio, dell’ammontare rispettivamente di 1000 euro per il primo classificato, e di 750 euro ciascuno per il secondo e terzo classificato.
5. Gli altri sette progetti di ricerca selezionati, realizzati e consegnati, ma non premiati, saranno oggetto di ulteriore valutazione da parte del Comitato scientifico per eventuale pubblicazione a cura della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.
6. I concorrenti dovranno presentare, unitamente alla domanda di ammissione al concorso, un dettagliato progetto di ricerca di circa 5mila battute (spazi inclusi) corrispondente alle tematiche di cui al punto 3 e contenente adeguate indicazioni sulle fonti, le metodologie e gli obiettivi scientifici della ricerca, oltre ad una preliminare bibliografia di riferimento.
7. La domanda di ammissione al concorso e il progetto di ricerca dovranno essere inviati, entro e non oltre le ore 17,00 del 31 agosto 2019, alla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice esclusivamente come documenti in formato word al seguente indirizzo e-mail: info@www.fondazionespirito.it.

In uscita a settembre l’inedito di Ugo Spirito
“Filosofia della grande civilizzazione”

Nel quadro delle iniziative che la Fondazione sta intraprendendo a quarant’anni dalla morte di Ugo Spirito e a novant’anni dalla nascita di Renzo De Felice, per ricordare e valorizzare l’opera del filosofo e dello storico, particolare rilievo assume il programma di pubblicazione di una serie di volumi in co-edizione con la casa editrice Luni di Milano.
Il primo volume a vedere la luce –  nel mese di settembre 2019 – sarà l’inedito di Ugo Spirito Filosofia della grande civilizzazione. La “rivoluzione bianca” dello Scià, a cura e con introduzione di Gianni Scipione Rossi e con una postfazione di Hervé A. Cavallera.
Il libro
Negli ultimi mesi di una vita segnata da una speculazione che tende a inverarsi nell’azione politica, Ugo Spirito ha lavorato a un volume sull’Iran governato da Mohammad Reza Pahlavi. Un libro rimasto inedito nella sua stesura integrale e oggetto, in tempi diversi, di manipolazioni e censure, Conservato nel suo archivio privato, a quarant’anni di distanza il testo appare per la prima volta nella sua versione originale, che rivela il reale pensiero del filosofo.
Lo sforzo compiuto da Spirito è stato volto, nell’autunno del 1978, a comprendere e illustrare criticamente le linee guida della “rivoluzione bianca” dello Scià – avviata nel 1963 – inquadrandole nella storia della Persia e valutandone le possibili evoluzioni, mentre il Paese era sconvolto dalle proteste di piazza sfociate nel 1979 nella rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeyni.
Lo Scià appare a Ugo Spirito come un sovrano illuminato e ne valuta positivamente il sogno di trasformare l’Iran in una sorta di Città del Sole, nella quale regnino l’armonia e la collaborazione tra le classi sociali, nella prospettiva di un intenso sviluppo industriale. Una “città” laica, in cui non vi siano più sfruttatori e sfruttati, ricchi e poveri, proprietari e servi, secondo la tradizione socialista dalla quale, secondo Spirito, lo Scià ha tratto ispirazione per tracciare una “terza via” tra liberismo e comunismo. Per quanto illuminato, Spirito giudica il regime iraniano un dispotismo dittatoriale, errato sul piano teorico e fatalmente destinato a terminare con la scomparsa del suo protagonista.
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Ugo Spirito, Filosofia della grande civilizzazione. La “rivoluzione bianca” dello Scià, a cura di Gianni Scipione Rossi. Postfazione di Hervé A. Cavallera, Luni Editrice, Milano 2019, pp. 192, € 22.00
isbn: 978-88-7984-650-9

Il volume sarà acquistabile attraverso i normali canali di distribuzione e presso la sede della Fondazione.

Per prenotarlo:
info@www.fondazionespirito.it
lunieditrice@lunieditrice.com

L’edizione avviene nel quadro dalle previsioni ex Art. 1, comma 416 della Legge 30 dicembre 2018, n. 145.

 

In ristampa il primo fascicolo 2019
degli “Annali” della Fondazione

Esaurita la prima edizione, è in ristampa il primo fascicolo semestrale degli “Annali” della Fondazione (Anno I, n. 1/2019 XXXI, nuova serie).
I filosofi Ugo Spirito e Giovanni Gentile e il sociologo Gino Germani sono i “protagonisti” del nuovo fascicolo degli “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, che ha aperto la nuova fase della rivista fondata nel 1989. Trentuno anni dopo, gli “Annali”, conservando le caratteristiche di rigore scientifico che li hanno fatti apprezzare nel tempo, diventano un periodico semestrale.
Nel quadro delle iniziative che la Fondazione ha in programma nel quarantennale della morte di Ugo Spirito e nel novantesimo anniversario della nascita di Renzo De Felice, il fascicolo si apre con una sezione dedicata al filosofo aretino, curata da Gianni Scipione Rossi. Contiene l’inedito Verso la grande civilizzazione, scritto da Spirito nel 1978, come appendice a un libro dedicato all’analisi e alle prospettive della “rivoluzione bianca” voluta in Iran dallo Scià Mohammad Reza Pahlavi, rovesciato all’inizio del 1979 dalla rivoluzione islamista degli ayatollah. Il libro non è mai stato pubblicato in Italia nella sua integralità e fu al centro di un giallo bibliografico, che il saggio introduttivo intende finalmente chiarire sulla base di una approfondita analisi delle fonti archivistiche.
Nella seconda sezione, “Giovanni Gentile nella cultura italiana”, curata da Rodolfo Sideri e introdotta da Hervé A. Cavallera, trovano spazio gli atti del convegno tenuto in Fondazione sul pensiero del filosofo. Questi i saggi: Il soggetto gentiliano tra esistenzialismo e postmoderno di Rodolfo Sideri; Eternità e divenire dell’atto. La critica di Gentile al relativismo, di Hervé A. Cavallera; La Teoria generale dello spirito come atto puro e la costruzione dell’attualismo, di Massimo Piermarini; El desafío del devenir, di Francesc Moratò; L’ombra del pensato. La teoresi gentiliana dell’errore, di Giuseppe D’Acunto; Vae soli, attualismo e solipsismo, di Tiziano Sensi; L’Enciclopedia di Gentile, di Alessandra Cavaterra.
Gino Germani, un inedito e il suo archivio” è il titolo della sezione dedicata al sociologo italo-argentino nel quarantennale della morte. La sezione è introdotta dalla studiosa argentina Ana Grondona, con il saggioAutoritarismo(s), clases medias y el problema de las generaciones, che introduce lo scritto inedito di Gino Germani presente nel suo archivio, conservato dalla Fondazione: Ceti e generazioni alla vigilia della Marcia su Roma. La sezione è completata dal saggio Gino Germani: la sociología, los viajes, el exilio, nel quale lo studioso argentino Juan Ignacio Trovero dà conto analiticamente del contenuto dell’archivio Germani. Grondona e Trovero, che hanno a lungo esaminato le carte Germani presso la Fondazione, lavorano presso l’Università di Buenos Aires e nell’Instituto de Investigaciones Gino Germani attivo nella capitale argentina.
Il fascicolo presenta inoltre i saggi La genesi del Consiglio Nazionale delle Ricerche (1915-1923), di Andrea Perrone; Il Capodanno perduto del 1947, di Leonardo Varasano; Il fascismo e l’europeismo di Gian Domenico Romagnosi, di Matteo Antonio Napolitano; Un guascone nel Novecento: Valerio Pignatelli di Cerchiara, di Andrea Cendali Pignatelli.
Nella nuova sezione “Note sul Novecento”, Danilo Breschi pubblica Quella voglia di libertà che da Praga brucia ancora e Nicola Rao, 20 luglio 1969, l’avventura che ci fece sognare.
Completano il fascicolo le recensioni, le segnalazioni librarie e le notizie sull’attività della Fondazione.
Per leggere gli Annali è possibile acquistare il singolo articolo, il singolo volume o l’abbonamento annuale, a queste condizioni:
– Singolo articolo (versione pdf): 5,00 €
– Singolo volume (versione digitale): 10,00 €
– Singolo volume (versione cartacea): 20,00 €
– Abbonamento annuale (versione digitale): 20,00 €
– Abbonamento annuale (versione cartacea): 35,00 €
In caso di acquisto del volume cartaceo, l’invio avverrà all’indirizzo segnalato senza costi aggiuntivi.
È possibile pagare utilizzando Paypal, disponibile sul sito nella sezione Pubblicazioni, o attraverso bonifico bancario.
Tutte le informazioni sono reperibili a questa pagina:
http://www.fondazionespirito.it/annali-della-fondazione/.

In esaurimento gli Annali
del 2016-2017 (XXVIII-XXIX) e del 2018 (XXX)

Dopo il successo di vendite e la ristampa del n. 1/2019, anche i fascicoli degli “Annali” 2016-2017 (XXVIII-XXIX) e 2018 (XXX) sono in esaurimento.
Il fascicolo del 2016-2017 ha come tema centrale la figura del grande geografo e politico italiano Ernesto Massi. Con la curatela e il contributo di Andrea Perrone, sono presenti i lavori di: Arrigo Bonifacio, Michele Pigliucci, Lorenzo Salimbeni, Gianni Scipione Rossi, Rodolfo Sideri e la testimonianza di Gaetano Rasi.
Oltre alla sezione monografica, è presente il saggio di Silvio Berardi sulla figura di De Amicis “giornalista positivista”.

Il fascicolo del 2018, celebrativo dei trent’anni di attività della Fondazione, presenta al suo interno la pubblicazione degli Atti di due convegni, il primo sulle leggi razziali – Italia 1938, l’invenzione di un nemico –, e il secondo sulla figura di Ugo Spirito a 120 anni dalla nascita. La sezione saggi vede il contributo scientifico diTeodoro Katte Klitsche de la Grange, Sentimento ostile, Zentralgebiet e criterio del politico.
Il fascicolo presenta inoltre altre due sezioni: una, contenente una rassegna sulle culture politiche nell’Archivio della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, l’altra, invece, due inediti sulla fine del regime in Italia curati rispettivamente da Gianni Scipione Rossi – 25 luglio 1943: l’impossibile verità e la percezione dei contemporanei – e Stefano Rossi – Come ebbe termine Italia il regime dittatoriale instaurato da Mussolini.
Completano il fascicolo le recensioni, le segnalazioni librarie e le notizie sull’attività della Fondazione.
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Donato alla Fondazione
l’archivio di Roberto Melchionda

La Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice ha acquisito l’archivio di Roberto Melchionda, grazie alla donazione fatta dallo stesso studioso. L’archivio consta di 6 fascicoli di corrispondenza con moltissimi esponenti dell’area politica e culturale della Destra del Novecento, da Luciano Lucci Chiarissi a Primo Siena, da Giovanni Volpe a Fausto Gianfranceschi e ancora Attilio Mordini, Giano Accame, Fabio De Felice, Gian Franco Lami, Franco Cardini, Enzo Erra e molti altri. Tutt’altro che infrequente è imbattersi in minute dello stesso Melchionda, non sempre reperibili negli archivi privati, i cui produttori spesso non conservano proprie missive a terzi.
Nel fondo archivistico sono presenti anche suoi scritti, ritagli stampa, brochures di libri, inviti a convegni. Non c’è dubbio che lo studio di queste carte possa illuminare un ambiente, il milieu politico-intellettuale del tradizionalismo cattolico incrociantesi con l’area politica conservatrice, e un periodo, quello degli anni Cinquanta-Settanta del XX secolo, non di rado di difficile esplorazione, per ricostruire gli stati d’animo, i desideri, gli intendimenti e i sentimenti di uomini dediti allo studio in uno spazio culturale spesso ignorato.
Roberto Melchionda (Brescia 1927), giornalista, ha collaborato con numerose testate , tra le quali sono da ricordare «Tabula rasa» e «Totalità», che contribuì a mettere in campo collaborando con Barna Occhini. Dirigente in passato del Servizio studi di un’associazione imprenditoriale fiorentina, è autore, fra l’altro, de Il volto di Dioniso. Filosofia e arte in Julius Evola (1984) e di Firenze industriale nei suoi incerti albori: Le origini dell’associazionismo imprenditoriale di cento anni fa: esplorazioni e materiali (1988). Nel 2015 è uscita La folgore di Apollo. Scritti sull’opera di Julius Evola. Nei suoi studi si è occupato in particolare del pensiero filosofico di Julius Evola.

Il nuovo sito della Fondazione è online

 

A partire dal 29 giugno 2019, è online il nuovo sito web della Fondazione, consultabile al seguente indirizzo:http://www.fondazionespirito.it/.
Oltre alla nuova e funzionale veste grafica, il sito offre molte novità sul piano contenutistico e la possibilità di rimanere costantemente aggiornati sulle molteplici attività culturali della Fondazione.

 

 

 

 

Buone vacanze

In occasione della pausa estiva, la Fondazione rimarrà chiusa dal 12 agosto al 30 agosto.  Gli uffici della Fondazione riapriranno lunedì 2 settembre. Buone vacanze.
Chi volesse sostenere le attività della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice può effettuare un’erogazione liberale.
Le erogazioni liberali sono versamenti spontanei a favore delle organizzazioni no-profit da parte di cittadini privati e soggetti giuridici.
Si ricorda che le erogazioni liberali si possono dedurre completamente dalla dichiarazione dei redditi fino a un massimo del 10% del reddito complessivo (comunque entro i 70.000€ annui).
La Fondazione rilascerà una ricevuta di avvenuta donazione, che non andrà allegata alla dichiarazione dei redditi ma conservata per eventuali controlli dell’Agenzia delle Entrate.Per maggiori informazioni e per disporre dell’IBAN del conto corrente della Fondazione si può inviare una mail a:segreteria@www.fondazionespirito.itoppure a:info@www.fondazionespirito.it
La Fondazione su Facebook
La Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice è presente su Facebook con una pagina utile per chi volesse essere sempre informato sulla sua attività organizzativa e culturale.
È uno strumento facile da usare e che può raggiungere migliaia di persone.
Si invitano dunque gli utenti di Facebook a contribuire alla diffusione della pagina mettendo un “mi piace” – like – e chiedendo ai loro amici social di fare altrettanto.
Questo è il link della pagina:
https://www.facebook.com/FondazioneSpirito/

Il neo-irredentismo nel Fondo archivistico Luigi Papo

Militante e combattente nei ranghi di quel fascismo che è stato definito “di frontiera”, animatore della ricerca storica sull’italianità delle terre dell’Adriatico orientale a supporto dell’associazionismo degli esuli giuliani, fiumani e dalmati e delle sue rivendicazioni, promotore di forme aggregative collaterali alle sigle della diaspora adriatica: intensa e ricca di contatti epistolari, ricerche e scritti è stata la vita di Luigi Papo.

Nato a Grado nel 1922 da una famiglia di sentimenti irredentisti, che ben presto si sarebbe trasferita a Montona, nel cuore della penisola istriana, per dimostrare l’attaccamento che conservava con questa località, in età matura cominciò a farsi chiamare “Papo de Montona”. Dopo aver combattuto in Libia durante la Seconda guerra mondiale inquadrato in una Compagnia Volontari Universitari nei ranghi dei Granatieri di Sardegna, fu poi addetto alle scorte dei treni che dall’Italia raggiungevano la Grecia attraversando i Balcani in cui imperversava con sempre più efficacia il movimento partigiano jugoslavo nazionalcomunista guidato da Josip Broz “Tito”. Colto dal marasma dell’8 settembre ’43 mentre era in licenza in Istria e siccome il padre era figura eminente del fascismo locale, rischiò di venire eliminato durante la prima ondata di stragi nelle foibe che avrebbe cagionato un migliaio di vittime nell’entroterra istriano e a Spalato. Papo scelse quindi di aderire alla Repubblica Sociale Italiana, anche se le province di Udine, Trieste, Gorizia, Lubiana, Fiume e Pola appunto (che comprendeva l’Istria)  facevano parte della Zona di Operazioni Litorale Adriatico, una sorta di governatorato militare tedesco in cui i poteri della RSI erano talmente effimeri che non si poté costituire la Guardia Nazionale Repubblicana, bensì la Milizia Difesa Territoriale che rispondeva ai comandi tedeschi locali. Ed è a capo della 3° Compagnia del 2° Reggimento MDT che Papo combatté nei mesi seguenti, durante i quali rivestì anche l’incarico di commissario del fascio nel montonese e di addetto alla propaganda reggimentale (come si può evincere nella sua pubblicazione L’ultima bandiera. Storia del Reggimento Istria, Trieste 2000). Tale reparto si distinse talmente nella lotta antipartigiana che, nelle terribili giornate che seguirono la conclusione delle ostilità al confine orientale italiano caratterizzate dalla conquista jugoslava di Trieste, Gorizia, Fiume ed Istria (Zara era stata già occupata nel novembre 1944), Papo fu associato alle carceri triestine del Coroneo, da cui fu deportato al campo di concentramento di Pestranek. Salvatosi in maniera rocambolesca da una prigionia che per centinaia di detenuti significò morte (la testimonianza di questa vicenda rimane in Pestrane. Diario di un condannato a morte, Gorizia 1984), riparò a Trieste, quindi nella natia Grado, poi a Milano ed infine a Roma, cominciando a denunciare in dei libelli i massacri delle foibe e la violenza titoista: Criminali e liberatori (Roma 1948), Foibe (Udine 1949) ed Insegnamenti dalle foibe istriane (Roma 1951). Utilizzò lo pseudonimo di Paolo De Franceschi (il cognome della moglie), poiché risultava nell’elenco dei criminali di guerra consegnato dalla neonata Repubblica Socialista Federale Jugoslava all’Italia nel corso delle trattative di pace, anche se non venne richiesta la sua estradizione.

Creatosi una vita professionale nei settori gastronomico ed alberghiero, si attivò nell’associazionismo degli esuli dalle terre cedute alla Jugoslavia per effetto del Trattato di pace del 10 febbraio 1947 aderendo subito al Comitato Nazionale Venezia Giulia e Zara, poi diventato Comitato per l’Assistenza ai Profughi giuliano-dalmati che si scisse in Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (tuttora attiva e diffusa su tutto il territorio nazionale)e Centro per la tutela degli interesse adriatici (1948), il quale sarebbe in seguito diventato il Centro Studi Adriatici, che trovò ospitalità presso le prestigiose sale del Vittoriano. Già tra i fondatori della testata dell’ANVGD Difesa adriatica, Papo fu direttore del CSA e del suo battagliero bollettino di informazioni, che lui stesso definiva «il solo organo di stampa che si può dire prima italiano, poi, se gli resta tempo, anche democratico». Nel 1963 sorse l’Associazione Nazionale Italia Irredenta, che l’anno dopo assorbì il Centro Studi Adriatici facendolo diventare una sorta di comitato scientifico di questo sodalizio patriottico che ebbe come primo presidente Gioacchino Volpe, al quale succedette il generale Ezio Garibaldi.

Papo avrebbe quindi scritto volumi dedicati alla cittadina in cui aveva vissuto in gioventù (Montona, Padova 1974 e Sólfora. Montona tra realtà e sogno, Trieste 1975) per poi raccontare i primordi dell’associazionismo giuliano-dalmata (E fu l’esilio. Una saga istriana, Trieste 1997) e quindi tornare ad affrontare la questione della pulizia etnica attuata dall’esercito jugoslavo nei confronti della comunità italiana in Istria (L’Istria e le sue foibe: l’Istria tradita, Roma 1999). Tuttavia il lavoro che gli regalò maggiore celebrità si intitola Albo d’oro. La Venezia Giulia e la Dalmazia nell’ultimo conflitto (Trieste 1989 e poi, aggiornato e integrato, 1994): questa poderosa opera raccoglie i nomi dei caduti e dei morti della e nella Venezia Giulia nel corso della Seconda guerra mondiale, con riferimento ai campi di battaglia come alle vittime civili dei bombardamenti, ai deportati della Risiera di San Sabba da parte dei nazisti e a quelli vittime dell’arcipelago concentrazionario jugoslavo. Ancorché incompleto e caratterizzato da alcuni aspetti che discendono dalla forte connotazione politica dell’autore (l’attenzione rivolta ai caduti della Repubblica Sociale Italiana rispetto ai partigiani), tale volume risulta un punto di riferimento imprescindibile per la ricostruzione delle atroci dinamiche politiche che sconvolsero le terre del confine orientale nella fase finale del conflitto, tanto è vero che è stato tenuto in considerazione come fonte dalla commissione che è chiamata ad assegnare ogni anno in occasione del Giorno del Ricordo i riconoscimenti ai parenti e discendenti degli infoibati e delle vittime del terrore “titino”.

Questa produzione libraria e l’intensa attività in ambito associativo lasciarono un cospicuo apparato documentale, che è stato conservato da due istituti di ricerca. Presso l’Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata di Trieste l’Archivio Luigi Papo consta di materiale documentario vario inerente alle tematiche istituzionali (la conservazione e la valorizzazione del patrimonio storico e culturale e delle tradizioni delle popolazioni italiane dell’Istria, Quarnero e Dalmazia), con alcune documentazioni che provengono da famiglie illustri istriane, una notevole messe di opuscoli, fogli volanti, giornali, molti dei quali del periodo dell’esodo; nel materiale raccolto figura pure una sezione fotografica, di cui è in corso un’opera di digitalizzazione. A Roma, invece, presso la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice il Fondo Papo è stato quasi completamente ordinato e fornisce vari spunti di ricerca, il più immediato dei quali è ad esempio la storia dell’Associazione Nazionale Italia Irredenta, la cui documentazione è raccolta in nove faldoni. Il primo di questi riguarda la fondazione del sodalizio, nel cui direttivo originario figuravano Volpe, come già accennato,  in qualità di presidente, Junio Valerio Borghese (già comandante della Decima Mas e attivo all’estrema destra del panorama politico italiano) quale segretario nazionale e tra i probiviri una figura fondamentale nella storia dell’irredentismo adriatico come Giovanni Giuriati, capo di gabinetto di Gabriele d’Annunzio a Fiume nonché presidente dell’associazione Trento e  Trieste nell’anteguerra ed organizzatore dei volontari provenienti dalle terre irredente arruolatisi nel Regio Esercito durante la Grande guerra. Le Sezioni provinciali, con cui intercorre una discreta corrispondenza e di cui rimangono gli atti costitutivi, sono presenti in tutto il territorio nazionale e nei loro ranghi riscontriamo con ruoli dirigenziali la presenza di personalità della destra italiana o con trascorsi fascisti (Fortunato Aloi a Reggio Calabria, Piero Buscaroli a Napoli, Italo Tassinari a Forlì, il podestà ed il prefetto ai tempi della RSI Cesare Pagninie Bruno Coceani nonché Riccardo Gefter Wondrich a Trieste, Salvatore Dell’Utri a Caltanisetta), dell’associazionismo della diaspora (il generale Iginio Toth a Modena, Piero Almerigogna e Lino Sardos Albertini a Trieste, Lino Vivoda a La Spezia, Nerino Rismondo ad Ancona, Achille Gorlato, Giuseppe Krekich e Nicolò Luxardo a Padova) ed esponenti della società civile (Fabio Roversi Monaco a Bologna). La corrispondenza ed i ritagli stampa (faldone 4) riguardano non solo tematiche attinenti le foibe e le associazioni degli esuli, ma anche l’irredentismo in Corsica; l’attività dell’Agenzia adriatica di stampa caratterizza il faldone 6, mentre il 9 concerne i pellegrinaggi organizzati alla tomba di Dante a Ravenna e a Firenze nel 1965 (700 anni dalla nascita del “ghibellin fuggiasco”); il quinto faldone raccoglie precipuamente materiale inerente la Famiglia montonese (componente dell’Unione degli Istriani in cui si raccolgono gli esuli da Montona) ma contiene anche il verbale di un’Assemblea Ordinaria dell’Unione degli Industriali Giuliano-Dalmati, una ramificazione poco nota nel panorama dell’associazionismo della diaspora, così come l’Assemblea Costituente Adriatica di cui si riscontrano accenni in altri faldoni.

Se l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia oggi risulta strutturata in comitati provinciali e delegazioni, nei faldoni 10-23 “Personalità: biografie – scritti – fotografie” emergono documenti che riguardano sezioni femminili e di combattenti nei primi anni di esistenza di questa poderosa realtà associativa, che alle origini presentava una forte connotazione di destra. I fascicoli che raccolgono il materiale riguardante ciascuna Personalità contengono non solo scambi epistolari, ma anche articoli di giornale, immagini fotografiche o disegnate e riferimenti a pubblicazioni che hanno attinenza con quel profilo. Numerosi i contributi del colonnello Piero Almerigogna, con il quale ad esempio Papo si sofferma sui complicati rapporti esistenti a Trieste tra il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria (che avrebbe dato vita all’Associazione delle Comunità Istriane ma viene presentato come lottizzato dai partiti dell’arco costituzionale) e l’Unione degli Istriani. Interessante la corrispondenza con l’ex gerarca del fascismo nella provincia di Zara prima e nel Governatorato di Dalmazia poi Athos Bartolucci, che all’epoca riveste incarichi a Mogadiscio nell’ambito dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia, benché compaia anch’egli nell’elenco dei criminali di guerra ricercati in Jugoslavia. Risultano essere corrispondenti delle iniziative associative e divulgative di Papo Rinaldo Harzarich, il vigile del fuoco che coordinò il recupero delle salme dalle foibe istriane, Geppino Micheletti, il medico che prestò le cure alle vittime dell’attentato di Vergarolla, ma anche irredentisti della vecchia guardia come Manlio Cace e Piero Foscari. Non manca un’invettiva nei confronti di un articolo pubblicato da Il Borghese in cui Giuseppe Prezzolini contestava le tesi di Sorel favorevoli all’annessione della Dalmazia all’Italia.

Al professor Umberto Nani di Mocenigo, direttore del bollettino d’informazione, è dedicato il faldone 24, mentre il 25 ed il 26 riguardano la laboriosa stesura e ristampa di Atto d’accusa, il volume di Andrea Ossoinack che prende le mosse dall’intervento che costui formulò al Parlamento di Budapest il 18 ottobre 1918. Era in corso l’implosione dell’Impero austro-ungarico ed il deputato fumano, al fine di fronteggiare le rivendicazioni croate nei confronti della sua città, si appellò al principio di autodeterminazione dei popoli per Fiume, che in effetti il successivo 30 ottobre con un plebiscito avrebbe ribadito la sua volontà di essere annessa all’Italia. Rispolverare nel dopoguerra questo lavoro, che si fondava sulla radicata autonomia fiumana che nella compagine imperiale asburgica figurava in guisa di corpus separatum nell’ambito della porzione magiara del composito impero, avrebbe dovuto contribuire a rivendicare all’Italia il capoluogo del Carnaro entrato ufficialmente a far parte della Jugoslavia il 15 settembre 1947, giorno dell’entrata in vigore del Trattato di pace. I faldoni 27-30 concernono “Comuni e località della Venezia Giulia = Istria, Carnaro e Dalmazia” (un caleidoscopio di immagini, ritagli di giornale e spunti dedicati a queste terre diventate jugoslave), il 31 presenta il materiale delle terre irredente conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato e negli ultimi tre emerge ancora documentazione sulle associazioni degli esuli.

Una nuova numerazione caratterizza le 13 buste della sezione “Rassegna della stampa del Commissariato Generale del Governo per il Territorio di Trieste” che spazia dal 1957 all’aprile 1962 e fornisce uno spaccato del delicato inserimento del capoluogo giuliano nel tessuto politico ed economico della Repubblica italiana dopo l’insediamento dell’amministrazione civile risalente al 26 ottobre 1954.

Un fascicolo raccoglie, invece, articoli di giornali e dossier riguardo la Risiera di San Sabba, dalle cronache del processo a carico degli aguzzini nazisti che ivi torturarono e deportarono partigiani ed ebrei ai contributi di chi cercava di ridimensionare cifre e tragicità di questo campo di prigionia. Lo Schedario Caduti e Albo d’oro contiene, infine, parte del materiale attinto per la redazione della succitata corposa opera, mentre figura ancora uno scatolone 7 da ordinare.

Quanto è stato qui presentato può risultare utile nella ricostruzione della storia delle associazioni degli esuli giuliano-dalmati, un argomento che sulla scia dell’istituzione del Giorno del Ricordo (L. 92 del 30 marzo 2004) ha acquisito interesse, ricevendo una prima trattazione a cura della giornalista Rosanna Turcinovich-Giuricin in …e dopo semo andadi via. L’associazionismo degli esuli istriani fiumani e dalmati: cenni storici dal 1947 ad oggi, Gorizia, 2014. La prima disamina scientifica risiede nel poderoso volume di Luciano Monzali Gli italiani di Dalmazia e le relazioni italo-jugoslave nel Novecento, Venezia 2015, pp. 527-687, laddove il direttore della Società di Studi Fiumani Marino Micich si è concentrato sulle prime forme aggregative di questo microcosmo nel saggio Incontro all’esilio. L’associazionismo degli esuli istriani, fiumani e dalmati durante la seconda guerra mondiale e nei primi anni del dopoguerra (1943-1949) in Fiume. Rivista di studi adriatici (nuova serie), n. 31, Anno XXXV, N. 1-6/2015. Il fondo Papo può arricchire questa panoramica raccontando le prospettive neoirredentiste e la battaglia culturale che egli condusse, ma anche i rapporti che questo battagliero operatore culturale intrattenne con le sigle associative che mantennero in vita nei loro comitati e raduni la memoria delle catastrofi delle foibe e dell’esodo in un’epoca in cui era diventato tabù parlarne in seguito alla rottura di Tito con Stalin nell’estate del 1948.

Lorenzo Salimbeni

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX, pp. 179-184.

La seconda guerra mondiale e la riconciliazione nel segno dei padri

Giacomo Marinelli Andreoli, Nel segno dei padri. La storia di Guglielmina e Peter, Marsilio, Venezia 2017

// Quando è uscito il libro mi sono chiesto che cosa Giacomo Marinelli Andreoli potesse mai aver aggiunto al già noto. Noto, sicuramente, agli eugubini e a chi come me frequenta Gubbio da alcuni lustri. Perché l’eccidio dei Quaranta Martiri – compiuto per rappresaglia dalle forze tedesche in ritirata nel giugno nel 1944 – aleggia sulla città, sia pure spesso tra il detto e il non detto.
D’altra parte la vicenda è stata perfettamente ricostruita con rigore storiografico – né poteva essere altrimenti – da Luciana Brunelli e Giancarlo Pellegrini nel libro Una strage archiviata, uscito per il Mulino ormai dodici anni fa.
Da qui anche la mia immediata curiosità e l’altrettanto immediata lettura di questo Nel segno dei padri. Un libro che aggiunge molto. Non alla ricostruzione della vicenda in sé: alcuni partigiani, veri o presunti, sparano in un bar del centro a due militari tedeschi, un assistente medico e un sottotenente, uccidendone uno e ferendo l’altro. Il libro aggiunge tuttavia molto alla ben più ampia vicenda dell’Italia di allora, con le sue tragedie e le sue contraddizioni, in fondo con la sua complessità.
Non amo il reducismo. Ho conosciuto molti reduci, da una parte e dall’altra, e li rispetto. Ma in qualche modo li ho sempre guardati con sospetto. I reduci di qualunque tipo e colore. Anche di eventi decisamente meno drammatici. Tremo al pensiero della valanga di memorie che ci assalirà nel cinquantesimo anniversario del Sessantotto. Salvo rare eccezioni, i reduci non riescono a porsi con il necessario distacco nei confronti degli eventi che hanno vissuto, da protagonisti, comprimari, semplici spettatori. I reduci fermano il tempo. La loro narrazione è enfatica fino a sfiorare il mito. Dunque non aiuta che parzialmente a restituirci una verità.
In qualche modo – nella comune condizione di vittime incolpevoli – Guglielmina e Peter sono reduci. Ma la grande e importante novità di questo libro è costituita dal loro non porsi come tali, e dalla conseguente capacità di guardare ai fatti con un certo distacco, pur nel dolore che li accomuna.
Per questo in fondo questa piccola storia rappresenta un tassello utile, necessario, per continuare a scrivere – non dico riscrivere – la grande storia. Prescindendo dalla sindrome del reduce, per il quale il mondo è bianco o nero e non esiste il grigio; un mondo che si divide in buoni e cattivi. E naturalmente i buoni sono i tuoi e i cattivi sempre gli altri. La storia è più complessa.
Quando ho letto il libro, mi è tornata alla mente una memoria familiare.
Io sono nato a Viterbo. In quel mese di giugno del 1944 anche Viterbo era attraversata dai reparti tedeschi in ritirata. Era un momento atteso. Si sperava che finalmente la città fosse risparmiata dai bombardamenti alleati. Erano cominciati nel luglio del 1943 e ancora continuavano, fino al 9 giugno 1944. Alla fine le vittime furono più di 1000, in una cittadina di 30mila abitanti. La famiglia di mio nonno, dopo la distruzione del palazzo accanto al suo, sfollò nella tenuta di campagna. La famiglia, i contadini, qualche amico. Una mattina, aprendo la finestra, mia nonna scoprì che nel piazzale antistante era accampato un reparto tedesco. Mio nonno uscì e cercò di capire che cosa volessero. Un tenente chiese se fosse possibile avere qualcosa da mangiare. Le provviste furono consegnate, il tenente ringraziò e il reparto ripresa la sua strada.
Mi sono sempre chiesto che cosa sarebbe avvenuto se qualcuno, magari da una finestra, avesse sparato a quei tedeschi, ridotti nelle condizioni miserrime che Kurt Staudacher, il padre di Peter, descrive in una lettera alla famiglia. Probabilmente mia madre non avrebbe sposato qualche anno dopo mio padre, che a diciott’anni stava tendando di attraversare le linee verso sud, e io non sarei qui.
È una piccola storia a lieto fine. Mentre a Gubbio si scatenò l’inferno.
So bene che la memoria di quell’inferno è stata a lungo divisiva. Ed è comprensibile. Perché, al contrario di tante altre terribili stragi di quel periodo, quella dei Quaranta Martiri fu conseguenza di un atto difficilmente spiegabile, se non con l’ansia di un gruppetto di presunti partigiani di mettersi in luce agli occhi degli Alleati che stavano per entrare in città. E anche questo è un tassello della nostra storia. Una piccola storia che ha provocato dolori immensi.
Una storia che sembra essere il sunto della complessità del tempo, attraverso le vite. Quelle di Guglielmina e Peter, orfani a un anno.
Quelle delle vittime, 39 delle quali senza alcuna responsabilità, scelte nel mucchio per una rappresaglia peraltro ormai senza senso dal punto di vista militare. Senza senso anche se il sottotenente che accompagnava Kurt non fosse solo rimasto ferito. Ma in quel frangente drammatico emergono altre figure, anch’esse caratteristiche dell’Italia di allora.
Il delatore. Vittorio Roncigli – padre di Guglielmina – ha paura del delatore. Una figura che torna spesso nelle memorie. Un conoscente, un concittadino, forse persino un amico che, magari per salvarsi, fa un nome. Mi viene in mente Celeste Di Porto, la ragazza ebrea che a Roma denunciava ai tedeschi i suoi fratelli di fede.
Il responsabile, che fugge e non si consegna lasciando morire parenti e amici.
Il Vescovo, che tenta senza riuscirci di sostituirsi ai rastrellati. Il ruolo dei religiosi in quel periodo è molto importante. In alcune occasioni arriva al sacrificio di sé. Mi piace segnalare la vicenda di due sacerdoti raccontata da Chiara Genisio nel suo Martiri per amore (Paoline, Alba 2015)
Lo stesso Vittorio, che non è un partigiano combattente. Si sentiva – scrive Marinelli Andreoli – «né rosso né nero». Non è fascista. Ha lavorato in Germania. In fondo quella guerra non gli appartiene. Partigiano diventerà solo da morto, a sua insaputa, sol perché alla vedova sia garantita una pensione. Lo stesso Kurt, che non è certo un nazista, ma solo un medico aggregato alla Wehrmacht, che da tedesco deve partecipare a una guerra scatenata dal suo paese. E che non lascerà neppure una pensione perché la sua famiglia finisce nella Germania Est, una prigione dalla quale non può fuggire per trent’anni.
La complessità della storia…
Il senso del tragico non può che incombere nelle pagine di questo libro, nella storia di Guglielmina e Peter. E tuttavia, pagina dopo pagina, al senso del tragico si sostituisce la speranza. La speranza che viene dalla riconciliazione.
A riconciliarsi non sono, non possono essere, le vittime parallele della tragedia. Ma la riconciliazione tra i loro figli – uniti dal dolore – anch’essi vittime, non è solo commovente, edificante.
Ci spinge, o dovrebbe spingerci, a guardare al passato con maggiore senso della prospettiva. Per non trasmettere di generazione in generazione una memoria divisiva. Per mettere al centro l’uomo.
Giacomo Marinelli Andreoli ha chiesto a Guglielmina se avesse mai odiato. Guglielmina ha risposto:
«Se ho odiato? Sì che ho odiato. Ho odiato la guerra. Le sue uniformi. I suoi fragori. I morti, le croci, le lacrime. Il freddo dell’assenza. Il colore del vuoto. Ho odiato i tedeschi. Fin quando non ho scoperto che anche loro erano padri, mariti, figli. Fin quando ho capito che come me un altro bimbo aveva dovuto accettare di non avere un padre. Senza un perché. […] Ho odiato il silenzio che ha coperto questa storia per decenni. Come se non si dovesse parlare di quanto accaduto, come se non si volesse aprire la porta sui retroscena, sui motivi, sulle circostanze che avevano provocato tutto”. […] Ho odiato la mia incapacità di guardare oltre, di scavalcare il muro, di mettermi alle spalle la sensazione cupa del lutto. E la tentazione della rivalsa».
Credo che dobbiamo essere grati a Guglielmina per queste parole. E all’autore che ce le ha fatte conoscere. Forse esistono altre testimonianze di questo tipo, anche se io non le conosco. Sarebbe importante trovarle e diffonderle.

Gianni Scipione Rossi

Intervento alla presentazione presso la Biblioteca della Camera dei Deputati, Roma, 30 novembre 2017.

Da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX

 

La cultura dell’irredentismo nel Fondo archivistico Ernesto Massi

Ernesto Massi rappresenta uno degli esempi migliori di quello che gli storici e i geografi hanno attribuito alla città di Trieste e alla sua cultura mitteleuropea, ovvero il crocevia di tre diverse tradizioni culturali e politiche: la cultura italiana o latina, la cultura slava e la cultura tedesca.

Ciò emerge con forza non soltanto dalla biografia del geografo e politico triestino, ma anche dalla visione del mondo che animò lo studioso nel corso di tutta la sua esistenza. Elementi questi che troviamo presenti nell’Archivio e nella biblioteca dello studioso triestino, conservati presso la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.

Nel corso della sua esistenza, Massi riuscì infatti a conciliare il cattolicesimo (con la sua giovanile iscrizione alla FUCI) con l’idea di nazione; il corporativismo cattolico e fascista; l’adesione alle idee di Romolo Murri fondatore della Democrazia Cristiana; la visione monarchica e repubblicana; l’adesione all’idea millenaria di Roma che giungeva attraverso il Cristianesimo sino al fascismo; nonché la capacità di conciliare la visione del mondo dello Stato etico di origine gentiliana con quella spirituale della tradizione cattolica (ovvero sintesi fra idealismo e cattolicesimo); e ancora una visione di sintesi della tradizione risorgimentale (che contempla tutti i “padri della patria” da Gian Domenico Romagnosi, a Melchiorre Gioia e Carlo Cattaneo, fino a comprendere Giuseppe Mazzini e il socialismo nazionale Carlo Pisacane) che muove dalla Sinistra storica (con le sue componenti: irredentismo; socialismo nazionale; nazionalitarismo dell’anarcosocialista Andrea Costa) e che si salda con la visione soreliana dei sindacalisti rivoluzionari fautori dell’intervento militare nella Grande Guerra, i quali riscoprono l’idea di nazione avvicinandosi alla “religione della patria” nel corso del primo conflitto mondiale e poi confluiscono nel movimento fascista attraverso il sindacalismo nazionale, a partire dal dopoguerra.

È evidente che nel “pantheon ideologico” di Massi tutti i movimenti politici erano ben accetti, purché facessero propria l’idea di nazione e si riconoscessero nella visione dell’Italia generalmente condivisa. La stessa idea di nazione però – nel pensiero di Massi – non poteva esistere senza una visione sociale che rendesse tutti i ceti partecipi del benessere generale.

Ma partiamo dalle origini. Alla base della nazione sociale del geografo triestino vi è l’irredentismo, che è stato un grosso fattore di nazionalismo, come hanno sottolineato alcuni storici come Giovanni Sabbatucci. Una delle condizioni necessarie per lo sviluppo della componente irredentista è stata la presenza nella fase risorgimentale di un nazionalismo d’ispirazione democratica e mazziniana.

Nel corso dell’Ottocento, la presenza dei valori del nazionalismo democratico e mazziniano è servita a tener desto un sentimento patriottico che si è tradotto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, in un nazionalismo antidemocratico ed imperialista.

Massi nacque a Trieste nel 1909, quando ancora la città era parte integrante dell’impero austro-ungarico. Il suo vero nome era Ernesto Maček, ereditato dal padre di origine croata o slovena e alto ufficiale della Marina austriaca. La madre invece di origine italiana, si chiamava Enrica Codaglio. L’infanzia e le elementari le trascorse nella città di Graz dove frequentò le scuole elementari del posto, imparando a parlare e a scrivere correttamente la lingua tedesca. Viceversa, frequentò le scuole medie inferiori e superiori a Trieste nella fase in cui terminata la Grande Guerra la città venne annessa al Regno d’Italia. Nel 1926, dopo l’avvenuta iscrizione all’Università di Trieste, cambiò il cognome da Maček in Massi, in linea con il Regio Decreto promulgato in quell’anno.

Nel corso della sua frequenza presso la facoltà di Economia e Commercio, Massi ebbe modo di sostenere anche un paio di annualità di Lingua e Letteratura serbo-croata. A dimostrazione del suo rapporto con la cultura del mondo slavo, per tradizione familiare (il padre era di origine croata).

Durante il suo percorso universitario conobbe Giorgio Roletto, docente all’epoca di Geografia economica all’Istituto di Studi superiori di Trieste, che gli propose di collaborare con lui nella realizzazione di una corrente tutta italiana di geopolitica, traducendo le opere in tedesco del fondatore della geopolitica tedesca Karl Haushofer, che aveva iniziato nel 1924, a Monaco, la pubblicazione della rivista Zeitschrift für Geopolitik, con l’apporto di una serie di allievi e studiosi. Ma la figura di studioso eclettico e multiforme, frutto del suo rapporto con la città di Trieste, emerge anche durante gli anni Trenta, per l’esattezza nel 1934, quando giunto a Milano iniziò a collaborare in qualità di assistente volontario con la cattedra di Libertade Nangeroni all’epoca docente di Geografia presso la facoltà di Lettere della Università Cattolica del Sacro Cuore. Nangeroni aveva chiesto al rettore dell’Università Cattolica Padre Gemelli di poter contare su un assistente per poter affrontare il numero crescente di studenti che sostenevano l’esame con la sua cattedra e aveva segnalato il giovane Massi affermando che era un giovane geografo molto promettente. Gemelli aveva dato il suo assenso sottolineando che però non era in quel momento possibile pagarlo e che forse avrebbe potuto ambire ad uno stipendio solo negli anni a venire.

Due anni dopo, siamo nel 1936, Massi divenne ordinario, ottenendo la cattedra di Geografia economica alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica. Negli stessi anni, lo studioso triestino iniziò a collaborare con l’Istituto Coloniale Fascista di Milano e con i suoi colleghi della Cattolica, soprattutto con Amintore Fanfani e Francesco Vito per la comune adesione al corporativismo cattolico e per un aperto sostegno al colonialismo italiano all’interno dell’ICF lombardo.

Nel 1936 guidò l’ICF milanese in un lungo tour nella Germania nazionalsocialista per celebrare i centocinquanta anni della Società geografica di Francoforte e l’anno dopo (1937) di nuovo per un incontro con il Ministero delle Colonie della Germania nazionalsocialista dove tenne due discorsi in tedesco. Al contempo, nel 1937, iniziò ad insegnare Geografia politica ed economica presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pavia, entrando in contatto con Nicolò Giani presidente della Scuola di Mistica Fascista di Milano e docente di Sindacalismo e cultura corporativa presso lo stesso Ateneo e il Politecnico di Milano. Sempre nel 1937, divenne presidente dell’INCF (Istituto Nazionale di Cultura Fascista) di Pavia.

Con Fanfani e Vito frequentò l’Istituto coloniale fascista di Milano, tenendo conferenze sulle colonie e il colonialismo italiano e a partire dal 1935 assumendo la carica di direttore culturale dello stesso. Allo stesso tempo tenne una serie di relazioni sempre nel capoluogo lombardo e in altre città della Lombardia per la Scuola di Mistica Fascista, collaborando e intrattenendo relazioni politico-culturali con Giani, che rinsaldò dopo l’avvenuta nomina di quest’ultimo alla direzione del quotidiano “La Cronaca Prealpina” di Varese nel novembre del 1937.

Nel frattempo, Massi proseguì a collaborare con il suo mentore Roletto tenendo conferenze presso l’Università di Trieste, dove per un breve periodo di tempo insegnò presso la facoltà di Giurisprudenza, ancora con l’Istituto Coloniale Fascista della stessa città e in altre città dell’Italia del Nord, come Trento, Gorizia ecc. Nel 1940, partecipò al Convegno della Mistica Fascista in qualità di collaboratore della rivista della Mistica “Dottrina Fascista” e di rappresentante della rivista “Geopolitica”, fondata nel gennaio 1939 insieme a Roletto, dopo aver ottenuto il sostegno di Padre Gemelli che lo aveva inviato con una breve lettera di presentazione dall’allora ministro dell’Educazione nazionale, Giuseppe Bottai, che diede il placet alla pubblicazione del periodico. Partito volontario nel marzo del 1941 per partecipare alla Seconda guerra mondiale, venne inviato prima in Jugoslavia, come tenente dei bersaglieri e dove lavorò con l’intelligence italiana per favorire i rapporti fra italiani, tedeschi e croati, grazie alla sua perfetta conoscenza del tedesco e del serbo-croato. Nella Jugoslavia dell’epoca intrattenne rapporti con gli ustascia visitando anche il quartier generale di Ante Pavelic. Successivamente venne inviato sul fronte russo per favorire le relazioni con il comando tedesco della Wehrmacht. Dopo essersi distinto per coraggio e disciplina sul fronte orientale e nello scacchiere della Sicilia occidentale ricevendo tre medaglie al valor militare, nel 1943 aderì alla Repubblica Sociale Italiana. Nel secondo dopoguerra venne epurato per aver aderito alla RSI, perdendo la possibilità di insegnare all’Università e iniziando a lavorare per l’imprenditore Pernigotti. Solo nella seconda metà degli anni Cinquanta, grazie all’interessamento di Ardito Desio, geologo e alpinista italiano, ottenne di nuovo la possibilità di insegnare presso l’Università Statale di Milano.

Nel 1946 partecipò alla fondazione del Movimento sociale italiano, soprattutto mettendo insieme le forze rimaste a Milano e in tutta la Lombardia, venendo nominato vice segretario nazionale. Negli anni successivi diede il suo apporto alla formazione dei giovani militanti e aderenti al Msi, partecipando ai campi estivi che si tenevano annualmente in Italia settentrionale (San Genesio).

Durante la sua militanza prima nel Msi, poi nel Partito nazionale del lavoro e infine in Nazione sociale, proseguì a supportare le sue tesi politiche connotate da un deciso eclettismo e da una componente culturale multiforme, che sosteneva lo sviluppo dei Nuclei Aziendali di Azione Sociale (Nadas), costituiti all’interno delle imprese dal Msi, subito dopo la nascita del partito, avvenuta il 26 dicembre 1946. Tali organismi dovevano riunire imprenditori e maestranze in un rapporto di collaborazione reciproca, in funzione del bene superiore della nazione, con evidenti analogie con la forma di governance della compartecipazione (Mitbestimmung), applicata con successo in Germania a partire dal secondo dopoguerra.

Andrea Perrone 

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX, pp. 173-177.

Per approfondire:

a Ernesto Massi è dedicata la sezione monografica Ernesto Massi tra geografia e politica in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2016-2017, XXVIII-XXIX, pp. 9-183, con contributi di Arrigo Bonifacio, Michele Pigliucci, Andrà Perrone, Lorenzo Salimbeni, Gianni Scipione Rossi, Rodolfo Sideri, Gaetano Rasi.

Ugo Spirito, Filosofia della grande civilizzazione. La “rivoluzione bianca” dello Scià: in uscita l’inedito del 1978

In uscita a settembre l’inedito di Ugo Spirito

– Nel quadro delle iniziative che la Fondazione sta intraprendendo a quarant’anni dalla morte di Ugo Spirito e a novant’anni dalla nascita di Renzo De Felice, per ricordare e valorizzare l’opera del filosofo e dello storico, particolare rilievo assume il programma di pubblicazione di una serie di volumi in co-edizione con la casa editrice Luni di Milano. 

Il primo volume a vedere la luce –  nel mese di settembre 2019 – sarà l’inedito di Ugo Spirito Filosofia della grande civilizzazione. La “rivoluzione bianca” dello Scià, a cura e con introduzione di Gianni Scipione Rossi e con una postfazione di Hervé A. Cavallera.

Il libro

Negli ultimi mesi di una vita segnata da una speculazione che tende a inverarsi nell’azione politica, Ugo Spirito ha lavorato a un volume sull’Iran governato da Mohammad Reza Pahlavi. Un libro rimasto inedito nella sua stesura integrale e oggetto, in tempi diversi, di manipolazioni e censure, Conservato nel suo archivio privato, a quarant’anni di distanza il testo appare per la prima volta nella sua versione originale, che rivela il reale pensiero del filosofo.

Lo sforzo compiuto da Spirito è stato volto, nell’autunno del 1978, a comprendere e illustrare criticamente le linee guida della “rivoluzione bianca” dello Scià – avviata nel 1963 – inquadrandole nella storia della Persia e valutandone le possibili evoluzioni, mentre il Paese era sconvolto dalle proteste di piazza sfociate nel 1979 nella rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeyni.

Lo Scià appare a Ugo Spirito come un sovrano illuminato e ne valuta positivamente il sogno di trasformare l’Iran in una sorta di Città del Sole, nella quale regnino l’armonia e la collaborazione tra le classi sociali, nella prospettiva di un intenso sviluppo industriale. Una “città” laica, in cui non vi siano più sfruttatori e sfruttati, ricchi e poveri, proprietari e servi, secondo la tradizione socialista dalla quale, secondo Spirito, lo Scià ha tratto ispirazione per tracciare una “terza via” tra liberismo e comunismo. Per quanto illuminato, Spirito giudica il regime iraniano un dispotismo dittatoriale, errato sul piano teorico e fatalmente destinato a terminare con la scomparsa del suo protagonista.

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Ugo Spirito, Filosofia della grande civilizzazione. La “rivoluzione bianca” dello Scià, a cura di Gianni Scipione Rossi. Postfazione di Hervé A. Cavallera, Luni Editrice, Milano 2019, pp. 192, € 22.00 

collana Contemporanea, diretta da Ester Capuzzo e Giuseppe Parlato, n. 18

isbn: 978-88-7984-650-9

Il volume sarà acquistabile attraverso i normali canali di distribuzione e presso la sede della Fondazione.

Per prenotarlo:

info@www.fondazionespirito.it

lunieditrice@lunieditrice.com

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L’edizione avviene nel quadro dalle previsioni ex Art. 1, comma 416 della Legge 30 dicembre 2018, n. 145.