Gli intellettuali italiani e l’antisemitismo

La prima edizione
De Silva, 1947

di Gianni Scipione Rossi

La percezione riluttante
Se volessimo dare una definizione sintetica degli intellettuali italiani di fronte all’antisemitismo e alle leggi razziali basterebbe catalogarli con tre parole: gli antisemiti, gli opportunisti, gli indifferenti. Naturalmente la questione è molto più complessa, forse anche più complessa di quella, connessa ma non sovrapponibile, dell’atteggiamento degli intellettuali italiani nei confronti del regime fascista, sulla quale tanto si è scritto. A sua volta, anche tale questione si intreccia con il tema più generale degli italiani di fronte al fascismo e alle leggi razziali.
È nota l’analisi di Renzo De Felice sulla percezione della svolta razzista del regime fascista. Una svolta che – rileva il biografo di Mussolini – fu «accolta dalla gran maggioranza degli italiani e degli stessi fascisti con perplessita’ e molto spesso con ostilità». E che tuttavia non determinò un generale o almeno percepibile distacco dal fascismo. «Per quanto grave, la lacerazione prodotta dalla legislazione antisemita – sottolinea lo storico reatino – fu, tutto sommato, dal punto di vista del “consenso”, meno decisiva di quanto talvolta viene affermato». Di «quelle leggi – concorda Tullia Zevi – la popolazione in un primo tempo non percepì la gravità».  Per il secondo tempo si dovrà attendere ben oltre la fine della guerra.
Sarebbe improprio affermare che la consapevolezza della Shoah si diffonda con le prime immagini dei campi di sterminio nazisti proiettate dall’americano Psychological Warfare Branch nei cinematografi romani nel 1945. Ancor più improprio sarebbe sostenere che quelle immagini abbiano determinato negli italiani una consapevolezza diffusa delle conseguenze ultime delle leggi antiebraiche del 1938. Né incise, nel 1947, la prima edizione di Se questo è un uomo di Primo Levi, rifiutata da Einaudi su suggerimento di Natalia Ginzburg e Cesare Pavese, e pubblicata quasi clandestina da un piccolo editore di Vercelli.

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Lo scivoloso crinale tra pregiudizio diffuso e antisemitismo reale
Se fosse disponibile un algoritmo capace di scandagliare l’intera letteratu- ra italiana della prima metà del Novecento, ma anche memorie, diari e carteggi inediti, l’elenco delle affermazioni imputabili o sospettabili di tradire un pregiudizio antisemita sarebbe probabilmente interminabile. Esiguo, al contrario, sarebbe quello delle affermazioni volte a contrastare l’antisemitismo, sia culturale sia politico. Avrebbe una utilità questa classificazione? Sì, se utilizzata per comprendere appieno un clima. Molto meno se si trasforma in un processo alle intenzioni, come se ogni affermazione possa ritenersi prodromica delle leggi antiebraiche o – addirittura – della Shoah, inevitabile e consapevole terreno di coltura della persecuzione. Potrebbe naturalmente spiegare l’indifferenza diffusa, che negli intellettuali talvolta si trasforma in attiva e opportunistica partecipazione alla campagna razzista di fine anni Trenta. È comunque opportuno tenere a mente l’ammonimento di Delio Cantimori ricordato da Alberto Cavaglion: «l’uso del vocabolo “razza” è stato anacronisticamente utilizzato come prova schiacciante per retrodatare, oltre ogni limite di serietà scientifica, il presunto razzismo strutturale dell’italiano medio».  All’epoca, va chiarito, il termine razza veniva utilizzato come sinonimo di popolo, il che vale anche per il giovane socialista Mussolini.

Procediamo comunque con qualche esempio. È noto che Gaetano Salvemini l’8 dicembre 1922 appunta nel suo diario: «Mayer è triestino ed ebreo: credergli sarebbe ingenuità». È lecito “impiccare” Salvemini a questa e ad altre battute? E sottolineare come ancora nel 1934 stentasse, da combattivo antifascista all’estero, a identificare Mussolini con Hitler in materia di antisemitismo? «Mussolini – scrisse – non ha mai scatenato in Italia un’ondata di antisemitismo paragonabile a quella cui stiamo assistendo oggi in Germania. […] L’equivalente italiano dell’antisemitismo tedesco è la persecuzione della massoneria».
«Triestino era sempre per lui sinonimo di ebreo», nota Giulio Cattaneo a proposito di Carlo Emilio

Carlo Emilio Gadda

Gadda, affrettandosi a precisare: «Gadda non era antisemita». Vero? Falso? Parliamo del Gadda della feroce invettiva post-bellica contro un Mussolini, che nella vulgata lo fa annoverare tra le «firme sideralmente lontane dal regime». Un Mussolini sbeffeggiato come «Priapo Ottimo Massimo» e «Maccherone Maramaldo» in un florilegio che non contempla – per dire – un “Maramaldo Antigiudeo”.
Sono ben note le pagine scritte dall’ingegnere nel Racconto italiano di ignoto del novecento, nelle quali gli ebrei – che «mi sono poco simpatici» – «ad un tempo sono banchieri, democratici, framassoni e filantropi, soprattutto israeliti. Banchieri per istinto, filantropi per convenienza (nel senso largo e buono della parola), democratici per necessità».
È invece forse sfuggito ai più questo passaggio di Gadda, che il 25 novembre 1915 annota nel suo diario: «Alla mensa conobbi […] l’antipaticissimo, pretensioso, presuntuoso cap. Niccolosi, ebreo. È strana l’intuizione che ho degli ebrei: li conosco di colpo, al solo guardarli, prima ancora di avvicinarli: non ho nessuna speciale avversione per loro, ma questo Niccolosi deve essere un cane». Più o meno come il commissario di polizia che a Fontanay-le-Comte, nella Francia occupata, indaga sul belga Georges Simenon e sospetta: «– Lei è ebreo!» […] «Non mi sbaglio mai, io. L’ebreo lo sento al fiuto…».
Gadda – iscritto al Pnf dal 1921 – era dunque antisemita? Certo è che il Giornale di guerra viene pubblicato solo nel 1955, peraltro dopo un attento lavoro di revisione, al fine di evitare citazioni di persone che potrebbero restarne offese. Se ne può dedurre che Gadda, a dieci anni dalla fine della seconda guerra mondiale, non ritiene di dover espungere quella frase nota solo a lui. Probabilmente la considera una battuta innocua mentre – come si è detto – la percezione di quanto era accaduto faticava a affermarsi anche nel ceto intellettuale.

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Il testo completo del saggio in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. XXX, 2018, pp. 55-76.

Sentimento ostile, Zentralgebiet e criterio del politico

Carl Schmitt

di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

Scrive Clausewitz, nelle prime pagine del Vom Kriege, che la guerra, sotto l’aspetto delle di essa tendenze principali si presenta come un triedro composto:
«1. Della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
2. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.
La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni».
E poco prima sostiene che «Quanto più grandiosi e forti sono i motivi della guerra, quanto maggiormente essi abbracciano gli interessi vitali dei popoli, quanto maggiore è la tensione che precede la guerra, tanto più que- sta si avvicina alla sua forma astratta, tanto maggiore diviene la collimazione fra lo scopo politico e quello militare».
Da questi e da altri passi del Vom Kriege emerge che il “sentimento ostile” e la violenza originale dell’odio e dell’inimicizia è del “triedro” l’elemento che più contribuisce all’intensità e alla determinazione dello sforzo bellico.
Secondo Carl Schmitt «I concetti di amico e nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche, morali e di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico- privato», perché «Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere». Il nemico è solo pubblico come già era scritto nel Digesto. La contrapposizione politica è la più intensa ed estrema; non è limitata all’esterno dell’unità politica, anche se all’interno è relativizzata ossia è lotta e non guerra; se diviene questa mette in forse l’unità politica. La guerra è in se un mezzo politico e non può che essere tale «sarebbe del tutto insensata una guerra condotta per motivi «puramente» religiosi, «puramente» morali, «puramente» giuridici o «puramente» economici». Tuttavia «contrasti religiosi, morali e di altro tipo si trasformano in contrasti politici e possono originare il raggruppamento di lotta decisivo in base alla distinzione amico-nemico. Ma se si giunge a ciò, allora il contrasto decisivo non è più quello religioso, morale od economico, bensì quello politico»; e prosegue «Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici».
Nello scritto L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni Schmitt sostiene (e ciò presenta interesse anche per il “contenuto” del politico) che l’Europa ha cambiato dal XVI secolo più volte il proprio centro di riferimento; il quale è passato dal teologico al metafisico, da questo al morale- umanitario e poi all’economico.

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Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. XXX, 2018, pp. 135-149.

Ancora pochi giorni per partecipare al bando per ricerche sull’opera di Spirito e De Felice

Scade alle 17.00 del 31 agosto 2019 il termine per partecipare alla selezione indetta dalla Fondazione per nuove ricerche sull’opera di Ugo Spirito e Renzo De Felice, dei quali ricorre rispettivamente il quarantesimo anniversario della morte e il novantesimo anniversario della nascita.

Ecco il testo del bando:

1. Nell’ambito del programma delle attività istituite per celebrare il quarantesimo anno dalla scomparsa di Ugo Spirito (28 aprile 1979) e il novantesimo della nascita di Renzo De Felice (8 aprile 1929), la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice di Roma bandisce un concorso destinato a neolaureati.
2. Possono prendere parte al concorso i cittadini italiani che siano in possesso di laurea specialistica o magistrale conseguita a partire dal 1° gennaio 2015 ed entro, e non oltre, la data di pubblicazione del presente bando.
3. Si può partecipare presentando progetti di ricerca che mirino alla riscoperta, approfondimento e valorizzazione dell’opera del filosofo Ugo Spirito o dello storico Renzo De Felice, esaminati anche nel più ampio contesto della cultura italiana ed europea del Novecento. Pertanto, le ricerche potranno essere svolte lungo due indirizzi di studio, filosofico e storico. Sarà altresì possibile svolgere uno studio di taglio interdisciplinare, al contempo storiografico e filosofico, sempre e comunque inteso a valorizzare le fonti documentarie, bibliotecarie e archivistiche, presenti presso la Fondazione.
4. Il concorso prevede la selezione da parte del Comitato scientifico dei primi dieci migliori progetti di ricerca. Una volta selezionati, e comunicata la decisione ai diretti interessati, i progetti dovranno essere elaborati e redatti nell’arco di quattordici mesi (dal 1° ottobre 2019 al 30 novembre 2020). Tra questi dieci elaborati finali (di lunghezza non inferiore alle 50.000 battute – spazi inclusi –; più dettagliate norme redazionali verranno comunicate in seguito ai dieci selezionati) il Comitato scientifico premierà le tre ricerche valutate più valide per rigore scientifico ed originalità interpretativa. Il premio consisterà nell’assegnazione di tre borse di studio, dell’ammontare rispettivamente di 1000 euro per il primo classificato, e di 750 euro ciascuno per il secondo e terzo classificato.
5. Gli altri sette progetti di ricerca selezionati, realizzati e consegnati, ma non premiati, saranno oggetto di ulteriore valutazione da parte del Comitato scientifico per eventuale pubblicazione a cura della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.
6. I concorrenti dovranno presentare, unitamente alla domanda di ammissione al concorso, un dettagliato progetto di ricerca di circa 5mila battute (spazi inclusi) corrispondente alle tematiche di cui al punto 3 e contenente adeguate indicazioni sulle fonti, le metodologie e gli obiettivi scientifici della ricerca, oltre ad una preliminare bibliografia di riferimento.
7. La domanda di ammissione al concorso e il progetto di ricerca dovranno essere inviati, entro e non oltre le ore 17,00 del 31 agosto 2019, alla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice esclusivamente come documenti in formato word al seguente indirizzo e-mail: info@www.fondazionespirito.it.

Fiume cento anni dopo: convegno internazionale al Vittoriale

Nel centenario dell’impresa di Fiume, dal 5 al 7 settembre 2019 si terrà al Vittoriale degli Italiani a Gardone Riviera  il convegno internazionale “Fiume 1919-2019. Un centenario europeo tra identità, memorie e prospettive di ricerca”.

I lavori saranno articolati in tre giornate e gli atti pubblicati a cura della Fondazione Vittoriale degli Italiani. Gli interventi si concentreranno sull’influenza dell’Impresa fiumana sulla politica e sulla memoria, attraverso un approccio comparato tra storiografia italiana e croata.

Tra i relatori Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, Roberto Chiarini, componente della Commissione Scientifica della Fondazione ed Ester Capuzzo, componente del Comitato scientifico degli “Annali” della Fondazione.

Chiuderà il convegno una tavola rotonda coordinata dal presidente Giordano Bruno Guerri cui parteciperanno gli storici Ernesto Galli della Loggia, Alessandro Barbero, Francesco Perfetti e Maurizio Serra.

Come sottolinea un comunicato, <Il Vittoriale, la dimora monumentale dove Gabriele d’Annunzio abitò dal 1921 alla morte, conserva la più vasta raccolta di fonti riguardanti la storia dell’Impresa. La Fondazione intende promuovere la riscoperta di questo capitolo del Novecento. A Fiume d’Annunzio fu Comandante di una ribellione e capo del movimento politico chiamato “fiumanesimo”. Fu un episodio capace di fondere patriottismo e rivoluzione, il culto dannunziano della bellezza e dell’innovazione culturale, politica e sociale. Un episodio che fu successivamente incluso nella mitologia del fascismo, che si impadronì della sua epopea, dei suoi riti e dei suoi simboli.

La Fondazione intende restituire all’Impresa fiumana la sua complessità storica, condividendo tale riscoperta con la città di Fiume – Rijeka. L’obiettivo è promuovere lo scambio tra ricercatori italiani e croati, nella speranza di sostenere una nuova stagione di studi sul Novecento attraverso una lente internazionale ed europea>.

Il programma

5 settembre

Ore 10.00-13.00

Le identità di Fiume

Moderatore: Francesco Perfetti

Raoul Pupo – La questione di Fiume e le vicende del confine orientale

Ester Capuzzo – Da Corpus Separatum a provincia italiana. Amministrazione e legislazione a Fiume (1919-1924).

Giovanni Stelli – Irredentismo e autonomismo a Fiume

Giuseppe Parlato – L’economia di Fiume durante l’Impresa dannunziana

Erwin Dubrovic – Il “Gabbiano” contro d’Annunzio. Una testimonianza di Milan Marjanovic riguardo una congiura croata

Natka Badurina – L’episodio dannunziano nella luce di alcuni documenti degli archivi fiumani

Ore 13.10

Inaugurazione della mostra “La Città inquieta e diversa” al Cavalcavia in Piazzetta Dalmata

Ore 15.00-18.00

Immagini da una ribellione

Moderatore: Roberto Chiarini

Stefano Bruno Galli – L’irredentismo trentino e l’Impresa fiumana

Vjeran Pavlacovic – D’Annunzio and Fiume: representations in the Yugoslav and US press 1919-1921.

Roberto Chiarini – Carlo Reina, il “Ragionevole”

Emanuele Cerutti – Consenso e dissenso nell’esercito dannunziano

Emiliano Loria – La questione dell’infanzia nella Fiume dannunziana

Dominique Reill – How to survive in an Holocaust city. Fiume and d’Annunzio

Simone Colonnelli – Liturgie nazional-cattoliche: padre Giuliani a Fiume

6 settembre

Ore 10.00-13.00

La città dell’utopia

Moderatore: Giovanni Stelli

Claudia Salaris – Artisti e libertari a Fiume

Matteo Pasetti – Sindacalismo e corporativismo nella Carta del Carnaro: l’utopia fiumana nell’Europa del dopoguerra

Carlo Leo – I letterati a Fiume

Silvia Zanlorenzi – Un giapponese a Fiume. Harukici Shimoi

Valentina Raimondo – Gli artisti che contribuirono ai simboli dannunziani

Simonetta Bartolini – Yoga, una rivista e un movimento nella Fiume dannunziana

Ore 15.00-18.00

L’eco dell’Impresa

Moderatore: Ernesto Galli Della Loggia

Marco Cuzzi – “La nostra bandiera è la più alta”: la politica “esteriore” di d’Annunzio e la Lega di Fiume.

Aldo A. Mola – La Massoneria e la questione fiumana

Paolo Cavassini – I repubblicani e la questione fiumana, fra “diciannovismo” e intransigenza

Francesco Perfetti – D’Annunzio e Mussolini

Alberto Mingardi – Il capitalismo italiano e l’Impresa fiumana

7 settembre

I tragitti della memoria

Moderatore: Paolo Cavassini

Alessio Quercioli – “Tener viva in Italia la fiamma dell’ideale”, la Federazione Nazionale dei Legionari Fiumani nell’Italia del Primo dopoguerra e i suoi rapporti con il fascismo.

Federico Carlo Simonelli – L’Impresa fiumana nella memoria pubblica del fascismo

Elena Ledda – Memorie fiumane negli archivi del Vittoriale

Marino Micich – L’Impresa di d’Annunzio e la città esule. Echi e suggestioni dannunziane nella costituzione del Libero Comune di Fiume in esilio (1966-1969)

Tea Perincic – Due mostre sull’Impresa di Fiume a Rijeka

Barbara Bracco – Scatti della rivoluzione. Fatti e personaggi dell’Impresa fiumana nella fotografia.

Ore 15.00-18.00

Bilancio storiografico (tavola rotonda)

Moderatore: Giordano Bruno Guerri

Ernesto Galli della Loggia

Alessandro Barbero

Francesco Perfetti

Maurizio Serra

Stefano Bruno Galli

Ore 21.00

Spettacolo “Il Piacere” con Debora Caprioglio al Laghetto delle Danze

Info: http://web.vittoriale.it

Divenire storico e conservazione

Niccolò Mochi-Poltri, Società. Divenire storico e conservazioneIntroduzione di Franco Cardini, Nazione Futura, Roma-Cesena 2018//

Assai spesso si sente parlare della gioventù odierna con toni che vanno dal biasimo alla commiserazione. Elementi fattuali non mancano per alimentare giudizi di segno negativo. Ogni volta che si ascolta o legge notizia di giovani che sbagliano, immediatamente mi chiedo però chi sono stati gli adulti dietro e intorno a loro, se ne hanno o meno accompagnato un processo di crescita. Per fortuna non esiste solo la cronaca che i mass media prediligono: quella nera, anzi nerissima. Esiste la vita di tutti i giorni, in cui hai l’occasione di incontrare e conoscere ventenni nelle cui passioni intravedi il senso compiuto di alcune riflessioni che José Ortega y Gasset vergava tra 1929 e 1931.

Scriveva il pensatore spagnolo, rispondendosi alla domanda “che cos’è la vita?”: «Affermo, quindi, che io ora sono insieme futuro e presente. Questo mio futuroesercita una pressione sull’ora e da questa pressione sulla circostanza scaturisce la mia vita presente». E concludeva, provvisoriamente: «io sono chi inesorabilmente esige d’essere realizzato, quantunque sia impossibile la sua realizzazione = io sono… vocazione».

Come insegnante ho il privilegio di incontrare tali vocazioni, e di provare ad intuirle, suscitarle, rafforzarle. Perché è così che si semina il bene di domani. Che è bene nella misura in cui si afferma la costruzione contro la distruzione, il vivo pensiero storico contro l’immobilismo di una ragione spenta, l’entusiasmo creativo contro la rassegnazione e l’apatia.

Tra i vari incontri che incoraggiano a ben sperare c’è questo testo di piccolo formato, ma che racchiude molta generosità di pensiero e desiderio di comprensione delle radici del proprio tempo. L’autore ha 27 anni. Si chiama Niccolò Mochi-Poltri. Sin dal titolo del libretto si chiariscono i termini delle questioni che ne hanno motivato la stesura: la genesi e il destino della società, di ogni società, sono racchiusi tra divenire storico e istinto di conservazione. Racchiusi come dentro un campo magnetico, qualcosa capace di trattenere a lungo una forma, ma sempre a rischio di perdere presa, disgregarsi, spegnersi. Questo libro è un vademecum, letteralmente.

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Danilo Breschi

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n.1, 2019, nuova serie, a. XXXI

L’attentato a Togliatti e la rivoluzione mancata

Giuseppe Pardini, Prove tecniche di rivoluzione. L’attentato a Togliatti, luglio 1948, Luni Editrice, Milano 2018//

di Alberto Mario
Sono trascorsi poco più di settanta anni dal grave attentato perpetrato il 14 luglio 1948 ai danni del segretario del Partito comunista italiano Palmiro Togliatti da un giovane nazionalista Antonio Pallante, iscritto all’Uomo qualunque, ma ancora non era stata fatta piena luce sulle attività insurrezionali del PCI dei giorni successivi.
Ad aprire uno squarcio sulle vicende avvenute nel luglio 1948 abbiamo finalmente a disposizione lo studio, da poco apparso in libreria, realizzato da Giuseppe Pardini, che spiega le origini dei gravi disordini avvenuti, fra il 14 e il 17 luglio dello stesso anno, dopo l’arresto dell’attentatore, grazie all’utilizzo dei documenti provenienti dagli uffici di informazione dello Stato maggiore dell’esercito, che ci permettono di fare maggiore chiarezza sulle violenze di quei giorni di luglio e sul ruolo del PCI.
Finora, la vulgata ufficiale aveva ribadito che i moti di protesta in tutta Italia erano avvenuti spontaneamente, non avendo – a detta della storiografia – alcuna finalità eversiva e senza alcuna organizzazione alle spalle. Ma i documenti utilizzati da Pardini dimostrano che i moti furono il prodotto di un’azione insurrezionale organizzata dalla struttura paramilitare del PCI, che mise a dura prova la tenuta del nuovo sistema democratico, a pochi mesi dall’avvio della prima legislatura.

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Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2019, n. 1, nuova serie, a. XXXI, pp. 339-342.

Quella voglia di libertà che da Praga brucia ancora

di Danilo Breschi

 

Juan Palach

//Farsi torcia umana per scuotere le coscienze, per svegliare l’anelito di libertà sopito nei cuori impauriti del proprio popolo schiacciato dal potente invasore straniero. Era il 19 gennaio del 1969. Esattamente cinquant’anni fa. Moriva alle ore 15:30, dopo tre giorni di agonia. 73 ore, per la precisione. Il suo nome era Jan Palach. Studente di filosofia, era nato a Praga l’11 agosto del 1948, Aveva dunque vent’anni da poco compiuti, quando vide i carri armati del Patto di Varsavia, inviati da Mosca per porre fine a quell’esperimento cecoslovacco di riforme e introduzione di libertà civili e politiche che è passato alla storia con il nome di “Primavera di Praga”. Il 20 agosto del ’68 la Cecoslovacchia era invasa e Mosca ne ribadiva la condizione servile di satellite dell’imperialistica Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS).
Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 Jan si recò in piazza San Venceslao, al centro di Praga. Si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Questo fu il suo modo di protestare contro l’occupazione sovietica. Nelle 73 ore di agonia Jan ebbe alcuni momenti di lucidità, tanto da avere notizia dell’eco internazionale che quel suo gesto estremo aveva suscitato. Riuscì anche a rilasciare alcune interviste. Pochissime parole, esalate dal suo corpo ustionato quale testamento delle ragioni che portarono ad un simile martirio.

[…]

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2019, n. 1, nuova serie, a. XXXI, pp. 305-309.

Autoritarismo(s), clases medias y el problema de las generaciones

di Ana Grondona//

El texto que presentamos (“Ceti e generazioni alla vigilia della Marcia su Roma”) forma parte del Fondo documental de Gino Germani, custodiado por la Fondazione Ugo Spirito e Renzo de Felice. Este sociólogo ítalo-argentino (1911-1979) ha sabido cosechar, al menos hasta ahora, más interés entre públicos latinoamericanos que europeos. Sin embargo, buena parte de sus preguntas e intuiciones mantienen una inocultable vigencia a ambos lados del Atlántico. Si en el caso de la Argentina, país en el que, quizás, su inter vención en el campo cultural haya resultado más prolífica, nos enfrentamos al desafío de desestabilizar ciertos clichés con los que suele asociarse su figura (por ejemplo, como mero “importador” de la sociología funcionalista), en el caso de Italia el reto es atraer la atención sobre su trabajo. Paradójicamente, el éxito de su trayectoria latinoamericana parece haberlo relegado, frente a algunos ojos, al papel de sociólogo estricta y estrechamente ocupado en asuntos exóticos. Por el contrario, su trajín de (doblemente) exiliado lo convierte, para miradas más dispuestas a romper con el eurocentrismo, en un sociólogo universal. Al decir del filósofo latinoamericano Eduardo Grüner (2010) la periferia, de la que (a su modo) Germani hizo su punto de vista, constituye una perspectiva privilegiada, pues desde allí puede observarse el todo (por caso, la modernidad capitalista), la parte (por caso, lo que otrora se denominaban los “países semi-coloniales”, “periféricos” o “dependientes”) y la relación entre ambos.
Por cierto, Germani fue un autor “obligado” a la traducción en múltiples sentidos. La experiencia imborrable del exilio, tal como ha señalado agudamente Ana Germani (2015), lo impulsó a la comparación entre culturas, historias y experiencias.

[…]

Ceti e generazioni alla vigilia della Marcia su Roma

di Gino Germani

La crisi del primo dopoguerra fu l’espressione di un profondo “spostamento” di tutti gli strati sociali e specialmente delle generazioni più giovani – sul piano psicologico, economico, politico e sociale. Anche se fortemente aggravato da caratteristiche proprie dello sviluppo storico dell’Italia, si trattava di un fenomeno comune a molti paesi. Due componenti strettamente intrecciati sono la sua radice. Il più visibile, il trauma della guerra, si inseriva in un processo di lunga durata. Al vertice della piramide sociale, la crescente concentrazione tecnico-economica e l’incipiente trasformazione della classe politica con l’emergere dei primi partiti di massa. Alla base, una potente spinta verso la conquista dei pieni diritti, nell’ordine politico, economico e sociale, in cui erano coinvolte tutti gli strati popolari, compresi gli agricoli. Al centro infine, il declinare di settori arcaici, il sorgere di nuovi, e soprattutto, il contraccolpo dei mutamenti ai due estremi. Per i ceti medi, minacciati dall’alto e dal basso, non si trattava solamente di perdite economiche, ma anche di potere politico e di prestigio. La guerra aveva accelerato il processo: l’immersione delle classi popolari nella vita nazionale, culminata politicamente con il suffragio universale e lo spettacolare aumento dell’organizzazione sindacale, si rendeva socialmente più visibile con la partecipazione attiva di settori fino allora del tutto marginali.

[…]

I testi completi del saggio di Ana Grondona e dell’inedito di Gino Germani in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2019, n. 1, nuova serie, a. XXXI, pp. 257-276.

 

Perugia, il capodanno perduto del 1947. Una tentata pacificazione tra partigiani ed ex fascisti

di Leonardo Varasano

Il cimitero monumentale di Perugia

Tra le specificità storiche e sociali italiane rientra anche un livello di contrapposizione lacerante e singolarmente alto. La storia d’Italia, a ben vedere, sembra infatti condensare due nazioni, per buona parte ostili nei ricordi e inconciliabili nei progetti. Fattori divisivi di spiccatissima natura politico-ideologica hanno prodotto e perpetuato contrapposizioni in serie. Tutta la vicenda del paese può in fondo essere caratterizzata da una lunga, corrosiva teoria di coppie di opposti: monarchici/repubblicani, laici/cattolici, interventisti/neutralisti, fascisti/antifascisti, comunisti/anticomunisti.

In questa forte propensione alla «divisività» – alla traduzione in forma permanente e patologica delle inevitabili, fisiologichefratture proprie di ogni storia nazionale –, un ruolo di particolare rilievo è rivestito dalla radicale polarità che ha contrapposto fascisti e antifascisti. Anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il fascismo è stato a più riprese immaginato come un pericolo incombente: se ne è paventata la possibilità di rinascita, se ne è denunciata la minacciosa sopravvivenza in varî ambiti e in varie forme. Un fatto storico «morto» e «irresuscitabile», limitato – secondo l’interpretazione defeliciana ad un dato momento storico, racchiuso tra il 1919 e il 1945, ha finito per diventare un elemento centrale del discorso pubblico e della mobilitazione politica dell’Italia repubblicana. Non solo: la presunta, ineliminabile perennità del pericolo fascista è riuscita a rendere plausibile una perenne, strutturale necessità dell’antifascismo, legando fascismo e antifascismo in un binomio strettissimo, così largamente accettato da divenire il sostrato di un senso comune di massa. La potenziale, continua sopravvivenza del fascismo, a lungo addebitata anche all’esistenza e al ruolo della Democrazia cristiana, ha dunque portato ad una funzionale necessità dell’antifascismo. Il paradigma fascismo/antifascismo è stato, a ben vedere, il paradigma ideologico originario della Repubblica, in grado di resistere e rinnovarsi nel tempo. Con esiti divisivi,dolorosi e, come ha rilevato Francesco De Gregori, decisamente parossistici: il nostro paese ha ancora «un grosso problema a parlare di fascismo» – così si è espresso il cantautore romano, nel 2016, intervenendo alla presentazione del volume Mio padre era fascista, di Pierluigi Battista – perché «da noi la riconciliazione non c’è ancora stata» e «persino a una riunione di condominio se a uno gli gira, può dare a un altro del “fascista” usando quel termine come un insulto».

La tenace difficoltà del discorso pubblico italiano a storicizzare il Ventennio, è un tema di persistente attualità. Da più parti si continua a pensare secondo la dicotomia fascismo/antifascismo, nel solco di una strisciante, irriducibile guerra civile della memoria. Eppure questa lacerante contrapposizione tra antifascismo e fascismo (inteso, nel tempo, in una serie di significati enormemente dilatati e metapolitici) avrebbe potuto ben presto essere se non superata almeno attutita, in modo tale da provocare un’eco meno duratura e meno dannosa. Ci fu infatti chi, nell’immediato dopo guerra, tentò una sollecita pacificazione, un avvicinamento di buon senso nel nome della nazione italiana, dell’ideale risorgimentale e delle necessità della ricostruzione. Forse – si può pensare – non si sarebbe assistito ad unaimmarcescibile contesa ideologica, se solo si fosse dato seguito e concretezza ad una piccola-grande iniziativa, finora dimenticata e nascosta dalla polvere, avvenuta nell’immediato dopoguerra in quella che era stata la “capitale della rivoluzione fascista”, la città fascistissima per eccellenza da cui era partita la marcia su Roma. Forse, nel 1947, un lungo, complesso e doloroso capitolo di storia italiana avrebbe potuto chiudersi proprio a Perugia, proprio nello stesso luogo in cui era stato concretamente aperto nel 1922. Forse avrebbero potuto prevalere le ragioni della fraternità, della riconciliazione, dell’unione nel nome della Patria. Forse. Non è dato sapere: si tratta solo di un’ipotesi controfattuale, poiché la vicenda italiana ha avuto, com’è noto, un’evoluzione diversa, vivendo nel solco del binomio fascismo/antifascismo. Le buone intenzioni – manifestate in una temperie storica avvelenata dai frutti amari della dittatura e della morte della patriafallirono. Cionondimeno quell’episodio che poteva contribuire a cambiare il corso degli eventi merita di essere conosciuto, ricordato, compreso nelle ragioni profonde. Quelle sì, immortali.

1. «Gli italiani agli italiani», una corona di alloro simbolo di fraternità e amor patrio

All’alba del 1947, con l’Italia ancora ricoperta di macerie fumanti, lacerata nello spirito e nella carne, Perugia fu teatro di un singolare e positivo esperimento di riconciliazione tra partigiani ed ex fascisti, oggi presso che misconosciuto.

A prendere l’iniziativa furono Corrado Sassi classe 1923, antifascista, il partigiano “Zuavo” della banda “Francesco Innamorati” operante nei boschi sopra Deruta e l’ex combattente della Repubblica sociale italiana Bruno Cagnoli, uomo dall’«intelligenza acuta e sensibile». A soli venti mesi dalla fine della Seconda guerra mondiale, con la prospettiva di una difficile ricostruzione affidata al primo governo De Gasperi un governo di unità nazionale di cui ancora facevano parte Dc e Pci insieme , i due giovani, all’insaputa di tutti i partiti, ma con l’indirettosostegno di altri uomini di buona volontà, promossero una manifestazione semplice e clamorosa al contempo. Nel primo, freddo giorno del 1947, quasi a simboleggiare l’inizio di una nuova era, una cesura della Storia, un centinaio di perugini «che fino al giorno prima si sarebbero volentieri sbudellati l’un l’altro», decise di lasciarsi alle spalle il fardello dei rancori, si radunò in piazza Piccinino, nel cuore del capoluogo umbro, e di lì, in rigoroso silenzio, raggiunse il cimitero monumentale. Arrivati al camposanto, partigiani ed ex fascisti parteciparono ad una Messa di suffragio officiata da Padre Angelini; poi raggiunsero il monumento ai caduti di tutte le guerre e lì deposero una corona di alloro, con nastro tricolore, recante la significativa scritta, a caratteri d’oro, «Gli Italiani agli Italiani»; quindi sostarono per un po’, muti, «davanti a molte croci» di entrambe le fazioni politiche, prima di coprire la ghirlanda funebre con una bandiera nazionale. La cerimonia, arricchita dai discorsi di Luigi de Florentis per i partigiani e di Mario Fettucciari per gli ex fascisti, fu infine suggellata da una solenne stretta di mano con cui i componenti delle due schiere cessarono di essere nemici per diventare semplicemente avversari. […]

Leonardo Varasano, Il capodanno perduto del 1947. Una tentata pacificazione tra partigiani ed ex fascisti nel nome degli ideali risorgimentali

Il testo completo del saggio in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, a. 2019, nuova serie, a. XXXI, pp. 191-206