Ugo Spirito. L’uomo la cui filosofia incarnò lo spirito del Novecento

di Danilo Breschi

//Ugo Spirito è stato un filosofo molto apprezzato, molto studiato e molto amato (specialmente dai suoi studenti) in Italia e in Europa fino al 1979, anno della sua morte. Piuttosto che un successo postumo, com’è il caso di Nietzsche ad esempio, a Spirito è toccato in sorte un grande, enorme successo in vita. È stato un filosofo la cui fama è persino cresciuta nel dopoguerra repubblicano e antifascista, nonostante fosse stata già consistente durante il periodo tardo-monarchico e fascista, quando egli assurse in certi momenti a “consigliere del Principe”, grazie al ruolo di intellettuale di riferimento, per l’ala movimentista e “rivoluzionaria”, riconosciutogli da Giuseppe Bottai soprattutto nei primi anni Trenta e nei primi anni Quaranta. Spirito non abbandonò mai le speranze di un rivoluzionarismo fascista sino alla vigilia del crollo del regime mussoliniano (25 luglio 1943), a dispetto di quanto ebbe sempre a ricordare e poi a scrivere perentoriamente nelle sue Memorie di un incosciente, sorta di testamento spirituale pubblicato un paio d’anni prima della morte.
“Spirito del Novecento”: così recitava il titolo della monografia che nel 2010 ho dedicato all’analisi del filosofo aretino. Il gioco di parole era cercato ben oltre l’intento ludico. Intendeva indicare l’essenza della figura di Spirito, il suo carattere paradigmatico. Riassunse nella sua vita e nella sua opera, che hanno anagraficamente attraversato ben tre quarti dell’intero Novecento, il ruolo e la natura dell’intellettuale-ideologo nel corso di quello che è stato, per eccellenza, il secolo delle ideologie e delle rivoluzioni. Spirito e il Novecento sono stati specchio l’uno all’altro. L’uno, il filosofo di quel determinato secolo e la sua autocoscienza, l’altro, il campo di sperimentazione e la fonte di ispirazione del pensatore che, più di molti altri, ne è stato un fedele interprete. Fu il coerente portavoce di un secolo apparentemente incoerente, ma che proprio grazie a filosofi come Spirito si rivela permeato di una logica più lineare di quanto si possa pensare, tale per cui la prima metà del Novecento spiega gran parte della seconda. Ed un simile ragionamento vale per il mondo intero, e non soltanto per l’Europa. Si è infatti passati dall’imperialismo alla globalizzazione, in politica internazionale. Dall’irrazionalismo al post- modernismo, in filosofia. Dall’euforia smisurata alla depressione cronicizzata, nella psicologia collettiva delle società occidentali. Sempre e comunque, forme di nevrosi. Dalla presunzione di sapere, e potere, tutto, all’incoscienza, e impotenza, altrettanto totali.
Il fatto che la morte di Spirito, avvenuta il 28 aprile 1979, abbia sostanzialmente coinciso con la progressiva marginalizzazione della sua opera, nonostante l’encomiabile attività scientifica della Fondazione ad egli intitolata, che fu ben presto istituita e che negli anni Novanta fu presieduta da uno storico di larga fama come Renzo De Felice, sta a significare una sola cosa: che il Novecento è finito in anticipo. Finito come secolo delle religioni politiche e del messianismo rivoluzionario. Negli anni Ottanta iniziava a muovere i suoi primi passi tutta un’altra storia. Non per questo il Novecento è stato un “secolo breve”. Al contrario: era iniziato molto prima, probabilmente nel 1789. Ma terminò, sotto questo profilo, nel 1989, esattamente duecento anni dopo.
In tal senso Francis Fukuyama andrebbe riabilitato rispetto alle semplicistiche interpretazioni che tuttora lo liquidano come l’ingenuo portavoce dell’ottimismo reaganiano e liberista. Interpretazioni che sospetto siano il frutto di una mancata lettura e di un pregiudiziale sentito dire.

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Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. XXX, 2018, pp. 121-132.

La guerra rivoluzionaria di Ugo Spirito

L’inedito pubblicato nel 1989

di Rodolfo Sideri

//Nel suo Diario 1935-1944, Bottai racconta che il 29 novembre 1941, Mussolini gli restituì un dattiloscritto di Spirito intitolato Guerra rivoluzionaria, esprimendo un giudizio sostanzialmente critico: «Lo trova intelligente, ma contraddittorio» per la distinzione borghesia-proletariato e indicava il punto debole della tesi laddove, riconosciuta l’ineluttabilità dell’egemonia tedesca, additava all’Italia il compito di mitigarla in un teatro bellico dove i metodi tedeschi – diceva Mussolini – erano sotto gli occhi di tutti e l’Italia arrancava dietro l’alleato. Era significativo che il testo di Spirito fosse presentato al Duce da Bottai, mentore del filosofo insieme a Gentile, o addirittura sia stato da lui commissionato. Il gerarca era colui che maggiormente si stava spendendo, tanto con la sua azione di ministro dell’Educazione Nazionale quanto come direttore di «Critica fascista» e «Primato», per coinvolgere e mobilitare gli intellettuali. Un’azione che richiedeva di spostare sul terreno culturale il conflitto in atto e quindi ideologizzarlo e trasformarlo in un cambiamento storico che era compito degli intellettuali discutere se non determinare.

Giuseppe Bottai

Ugo Spirito era forse l’esempio paradigmatico di come Bottai intendesse la figura dell’intellettuale, costantemente volto a dare all’analisi dei fenomeni storico-politici in atto un’impostazione idealistica. Del resto, lo stesso Spirito, nella sua autobiografia intellettuale, afferma che il fascismo «non spunta all’improvviso come un fungo imprevisto, ma è il frutto di un lungo processo […]. Possiamo dire che le sue radici sono nei principi del nuovo idealismo italiano, in antitesi col vecchio positivismo». Addirittura, la fondazione del fascismo viene dal filosofo retrodatata al gennaio 1918, quando Giovanni Gentile iniziava la docenza all’università di Roma con la precisa intenzione di educare i suoi studenti alla coscienza storica del passato della storia nazionale e alle esigenze del presente, in modo da consentire loro di sviluppare la fede nell’idea di nazione, fuoriuscendo dall’inautenticità di una vita dominata dall’egoismo e dall’utilitarismo individuale. Anche per Spirito, dunque, il fascismo non era derubricabile a mera reazione alle violenze del biennio rosso, rappresentando piuttosto un’esigenza storica della vita nazionale. Spirito non ripudia l’entusiastica adesione a questo fascismo, nutrito di idealismo e validato da una riforma della scuola che diede all’idealismo una sorta di monopolio ideologico all’interno della nuova èra che si apriva. Le cose cominciarono a cambiare con i Patti Lateranensi, in virtù dei quali «l’attualismo veniva negato in forma perentoria e a tempo indeterminato>.

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Il saggio completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. XXX, 2018, pp. 95-110.

 

Gli intellettuali italiani e l’antisemitismo

La prima edizione
De Silva, 1947

di Gianni Scipione Rossi

La percezione riluttante
Se volessimo dare una definizione sintetica degli intellettuali italiani di fronte all’antisemitismo e alle leggi razziali basterebbe catalogarli con tre parole: gli antisemiti, gli opportunisti, gli indifferenti. Naturalmente la questione è molto più complessa, forse anche più complessa di quella, connessa ma non sovrapponibile, dell’atteggiamento degli intellettuali italiani nei confronti del regime fascista, sulla quale tanto si è scritto. A sua volta, anche tale questione si intreccia con il tema più generale degli italiani di fronte al fascismo e alle leggi razziali.
È nota l’analisi di Renzo De Felice sulla percezione della svolta razzista del regime fascista. Una svolta che – rileva il biografo di Mussolini – fu «accolta dalla gran maggioranza degli italiani e degli stessi fascisti con perplessita’ e molto spesso con ostilità». E che tuttavia non determinò un generale o almeno percepibile distacco dal fascismo. «Per quanto grave, la lacerazione prodotta dalla legislazione antisemita – sottolinea lo storico reatino – fu, tutto sommato, dal punto di vista del “consenso”, meno decisiva di quanto talvolta viene affermato». Di «quelle leggi – concorda Tullia Zevi – la popolazione in un primo tempo non percepì la gravità».  Per il secondo tempo si dovrà attendere ben oltre la fine della guerra.
Sarebbe improprio affermare che la consapevolezza della Shoah si diffonda con le prime immagini dei campi di sterminio nazisti proiettate dall’americano Psychological Warfare Branch nei cinematografi romani nel 1945. Ancor più improprio sarebbe sostenere che quelle immagini abbiano determinato negli italiani una consapevolezza diffusa delle conseguenze ultime delle leggi antiebraiche del 1938. Né incise, nel 1947, la prima edizione di Se questo è un uomo di Primo Levi, rifiutata da Einaudi su suggerimento di Natalia Ginzburg e Cesare Pavese, e pubblicata quasi clandestina da un piccolo editore di Vercelli.

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Lo scivoloso crinale tra pregiudizio diffuso e antisemitismo reale
Se fosse disponibile un algoritmo capace di scandagliare l’intera letteratu- ra italiana della prima metà del Novecento, ma anche memorie, diari e carteggi inediti, l’elenco delle affermazioni imputabili o sospettabili di tradire un pregiudizio antisemita sarebbe probabilmente interminabile. Esiguo, al contrario, sarebbe quello delle affermazioni volte a contrastare l’antisemitismo, sia culturale sia politico. Avrebbe una utilità questa classificazione? Sì, se utilizzata per comprendere appieno un clima. Molto meno se si trasforma in un processo alle intenzioni, come se ogni affermazione possa ritenersi prodromica delle leggi antiebraiche o – addirittura – della Shoah, inevitabile e consapevole terreno di coltura della persecuzione. Potrebbe naturalmente spiegare l’indifferenza diffusa, che negli intellettuali talvolta si trasforma in attiva e opportunistica partecipazione alla campagna razzista di fine anni Trenta. È comunque opportuno tenere a mente l’ammonimento di Delio Cantimori ricordato da Alberto Cavaglion: «l’uso del vocabolo “razza” è stato anacronisticamente utilizzato come prova schiacciante per retrodatare, oltre ogni limite di serietà scientifica, il presunto razzismo strutturale dell’italiano medio».  All’epoca, va chiarito, il termine razza veniva utilizzato come sinonimo di popolo, il che vale anche per il giovane socialista Mussolini.

Procediamo comunque con qualche esempio. È noto che Gaetano Salvemini l’8 dicembre 1922 appunta nel suo diario: «Mayer è triestino ed ebreo: credergli sarebbe ingenuità». È lecito “impiccare” Salvemini a questa e ad altre battute? E sottolineare come ancora nel 1934 stentasse, da combattivo antifascista all’estero, a identificare Mussolini con Hitler in materia di antisemitismo? «Mussolini – scrisse – non ha mai scatenato in Italia un’ondata di antisemitismo paragonabile a quella cui stiamo assistendo oggi in Germania. […] L’equivalente italiano dell’antisemitismo tedesco è la persecuzione della massoneria».
«Triestino era sempre per lui sinonimo di ebreo», nota Giulio Cattaneo a proposito di Carlo Emilio

Carlo Emilio Gadda

Gadda, affrettandosi a precisare: «Gadda non era antisemita». Vero? Falso? Parliamo del Gadda della feroce invettiva post-bellica contro un Mussolini, che nella vulgata lo fa annoverare tra le «firme sideralmente lontane dal regime». Un Mussolini sbeffeggiato come «Priapo Ottimo Massimo» e «Maccherone Maramaldo» in un florilegio che non contempla – per dire – un “Maramaldo Antigiudeo”.
Sono ben note le pagine scritte dall’ingegnere nel Racconto italiano di ignoto del novecento, nelle quali gli ebrei – che «mi sono poco simpatici» – «ad un tempo sono banchieri, democratici, framassoni e filantropi, soprattutto israeliti. Banchieri per istinto, filantropi per convenienza (nel senso largo e buono della parola), democratici per necessità».
È invece forse sfuggito ai più questo passaggio di Gadda, che il 25 novembre 1915 annota nel suo diario: «Alla mensa conobbi […] l’antipaticissimo, pretensioso, presuntuoso cap. Niccolosi, ebreo. È strana l’intuizione che ho degli ebrei: li conosco di colpo, al solo guardarli, prima ancora di avvicinarli: non ho nessuna speciale avversione per loro, ma questo Niccolosi deve essere un cane». Più o meno come il commissario di polizia che a Fontanay-le-Comte, nella Francia occupata, indaga sul belga Georges Simenon e sospetta: «– Lei è ebreo!» […] «Non mi sbaglio mai, io. L’ebreo lo sento al fiuto…».
Gadda – iscritto al Pnf dal 1921 – era dunque antisemita? Certo è che il Giornale di guerra viene pubblicato solo nel 1955, peraltro dopo un attento lavoro di revisione, al fine di evitare citazioni di persone che potrebbero restarne offese. Se ne può dedurre che Gadda, a dieci anni dalla fine della seconda guerra mondiale, non ritiene di dover espungere quella frase nota solo a lui. Probabilmente la considera una battuta innocua mentre – come si è detto – la percezione di quanto era accaduto faticava a affermarsi anche nel ceto intellettuale.

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Il testo completo del saggio in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. XXX, 2018, pp. 55-76.

Sentimento ostile, Zentralgebiet e criterio del politico

Carl Schmitt

di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

Scrive Clausewitz, nelle prime pagine del Vom Kriege, che la guerra, sotto l’aspetto delle di essa tendenze principali si presenta come un triedro composto:
«1. Della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;
2. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
3. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.
La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni».
E poco prima sostiene che «Quanto più grandiosi e forti sono i motivi della guerra, quanto maggiormente essi abbracciano gli interessi vitali dei popoli, quanto maggiore è la tensione che precede la guerra, tanto più que- sta si avvicina alla sua forma astratta, tanto maggiore diviene la collimazione fra lo scopo politico e quello militare».
Da questi e da altri passi del Vom Kriege emerge che il “sentimento ostile” e la violenza originale dell’odio e dell’inimicizia è del “triedro” l’elemento che più contribuisce all’intensità e alla determinazione dello sforzo bellico.
Secondo Carl Schmitt «I concetti di amico e nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche, morali e di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico- privato», perché «Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere». Il nemico è solo pubblico come già era scritto nel Digesto. La contrapposizione politica è la più intensa ed estrema; non è limitata all’esterno dell’unità politica, anche se all’interno è relativizzata ossia è lotta e non guerra; se diviene questa mette in forse l’unità politica. La guerra è in se un mezzo politico e non può che essere tale «sarebbe del tutto insensata una guerra condotta per motivi «puramente» religiosi, «puramente» morali, «puramente» giuridici o «puramente» economici». Tuttavia «contrasti religiosi, morali e di altro tipo si trasformano in contrasti politici e possono originare il raggruppamento di lotta decisivo in base alla distinzione amico-nemico. Ma se si giunge a ciò, allora il contrasto decisivo non è più quello religioso, morale od economico, bensì quello politico»; e prosegue «Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici».
Nello scritto L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni Schmitt sostiene (e ciò presenta interesse anche per il “contenuto” del politico) che l’Europa ha cambiato dal XVI secolo più volte il proprio centro di riferimento; il quale è passato dal teologico al metafisico, da questo al morale- umanitario e poi all’economico.

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Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. XXX, 2018, pp. 135-149.

Ancora pochi giorni per partecipare al bando per ricerche sull’opera di Spirito e De Felice

Scade alle 17.00 del 31 agosto 2019 il termine per partecipare alla selezione indetta dalla Fondazione per nuove ricerche sull’opera di Ugo Spirito e Renzo De Felice, dei quali ricorre rispettivamente il quarantesimo anniversario della morte e il novantesimo anniversario della nascita.

Ecco il testo del bando:

1. Nell’ambito del programma delle attività istituite per celebrare il quarantesimo anno dalla scomparsa di Ugo Spirito (28 aprile 1979) e il novantesimo della nascita di Renzo De Felice (8 aprile 1929), la Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice di Roma bandisce un concorso destinato a neolaureati.
2. Possono prendere parte al concorso i cittadini italiani che siano in possesso di laurea specialistica o magistrale conseguita a partire dal 1° gennaio 2015 ed entro, e non oltre, la data di pubblicazione del presente bando.
3. Si può partecipare presentando progetti di ricerca che mirino alla riscoperta, approfondimento e valorizzazione dell’opera del filosofo Ugo Spirito o dello storico Renzo De Felice, esaminati anche nel più ampio contesto della cultura italiana ed europea del Novecento. Pertanto, le ricerche potranno essere svolte lungo due indirizzi di studio, filosofico e storico. Sarà altresì possibile svolgere uno studio di taglio interdisciplinare, al contempo storiografico e filosofico, sempre e comunque inteso a valorizzare le fonti documentarie, bibliotecarie e archivistiche, presenti presso la Fondazione.
4. Il concorso prevede la selezione da parte del Comitato scientifico dei primi dieci migliori progetti di ricerca. Una volta selezionati, e comunicata la decisione ai diretti interessati, i progetti dovranno essere elaborati e redatti nell’arco di quattordici mesi (dal 1° ottobre 2019 al 30 novembre 2020). Tra questi dieci elaborati finali (di lunghezza non inferiore alle 50.000 battute – spazi inclusi –; più dettagliate norme redazionali verranno comunicate in seguito ai dieci selezionati) il Comitato scientifico premierà le tre ricerche valutate più valide per rigore scientifico ed originalità interpretativa. Il premio consisterà nell’assegnazione di tre borse di studio, dell’ammontare rispettivamente di 1000 euro per il primo classificato, e di 750 euro ciascuno per il secondo e terzo classificato.
5. Gli altri sette progetti di ricerca selezionati, realizzati e consegnati, ma non premiati, saranno oggetto di ulteriore valutazione da parte del Comitato scientifico per eventuale pubblicazione a cura della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.
6. I concorrenti dovranno presentare, unitamente alla domanda di ammissione al concorso, un dettagliato progetto di ricerca di circa 5mila battute (spazi inclusi) corrispondente alle tematiche di cui al punto 3 e contenente adeguate indicazioni sulle fonti, le metodologie e gli obiettivi scientifici della ricerca, oltre ad una preliminare bibliografia di riferimento.
7. La domanda di ammissione al concorso e il progetto di ricerca dovranno essere inviati, entro e non oltre le ore 17,00 del 31 agosto 2019, alla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice esclusivamente come documenti in formato word al seguente indirizzo e-mail: info@www.fondazionespirito.it.

Fiume cento anni dopo: convegno internazionale al Vittoriale

Nel centenario dell’impresa di Fiume, dal 5 al 7 settembre 2019 si terrà al Vittoriale degli Italiani a Gardone Riviera  il convegno internazionale “Fiume 1919-2019. Un centenario europeo tra identità, memorie e prospettive di ricerca”.

I lavori saranno articolati in tre giornate e gli atti pubblicati a cura della Fondazione Vittoriale degli Italiani. Gli interventi si concentreranno sull’influenza dell’Impresa fiumana sulla politica e sulla memoria, attraverso un approccio comparato tra storiografia italiana e croata.

Tra i relatori Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, Roberto Chiarini, componente della Commissione Scientifica della Fondazione ed Ester Capuzzo, componente del Comitato scientifico degli “Annali” della Fondazione.

Chiuderà il convegno una tavola rotonda coordinata dal presidente Giordano Bruno Guerri cui parteciperanno gli storici Ernesto Galli della Loggia, Alessandro Barbero, Francesco Perfetti e Maurizio Serra.

Come sottolinea un comunicato, <Il Vittoriale, la dimora monumentale dove Gabriele d’Annunzio abitò dal 1921 alla morte, conserva la più vasta raccolta di fonti riguardanti la storia dell’Impresa. La Fondazione intende promuovere la riscoperta di questo capitolo del Novecento. A Fiume d’Annunzio fu Comandante di una ribellione e capo del movimento politico chiamato “fiumanesimo”. Fu un episodio capace di fondere patriottismo e rivoluzione, il culto dannunziano della bellezza e dell’innovazione culturale, politica e sociale. Un episodio che fu successivamente incluso nella mitologia del fascismo, che si impadronì della sua epopea, dei suoi riti e dei suoi simboli.

La Fondazione intende restituire all’Impresa fiumana la sua complessità storica, condividendo tale riscoperta con la città di Fiume – Rijeka. L’obiettivo è promuovere lo scambio tra ricercatori italiani e croati, nella speranza di sostenere una nuova stagione di studi sul Novecento attraverso una lente internazionale ed europea>.

Il programma

5 settembre

Ore 10.00-13.00

Le identità di Fiume

Moderatore: Francesco Perfetti

Raoul Pupo – La questione di Fiume e le vicende del confine orientale

Ester Capuzzo – Da Corpus Separatum a provincia italiana. Amministrazione e legislazione a Fiume (1919-1924).

Giovanni Stelli – Irredentismo e autonomismo a Fiume

Giuseppe Parlato – L’economia di Fiume durante l’Impresa dannunziana

Erwin Dubrovic – Il “Gabbiano” contro d’Annunzio. Una testimonianza di Milan Marjanovic riguardo una congiura croata

Natka Badurina – L’episodio dannunziano nella luce di alcuni documenti degli archivi fiumani

Ore 13.10

Inaugurazione della mostra “La Città inquieta e diversa” al Cavalcavia in Piazzetta Dalmata

Ore 15.00-18.00

Immagini da una ribellione

Moderatore: Roberto Chiarini

Stefano Bruno Galli – L’irredentismo trentino e l’Impresa fiumana

Vjeran Pavlacovic – D’Annunzio and Fiume: representations in the Yugoslav and US press 1919-1921.

Roberto Chiarini – Carlo Reina, il “Ragionevole”

Emanuele Cerutti – Consenso e dissenso nell’esercito dannunziano

Emiliano Loria – La questione dell’infanzia nella Fiume dannunziana

Dominique Reill – How to survive in an Holocaust city. Fiume and d’Annunzio

Simone Colonnelli – Liturgie nazional-cattoliche: padre Giuliani a Fiume

6 settembre

Ore 10.00-13.00

La città dell’utopia

Moderatore: Giovanni Stelli

Claudia Salaris – Artisti e libertari a Fiume

Matteo Pasetti – Sindacalismo e corporativismo nella Carta del Carnaro: l’utopia fiumana nell’Europa del dopoguerra

Carlo Leo – I letterati a Fiume

Silvia Zanlorenzi – Un giapponese a Fiume. Harukici Shimoi

Valentina Raimondo – Gli artisti che contribuirono ai simboli dannunziani

Simonetta Bartolini – Yoga, una rivista e un movimento nella Fiume dannunziana

Ore 15.00-18.00

L’eco dell’Impresa

Moderatore: Ernesto Galli Della Loggia

Marco Cuzzi – “La nostra bandiera è la più alta”: la politica “esteriore” di d’Annunzio e la Lega di Fiume.

Aldo A. Mola – La Massoneria e la questione fiumana

Paolo Cavassini – I repubblicani e la questione fiumana, fra “diciannovismo” e intransigenza

Francesco Perfetti – D’Annunzio e Mussolini

Alberto Mingardi – Il capitalismo italiano e l’Impresa fiumana

7 settembre

I tragitti della memoria

Moderatore: Paolo Cavassini

Alessio Quercioli – “Tener viva in Italia la fiamma dell’ideale”, la Federazione Nazionale dei Legionari Fiumani nell’Italia del Primo dopoguerra e i suoi rapporti con il fascismo.

Federico Carlo Simonelli – L’Impresa fiumana nella memoria pubblica del fascismo

Elena Ledda – Memorie fiumane negli archivi del Vittoriale

Marino Micich – L’Impresa di d’Annunzio e la città esule. Echi e suggestioni dannunziane nella costituzione del Libero Comune di Fiume in esilio (1966-1969)

Tea Perincic – Due mostre sull’Impresa di Fiume a Rijeka

Barbara Bracco – Scatti della rivoluzione. Fatti e personaggi dell’Impresa fiumana nella fotografia.

Ore 15.00-18.00

Bilancio storiografico (tavola rotonda)

Moderatore: Giordano Bruno Guerri

Ernesto Galli della Loggia

Alessandro Barbero

Francesco Perfetti

Maurizio Serra

Stefano Bruno Galli

Ore 21.00

Spettacolo “Il Piacere” con Debora Caprioglio al Laghetto delle Danze

Info: http://web.vittoriale.it

Divenire storico e conservazione

Niccolò Mochi-Poltri, Società. Divenire storico e conservazioneIntroduzione di Franco Cardini, Nazione Futura, Roma-Cesena 2018//

Assai spesso si sente parlare della gioventù odierna con toni che vanno dal biasimo alla commiserazione. Elementi fattuali non mancano per alimentare giudizi di segno negativo. Ogni volta che si ascolta o legge notizia di giovani che sbagliano, immediatamente mi chiedo però chi sono stati gli adulti dietro e intorno a loro, se ne hanno o meno accompagnato un processo di crescita. Per fortuna non esiste solo la cronaca che i mass media prediligono: quella nera, anzi nerissima. Esiste la vita di tutti i giorni, in cui hai l’occasione di incontrare e conoscere ventenni nelle cui passioni intravedi il senso compiuto di alcune riflessioni che José Ortega y Gasset vergava tra 1929 e 1931.

Scriveva il pensatore spagnolo, rispondendosi alla domanda “che cos’è la vita?”: «Affermo, quindi, che io ora sono insieme futuro e presente. Questo mio futuroesercita una pressione sull’ora e da questa pressione sulla circostanza scaturisce la mia vita presente». E concludeva, provvisoriamente: «io sono chi inesorabilmente esige d’essere realizzato, quantunque sia impossibile la sua realizzazione = io sono… vocazione».

Come insegnante ho il privilegio di incontrare tali vocazioni, e di provare ad intuirle, suscitarle, rafforzarle. Perché è così che si semina il bene di domani. Che è bene nella misura in cui si afferma la costruzione contro la distruzione, il vivo pensiero storico contro l’immobilismo di una ragione spenta, l’entusiasmo creativo contro la rassegnazione e l’apatia.

Tra i vari incontri che incoraggiano a ben sperare c’è questo testo di piccolo formato, ma che racchiude molta generosità di pensiero e desiderio di comprensione delle radici del proprio tempo. L’autore ha 27 anni. Si chiama Niccolò Mochi-Poltri. Sin dal titolo del libretto si chiariscono i termini delle questioni che ne hanno motivato la stesura: la genesi e il destino della società, di ogni società, sono racchiusi tra divenire storico e istinto di conservazione. Racchiusi come dentro un campo magnetico, qualcosa capace di trattenere a lungo una forma, ma sempre a rischio di perdere presa, disgregarsi, spegnersi. Questo libro è un vademecum, letteralmente.

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Danilo Breschi

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n.1, 2019, nuova serie, a. XXXI

L’attentato a Togliatti e la rivoluzione mancata

Giuseppe Pardini, Prove tecniche di rivoluzione. L’attentato a Togliatti, luglio 1948, Luni Editrice, Milano 2018//

di Alberto Mario
Sono trascorsi poco più di settanta anni dal grave attentato perpetrato il 14 luglio 1948 ai danni del segretario del Partito comunista italiano Palmiro Togliatti da un giovane nazionalista Antonio Pallante, iscritto all’Uomo qualunque, ma ancora non era stata fatta piena luce sulle attività insurrezionali del PCI dei giorni successivi.
Ad aprire uno squarcio sulle vicende avvenute nel luglio 1948 abbiamo finalmente a disposizione lo studio, da poco apparso in libreria, realizzato da Giuseppe Pardini, che spiega le origini dei gravi disordini avvenuti, fra il 14 e il 17 luglio dello stesso anno, dopo l’arresto dell’attentatore, grazie all’utilizzo dei documenti provenienti dagli uffici di informazione dello Stato maggiore dell’esercito, che ci permettono di fare maggiore chiarezza sulle violenze di quei giorni di luglio e sul ruolo del PCI.
Finora, la vulgata ufficiale aveva ribadito che i moti di protesta in tutta Italia erano avvenuti spontaneamente, non avendo – a detta della storiografia – alcuna finalità eversiva e senza alcuna organizzazione alle spalle. Ma i documenti utilizzati da Pardini dimostrano che i moti furono il prodotto di un’azione insurrezionale organizzata dalla struttura paramilitare del PCI, che mise a dura prova la tenuta del nuovo sistema democratico, a pochi mesi dall’avvio della prima legislatura.

[…]

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2019, n. 1, nuova serie, a. XXXI, pp. 339-342.

Quella voglia di libertà che da Praga brucia ancora

di Danilo Breschi

 

Juan Palach

//Farsi torcia umana per scuotere le coscienze, per svegliare l’anelito di libertà sopito nei cuori impauriti del proprio popolo schiacciato dal potente invasore straniero. Era il 19 gennaio del 1969. Esattamente cinquant’anni fa. Moriva alle ore 15:30, dopo tre giorni di agonia. 73 ore, per la precisione. Il suo nome era Jan Palach. Studente di filosofia, era nato a Praga l’11 agosto del 1948, Aveva dunque vent’anni da poco compiuti, quando vide i carri armati del Patto di Varsavia, inviati da Mosca per porre fine a quell’esperimento cecoslovacco di riforme e introduzione di libertà civili e politiche che è passato alla storia con il nome di “Primavera di Praga”. Il 20 agosto del ’68 la Cecoslovacchia era invasa e Mosca ne ribadiva la condizione servile di satellite dell’imperialistica Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS).
Nel tardo pomeriggio del 16 gennaio 1969 Jan si recò in piazza San Venceslao, al centro di Praga. Si cosparse il corpo di benzina e si appiccò il fuoco con un accendino. Questo fu il suo modo di protestare contro l’occupazione sovietica. Nelle 73 ore di agonia Jan ebbe alcuni momenti di lucidità, tanto da avere notizia dell’eco internazionale che quel suo gesto estremo aveva suscitato. Riuscì anche a rilasciare alcune interviste. Pochissime parole, esalate dal suo corpo ustionato quale testamento delle ragioni che portarono ad un simile martirio.

[…]

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2019, n. 1, nuova serie, a. XXXI, pp. 305-309.

Autoritarismo(s), clases medias y el problema de las generaciones

di Ana Grondona//

El texto que presentamos (“Ceti e generazioni alla vigilia della Marcia su Roma”) forma parte del Fondo documental de Gino Germani, custodiado por la Fondazione Ugo Spirito e Renzo de Felice. Este sociólogo ítalo-argentino (1911-1979) ha sabido cosechar, al menos hasta ahora, más interés entre públicos latinoamericanos que europeos. Sin embargo, buena parte de sus preguntas e intuiciones mantienen una inocultable vigencia a ambos lados del Atlántico. Si en el caso de la Argentina, país en el que, quizás, su inter vención en el campo cultural haya resultado más prolífica, nos enfrentamos al desafío de desestabilizar ciertos clichés con los que suele asociarse su figura (por ejemplo, como mero “importador” de la sociología funcionalista), en el caso de Italia el reto es atraer la atención sobre su trabajo. Paradójicamente, el éxito de su trayectoria latinoamericana parece haberlo relegado, frente a algunos ojos, al papel de sociólogo estricta y estrechamente ocupado en asuntos exóticos. Por el contrario, su trajín de (doblemente) exiliado lo convierte, para miradas más dispuestas a romper con el eurocentrismo, en un sociólogo universal. Al decir del filósofo latinoamericano Eduardo Grüner (2010) la periferia, de la que (a su modo) Germani hizo su punto de vista, constituye una perspectiva privilegiada, pues desde allí puede observarse el todo (por caso, la modernidad capitalista), la parte (por caso, lo que otrora se denominaban los “países semi-coloniales”, “periféricos” o “dependientes”) y la relación entre ambos.
Por cierto, Germani fue un autor “obligado” a la traducción en múltiples sentidos. La experiencia imborrable del exilio, tal como ha señalado agudamente Ana Germani (2015), lo impulsó a la comparación entre culturas, historias y experiencias.

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Ceti e generazioni alla vigilia della Marcia su Roma

di Gino Germani

La crisi del primo dopoguerra fu l’espressione di un profondo “spostamento” di tutti gli strati sociali e specialmente delle generazioni più giovani – sul piano psicologico, economico, politico e sociale. Anche se fortemente aggravato da caratteristiche proprie dello sviluppo storico dell’Italia, si trattava di un fenomeno comune a molti paesi. Due componenti strettamente intrecciati sono la sua radice. Il più visibile, il trauma della guerra, si inseriva in un processo di lunga durata. Al vertice della piramide sociale, la crescente concentrazione tecnico-economica e l’incipiente trasformazione della classe politica con l’emergere dei primi partiti di massa. Alla base, una potente spinta verso la conquista dei pieni diritti, nell’ordine politico, economico e sociale, in cui erano coinvolte tutti gli strati popolari, compresi gli agricoli. Al centro infine, il declinare di settori arcaici, il sorgere di nuovi, e soprattutto, il contraccolpo dei mutamenti ai due estremi. Per i ceti medi, minacciati dall’alto e dal basso, non si trattava solamente di perdite economiche, ma anche di potere politico e di prestigio. La guerra aveva accelerato il processo: l’immersione delle classi popolari nella vita nazionale, culminata politicamente con il suffragio universale e lo spettacolare aumento dell’organizzazione sindacale, si rendeva socialmente più visibile con la partecipazione attiva di settori fino allora del tutto marginali.

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I testi completi del saggio di Ana Grondona e dell’inedito di Gino Germani in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2019, n. 1, nuova serie, a. XXXI, pp. 257-276.