Antonio Saccà, Il padre di Dio (Edizione Bietti Media, 2009) con Luciano Lanna

Giovedì 6 maggio 2010, nell’ambito degli incontri “Un libro, un autore, tra storia e attualità“, la Fondazione Spirito ha presentato il volume di Antonio Saccà, Il padre di Dio (Bietti Media, 2009).

L’incontro è stato introdotto dal presidente della Fondazione Spirito, Giuseppe Parlato, che ha spiegato come il filo conduttore delle tre parti del libro sia costituito da un’analisi del rapporto fra male e umanità. Parlato ha inoltre evidenziato i molti elementi in comune con il pensiero di Ugo Spirito, che Saccà ebbe modo di conoscere e frequentare.

L’autore ha dunque approfondito le singole parti del suo lavoro. La prima si interroga su cosa ci sia all’origine di Dio (analisi da cui ha origine il titolo), toccando il tema del rapporto tra l’uomo e le religioni. A tal proposito, Saccà ha riconosciuto l’importanza della dimensione storica delle religioni, testimoniata dall’impianto “estetico” (riti, simboli e sacralità) da esse elaborato, alla quale però non corrisponderebbe una sincera adesione valoriale.

Affrontando la seconda parte del libro, l’Autore ha invece approfondito il tema della presenza del “male” in economia, espressa dall’attuale degenerazione del sistema capitalistico, impegnato in una ricerca del profitto anche a danno della comunità.

Passando alla terza parte, Saccà ha parlato della collocazione dell’Unione Europea nel nuovo quadro internazionale, esprimendo il desiderio per un rafforzamento dei rapporti tra Europa e Russia, sulla base di tre motivazioni: il fatto che gli Stati Uniti non sarebbero più in grado di aiutare il Vecchio Continente, la complementarità delle economie europee e russa e, infine, il fatto che anche Mosca si trova a dover fronteggiare l’avanzata della vicina la religione islamica.

 

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Michela Nacci, Storia culturale della Repubblica (Bruno Mondadori) con Giovanni Dessì

Venerdì 9 aprile 2010, nell’ambito degli incontri Un Libro un Autore fra storia e attualità, la Fondazione Ugo Spirito ha presentato il volume di Michela Nacci, Storia culturale della Repubblica (Bruno Mondadori).

L’incontro è stato introdotto da Giovanni Dessì che ha sottolineato come il punto di forza di questo libro consista nel “mappare” i punti nodali del dibattito culturale italiano dal secondo dopoguerra ad oggi, rifuggendo da un’impostazione ideologica o accademica.

Michela Nacci ha poi spiegato le ragioni che l’hanno spinta ad intraprendere questo lavoro. Innanzitutto l’assenza di una storia della cultura italiana nell’epoca della Repubblica, che si fondi su una visione interdisciplinare, in grado quindi di cogliere il progressivo allargamento di ciò che è “cultura” fino a settori non tradizionali come la musica e la cucina.

In secondo luogo, l’esigenza di ripercorrere l’evoluzione degli strumenti di diffusione della cultura, dagli originari ambiti della scuola e dell’università fino alla televisione ed internet, per tentare di comprendere come, in funzione degli strumenti, siano stati modificati gli stessi contenuti culturali.

In terzo luogo, il desiderio di comprendere le trasformazioni determinate sulla cultura alta dall’affermarsi della cultura di massa.

La Nacci ha poi ripercorso alcuni dei momenti cruciali della dibattito culturale italiano: il confronto con il fascismo, che ha coinvolto, con prospettive diverse, Bobbio, Garin, Del Noce e De Felice; il rapporto tra gli intellettuali e la modernizzazione economica e sociale degli anni Sessanta; la complessa reazione del mondo della cultura di fronte all’avvento dell’elettronica e dei nuovi mezzi di comunicazione.

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Alessandro Orsini, Anatomia delle Brigate Rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario (Rubbettino) con Giuseppe Parlato e Danilo Breschi

Giovedì 18 marzo 2010, nell’ambito degli incontri Un Libro un Autore fra storia e attualità, la Fondazione Ugo Spirito ha presentato il volume di Alessandro Orsini, Anatomia delle Brigate Rosse. Le radici ideologiche del terrorismo rivoluzionario (Rubbettino).

L’incontro è stato introdotto da Giuseppe Parlato e Danilo Breschi, che hanno sottolineato come il volume tenti di giungere alla radice del fenomeno terroristico (sia “rosso” che “nero”), seguendo un’analisi sociologica ed antropologica.

Prendendo la parola, Orsini ha innanzitutto criticato le tre interpretazioni (complottista, stragista e del “blocco di sistema”) che avrebbero minato la comprensione del fenomeno brigatista in Italia ed in particolare le motivazione della sua longevità.

Passando ai contenuti del lavoro, l’autore ha spiegato di averlo articolato in tre parti:
1) chi sono i brigatisti;
2) perché uccidono;
3) da dove vengono.

La prima parte consiste in una descrizione della vita quotidiana dei brigatisti e di come si è strutturato il loro movimento.

Passando alla seconda, Orsini ha esposto la sua teoria del feedback eversivo-rivoluzionario, che attraverso una ricostruzione psicologica del terrorista, ne rintraccia la motivazione ad uccidere nella volontà di “purificare” il mondo dalle ingiustizie.

Orsini si è posto dunque in radicale contrapposizione con la tesi secondo cui è possibile spiegare in maniera razionale il fenomeno terroristico. Al contrario – e passando alla terza parte della ricerca – ha spiegato che il sistema di pensiero dei brigatisti coincide con quello dei militanti delle sette religiose rivoluzionarie, ossessionati dalla purezza e dalla convinzione che esistano degli eletti chiamati a salvare un mondo sull’orlo di uno scontro apocalittico tra le forze del bene e del male. È da questa tradizione mistico-religiosa che proverrebbero le Br.

 

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Tavola rotonda, Città, regione, nazione: spazi politici e dimensioni territoriali nella storia d’Italia.

 Tavola rotonda 

Città, regione, nazione: spazi politici e dimensioni territoriali nella storia d’Italia.

Hanno partecipato: Mario Ascheri (Università di Roma Tre), Dino Cofrancesco (Università di Genova), Luca Mannori (Università di Firenze) e Giuseppe Parlato (Presidente Fondazione Ugo Spirito).

Giovedì 25 febbraio 2010, la Fondazione Ugo Spirito ha organizzato una tavola rotonda dal titolo “Città, regione, nazione: spazi politici e dimensioni territoriali nella storia d’Italia“. Hanno partecipato Mario Ascheri (Università di Roma Tre), Dino Cofrancesco (Università di Genova), Luca Mannori (Università di Firenze). Per la Fondazione Spirito sono intervenuti Danilo Breschi e Giuseppe Parlato.

I lavori sono stati introdotti da Danilo Breschi, che ha sottolineato l’interdisciplinarietà dei relatori e dunque dell’approccio seguito per mettere a fuoco il ruolo dalla dimensione territoriale nella storia d’Italia.

L’intervento di Mario Ascheri si è soffermato sull’esperienza tardo medioevale delle città-stato, le cui tracce sono visibili ancora oggi. Secondo Ascheri, ciò è dovuto al fatto che i comuni sono riusciti a sopravvivere, con le loro tradizioni, anche nel periodo degli Stati regionali. Alcune dominazioni, come quella veneziana, non attuarono una politica di assimilazione di questi centri, con il risultato di rafforzare l’identità dei dominati in contrapposizione al potere centrale dominante.

Altri elementi sopravvissuti all’esperienza delle città-stato caratterizzano invece il dibattito politico. La città urbana, infatti, si è sempre caratterizzata per la ricerca di una concordia totale, che esclude il pluralismo degli orientamenti. Il linguaggio politico è così contraddistinto da messaggi universali, generalizzanti, predominanti ancora oggi.

L’intervento di Dino Cofrancesco ha evidenziato che l’esperienza delle città-stato si ricollega alla tradizione democratica, non a quella liberale, perché non ha mai previsto alcuna difesa dei diritti individuali. Si tratta di un aspetto centrale perché quando si riprende il pensiero di Cattaneo e la sua concezione del federalismo, occorre sottolineare che, da buon liberale quale era, l’esperienza a cui egli si ricollegava non era quella delle città-stato ma del Belgio e dell’Olanda. Passando al dibattito attuale, Cofrancesco ha dunque sottolineato che per il pensiero liberale il vero problema non è la localizzazione del centro di potere politico, ma i limiti di questo potere nei confronti dell’individuo.

Luca Mannori ha aperto il suo intervento concordando con Cofrancesco e sottolineando che per secoli il concetto di libertà non è stato concepito nel rapporto tra individuo e Stato, ma nel rapporto tra città-stato o comunque comunità urbana e potere centrale, confondendo il concetto di libertà con quella che in realtà era una forma di autonomia. Nella seconda parte dell’intervento si è invece focalizzato sul persistere della tradizione delle città-stato anche nell’epoca degli Stati regionali. Questo pone un problema storiografico rilevante (ed ancora inesplorato) determinato dalla necessità di comprendere il passaggio da forti identità locali alla nascita dell’identità nazionale.

Infine, Giuseppe Parlato ha confrontato l’esperienza italiana con quella europea, evidenziando che se nel resto del continente gli Stati nazionali si sono formati nel ‘300, in Italia si è cominciato a parlare di nazione solo nel 1848. Ciò è all’origine di una debolezza del sentimento nazionale in Italia, cui fanno da contraltare forti identità locali. Dal Trecento, in Italia, è esistita solo una “nazione letteraria” – nel senso della presenza di una lingua comune utilizzata nella cultura e negli scambi commerciale. La religione cattolica ha invece agito da elemento unificante ma non identitario. In sostanza, per secoli sono mancati elementi che potessero permettere la nascita di un’identità nazionale prevalente sulle identità locali rappresentate dalle città-stato. Rifacendosi agli studi di Rosario Romeo, Parlato ha dunque spiegato che la nascita di uno Stato nazionale nella seconda metà dell’Ottocento fu percepita dalla borghesia come necessaria per la crescita economica e all’avvio del processo di industrializzazione. Al momento di scegliere tra l’opzione federalista ed uno Stato nazionale centralizzato, la classe dirigente optò per quest’ultima tipologia proprio perché cosciente che la debolezza del sentimento nazionale sarebbe stata incompatibile con una strutturazione federalista.

 

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Stefano Biguzzi, Cesare Battisti (Utet, 2009) con Franco Tamassia

Mercoledì 10 febbraio 2010, nel quadro degli incontri “Un libro, un autore tra storia e attualità“, è stato presentato il libro di Stefano Biguzzi, Cesare Battisti (Utet, 2008).

Ha introdotto l’incontro Franco Tamassia che ha ricordato come il volume di Biguzzi sia la prima opera sistematica dedicata a Cesare Battisti, che comprenda sia la figura del patriota, dell’eroe e del martire della patria, sia la figura del politico socialista. Attraverso la lente di Battisti, il libro riesce a dipingere un grande affresco della prima parte della storia d’Italia sotto molteplici aspetti (politici, economici, sociali e della storia culturale) e contribuisce alla demitizzazione del “buongoverno” austriaco.

Prendendo la parola, Biguzzi ha innanzitutto spiegato la strumentalizzazione della figura di Battisti che è stata compiuta prima dal fascismo, che lo ha trasformato in un’icona del nazionalismo e dell’imperialismo, e poi dalla resistenza partigiana, che ne ha utilizzato le posizioni antigermaniche nell’ambito della lotta contro il nazismo.

Come ha evidenziato l’Autore, si tratta di due strumentalizzazione che, fino ad oggi, hanno reso impossibile la corretta comprensione della figura battistiana. “Ultimo eroe del Risorgimento”, Battisti durante la prima guerra mondiale si schierò a favore dell’intervento in guerra con l’obiettivo di emancipare la popolazione italiana dal giogo della tirannia asburgica. Ma ciò non significa che egli deviasse verso il nazionalismo o addirittura su posizioni imperialistihe, dal momento che il suo orientamento patriottico si sposò sempre con un socialismo “umanitario” che aveva a cuore la sorte dei più deboli.

Biguzzi ha poi esaminato il rapporto tra Battisti ed altre due figure chiave della storia d’Italia. La prima è quella del Mussolini socialista, internazionalista e fortemente anticlericale che soggiornò diversi mesi a Trento nel 1909 e collaborò con il “Popolo” diretto proprio da Battisti. La seconda è Alcide De Gasperi, di cui Biguzzi ha fornito un’interpretazione opposta rispetto alla tradizionale agiografia che ne ha fatto sin da giovane un “eroe” della patria. Il giovane De Gasperi descritto da Biguzzi è soprattutto un cattolico – tra l’altro formatosi in un ambiente fortemente antisemita come quello viennese – ed in quanto tale rispettoso suddito della dinastia asburgica.

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Lorenzo Cuocolo, Tempo e potere nel diritto costituzionale (Giuffrè, 2009) con Danilo Breschi

Giovedì 27 gennaio 2010, nell’ambito degli incontri “Un libro, un autore tra storia e attualità“, è stato presentato il volume di Lorenzo Cuocolo, Tempo e potere nel diritto costituzionale (Giuffré, 2009).

L’incontro è stato introdotto da Danilo Breschi, che ha sottolineato come il volume di Cuocolo, pur partendo da solide basi di diritto costituzionale, segua la strada intrapresa in età più matura da Kelsen e Carl Schmitt, mescolando varie discipline, tra cui diritto, storia, letteratura, sociologia e antropologia.

Prendendo la parola, Cuocolo ha spiegato di voler indagato lo stretto legame esistente tra tempo e potere, ipotizzando che se si vuole mantenere un tasso di costituzionalità costante, all’aumentare del potere occorre aumentare anche la garanzie costituzionali.

Per verificare l’esattezza di questo assunto, il libro ricostruisce innanzitutto dal punto di vista storico il rapporto tra tempo e potere, partendo dalla Magna Carta (1215). Con questo documento, emerge nella storia costituzionale il concetto di limitazione del potere sovrano mediante strumenti temporali di varia natura: dalle consuetudini a embrionali forme di disciplina dei procedimenti, che si contrappongono all'”istantaneità” e dunque all’arbitrarietà del potere sovrano. Un secondo importante passo per il rafforzamento delle garanzie temporali contro l’esercizio del potere fu compiuto sempre in Inghilterra nel 1641, con l’emanazione del Triennal Act, in base al quale il Parlamento sarebbe stato convocato ogni tre anni. Nell’ambito di questa ricostruzione storica l’Autore ha richiamato l’attenzione anche sull’esperienza francese, dove la mancata convocazione degli Stati generali dal 1614 al 1788 è ulteriore testimonianza dell’intimo legame tra garanzie temporali e rappresentanza politica. Cuocolo ha poi sottolineato che il fattore temporale è un elemento centrale anche del costituzionalismo nord americano, dove si stabilisce, ad esempio, la periodica rieleggibilità dei poteri esecutivo e legislativo. Un criterio che invece è assente nei regimi totalitari, legati ad una sorta di “eterno presente”.

Infine, Cuocolo ha toccato un aspetto di grande attualità, soffermandosi sul rapporto tra tempo e istituzioni alla luce della globalizzazione. Al riguardo, ha evidenziato come la forte accelerazione dei rapporti socio-economici caratteristica del nostro tempo contrasti con la tradizionale lentezza delle istituzioni, favorendo quelle spinte che chiedono una modifica delle forme di governo in senso presidenzialista e monocamerale.

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Alessandra Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista (Il Mulino, 2009) con Giuseppe Parlato

Giovedì 14 gennaio 2010 nel quadro degli incontri “Un libro, un autore tra storia e attualità“, è stato presentato il libro di Alessandra Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista (Il Mulino, 2009).

L’incontro è stato introdotto da Giuseppe Parlato, che ha ricordato l’immagine controversa di Giovanni Gentile, guardata con sospetto anche da settori della destra, in particolare dagli ambienti evoliani, che lo consideravano “un pericoloso arnese della rivoluzione”. Affermazione successivamente comprovata dal percorso seguito dagli allievi di Gentile nel dopoguerra, quando tutti, o quasi, passarono al marxismo e al comunismo, continuando a seguire un orientamento rivoluzionario evidente già nel pensiero del maestro.

L’intervento della Tarquini ha dunque trattato del rapporto tra Gentile e i fascisti, con l’obiettivo di rispondere ad alcuni interrogativi: Gentile è stata l’unica vera espressione della cultura fascista, come sostenuto da Augusto Del Noce? Oppure, come ha sostenuto Eugenio Garin, il fascismo ha avuto una cultura ben definita che però era molto diversa da quella gentiliana?

L’Autrice ha sintetizzato la sua analisi suddividendola in due periodi temporali: gli anni ’20 e gli anni ’30.

Il primo è il decennio in cui ha origine il conflitto tra i fascisti e Gentile, a proposito della legge sulla riforma della scuola. Il progetto di Gentile – ministro dell’Istruzione nel primo governo Mussolini – si fondava sulla concorrenza tra istituti pubblici e privati nel settore dell’educazione, cozzando con il programma del partito che invece affermava il primato dello Stato. A prevalere fu comunque la posizione di Gentile e dei suoi allievi e collaboratori (Ernesto Codignola e Armando Carlini), che fino alla fine degli anni Venti riuscirono a respingere l’offensiva degli intransigenti, secondo cui il fascismo avrebbe dovuto abbattere ogni ponte con le ideologie e le figure della vecchia Italia liberale, per dar vita ad uno Stato nuovo.

La Tarquini ha poi evidenziato il mutamento dei rapporti di forza negli anni Trenta, quando molti allievi si allontanarono da Gentile per avvicinarsi a Giuseppe Bottai (su tutti Ugo Spirito), che riuscì a coinvolgere gli intellettuali nel percorso rivoluzionario invocato dagli intransigenti. In questo modo Bottai riuscì ad avviare un progetto volto ad identificare cultura e politica (a vantaggio ovviamente del secondo termine). Progetto che doveva trovare il suo compimento nell’adozione di una riforma sulla completa “fascistizzazione” della scuola, in sostituzione della legge Gentile. Si trattava di un disegno che coinvolse un fronte composto da antigentialiani ed ex-gentiliani, dimostrando, secondo l’Autrice, che se da una parte il fascismo non può essere incarnato nella figura di Gentile, dall’altra il pensiero del filosofo non ne può neanche essere escluso.

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Giuseppe Bedeschi, Liberalismo vero e falso (Le Lettere, 2009) con Stefano De Luca

Giovedì 12 novembre 2009 è stato presentato il volume di Giuseppe Bedeschi, Liberalismo vero e falso (Le Lettere 2009) con Stefano De Luca.

L’incontro è stato introdotto da Stefano De Luca, il quale ha ricordato come Bedeschi sia già stato l’autore di una Storia del pensiero liberale (Laterza, 1992) che al momento della sua pubblicazione andava a coprire un vuoto di studi nel settore. Successivamente sono poi usciti un gran numero di lavori in questo ambito ed il pensiero liberale si è affollato di presenze prima estranee, che ne hanno “intorbidito” il significato. Il volume di Bedeschi ha dunque l’obiettivo di individuare e separare il “vero” dal “falso” liberalismo.

Prendendo la parola, l’Autore ha prima di tutto sottolineato la difficoltà di riconoscere il vero pensiero liberale, ricordando come gli stessi classici del liberalismo (Locke, Montesquieu, Kant) non abbiano mai utilizzato questo termine per indicare un orientamento di pensiero. Per questo motivo Bedeschi ha affermato di non ritenere corretto l’approccio di Barberis, secondo cui la storia del liberalismo dovrebbe iniziare da quando certi pensatori hanno cominciato a definirsi “liberali”. Una seconda difficoltà evidenziata dall’Autore consiste nell’inquadrare il “vero” liberalismo a fronte della presenza di una molteplicità di posizioni che si fanno rientrare in questo quadro.

Al riguardo, rifiuta l’impostazione proposta da Nicola Matteucci, secondo cui non si potrebbe parlare di un “liberalismo”, ma di vari e diversi “liberalismi”. Per Bedeschi, l’uso al plurale del sostantivo starebbe comunque a dimostrare “l’esistenza di qualcosa di comune che ne giustifica l’uso e che dovrebbe dunque essere esplicitato”. Bedeschi propone così di delineare un tipo ideale di liberalismo derivandolo dalle varie e diverse forme che esso ha assunto nel corso della storia. Questo tipo ideale sarebbe contraddistinto dalla presenza di due elementi, sui quali avevano già richiamato la loro attenzione i classici:
1) la presenza di garanzie che il potere politico riconosce ai cittadini contro gli abusi del potere politico stesso a danno dei diritti naturali imprescindibili dell’uomo;
2) la tutela della proprietà privata. Individuati questi due elementi, secondo Bedeschi è gioco facile riuscire a “smascherare” i falsi liberalismi.

Come quelli proposti in Italia da Piero Gobetti e Norberto Bobbio, che consideravano la rivoluzione bolscevica e le democrazie popolari degli esperimenti liberali per il semplice motivo che si proponevano di liquidare delle situazioni di oppressione sociale, senza però considerare che esse andavano a cancellare proprio i due elementi che Bedeschi considera costitutivi dell’idealtipo liberale.

 

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Aldo G. Ricci, Pino Bongiorno, La rinascita dei partiti in Italia. 1943-1948 (Ugo Spirito/Edizioni Nuova Cultura, 2009) con Giuseppe Parlato

Giovedì 29 ottobre 2009 è stato presentato nell’ambito dei Giovedì della Spirito il volume di Aldo Giovanni Ricci e Pino Bongiorno, La rinascita dei partiti in Italia. 1943-1948 (Fondazione Ugo Spirito/Edizioni Nuova Cultura, 2009).

Ha introdotto l’incontro Giuseppe Parlato – presidente della Fondazione Ugo Spirito – che ha sottolineato come questo lavoro rappresenti il ritorno ad una “storia dei partiti” che mancava da molto tempo, dopo la ricca stagione degli anni Settanta. Parlato ha poi richiamato l’attenzione sugli elementi di interesse del volume: la lettura del periodo di transizione dal fascismo al post-fascismo effettuata dal punto di vista interno dei partiti; il ruolo centrale giocato dai partiti politici già nella fase costituente, che preannuncia il loro potere dopo il 1948; il plasmarsi di questi partiti sul modello del “partito tutto” fascista.

Ricollegandosi all’introduzione di Parlato, l’Autore ha affermato che “il momento migliore per scrivere una storia dei partiti è proprio ora che i partiti non esistono più”. Ricci ha dunque riassunto il contenuto del suo lavoro, chiarendo di aver circoscritto l’analisi al periodo 1943-48 proprio perché è quello della strutturazione del sistema di partiti destinato a dominare la scena politica italiana per quasi mezzo secolo. Ha poi spiegato che l’espressione “rinascita” dei partiti trova la sua ragion d’essere nel fatto che la maggioranza dei protagonisti di questa fase ha radici nell’Italia prefascista (PLI, PSI, PCI e DC, che si ricollegava all’esperienza del Partito Popolare) con alcune novità come il Partito d’Azione, l’Uomo Qualunque e i partiti di destra (monarchici e MSI).

Tuttavia, dopo l’esperienza fascista a dominare la scena furono (e non potevano che essere) i tre grandi partiti di massa (socialista, comunista e democristiano) che contrapponendosi alla concezione liberale lavorarono congiuntamente per plasmare uno Stato “pesante”, contraddistinto da una costituzione programmatica con le caratteristiche necessarie all’affermazione di una “repubblica dei partiti”: la debolezza degli esecutivi, che ne favoriva il controllo da parte dei dirigenti di partito, e la mancanza di una regolamentazione della vita dei partiti stessi.

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Roberto Pertici, Chiesa e stato in Italia, (Il Mulino) con Giuseppe Parlato

Giovedì 8 ottobre 2009 è stato presentato nell’ambito dei Giovedì della Spirito il volume di Roberto Pertici, Chiesa e Stato in Italia (Il Mulino).

L’incontro è stato introdotto da Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione Ugo Spirito. Parlato ha evidenziato alcuni aspetti del lavoro di Pertici, in particolare l’approfondimento del problema dell’introduzione del Concordato del ’29 nella Costituzione repubblicana e gli elementi innovativi rispetto agli studi omologhi, che – secondo Parlato – lo rendono quasi una “storia d’Italia” tout court non solo limitata all’ambito descritto dal titolo ma estesa alle culture politiche del nostro Paese nel confronto con la presenza della Chiesa cattolica.

L’Autore ha ampiamente riassunto il contenuto del proprio lavoro, a cominciare dal rapporto contrastato fra nazione italiana e presenza della Santa Sede all’interno del proprio territorio: una storia dunque intrecciata fra le due istituzioni, che ha generato un problema di identità della nazione e di legittimità. Le risposte a questo problema – secondo Pertici – sono state principalmente due, quella neoghibellina, fortemente anti-ecclesiastica, e quella neo-ghibellina, di segno opposto. Una terza via – evidenzia Pertici – è quella assunta pressoché dal solo Cavour, che cercò di realizzare una separazione fra Chiesa e Stato neo-unitario, con una politica quasi pre-conciliaristica e di forte autonomia dell’una rispetto all’altra, non coronata da successo. I successori del Conte, infatti, perseguirono invece una via neoghibellina.

La svolta nei rapporti fra Italia e Chiesa viene identificata da Pertici con la Grande Guerra: con quel conflitto la Santa Sede abbandona l’aspirazione ad una sua restaurazione temporale attraverso una sconfitta militare dell’Italia. La guerra evidenziò la fragilità diplomatica e la dipendenza della Santa Sede, ospitata su territorio italiano “dato in godimento”, e aprì all’unica ipotesi realistica, ossia la realizzazione di uno Stato a sovranità ecclesiastica, sul modello di San Marino, su un territorio ceduto dallo Stato italiano. Con la fine della guerra, la Conciliazione sembrò ad un passo, ma non fu realizzata per l’instabilità politica dei governi italiani. L’avvento di un governo forte – poi della dittatura – con Mussolini consentì alla Chiesa di “trattare con chi avesse possibilità di andare ad una conclusione”.

Pertici ha quindi sottolineato le necessità e le lacune storiografiche nell’approccio allo studio del Concordato e dei rapporti fra Fascismo e Chiesa, notando che “gli storici della Chiesa non hanno ancora avuto il loro De Felice”. Importanti aspetti dei rapporti fra Roma e il Vaticano sono stati messi in luce dall’Autore durante l’incontro, in particolare lo status di “parte debole” rivestito dalla Chiesa nel Concordato e negli anni successivi, con momenti di forte tensione fra Regime e Santa Sede. Un rapporto di disparità che – argomenta Pertici – è alla base dell’articolo 7 della Costituzione repubblicana, che rende il Concordato patto costituzionale: l’inserimento del Concordato nella Carta, infatti, mise la Santa Sede al sicuro da una possibile denuncia unilaterale dell’accordo da parte dello Stato italiano.

Infine Roberto Pertici ha esaminato il problema della laicità del nuovo regime repubblicano alla luce dell’articolo 7 della Costituzione, con il processo di revisione del Concordato iniziato nel 1967 e durato ben diciassette anni. Il dibattito seguito alla presentazione ha gravitato attorno al rapporto fra Chiesa e Risorgimento, con solo l’apparente paradosso del patriottismo manifestato dal clero italiano dalla Grande Guerra in avanti, i progetti di creazione del micro-Stato vaticano prima del Concordato del 1929 e infine l’evoluzione del partito di ispirazione cristiana in Italia – dal Partito Popolare alla Democrazia Cristiana – con i cambiamenti nella sua classe dirigente e il rapporto contrastato fra essa e l’Oltretevere.

 

Recensioni

Sergio Romano, Chiesa e Stato in Italia. Il sogno fallito di Cavour,
in «Corriere della Sera», 18 settembre 2009

Dino Messina, Libera Chiesa in libero Stato: il sogno di Cavour mai pienamente realizzato,
dal blog del Corriere.it “La nostra storia”

 

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