1919, nascono i Fasci italiani di combattimento. Ma chi erano i “sansepolcristi”?

Mimmo Franzinelli, Fascismo anno zero. 1919: la nascita dei Fasci italiani di combattimentoMondadori, Milano 2019

Il 18 novembre 1919, quando i risultati delle elezioni politiche sono ufficiali e deve prendere atto che la lista del Fascio Littorio ha raccolto nel collegio di Milano – l’unico in cui ha potuto presentarsi – solo 4.796 voti (9064 totali per il capolista comprese le preferenze da panachage, cfr. p.143), Mussolini scrive sul “Popolo d’Italia”: <La nostra doveva essere ed è stata una semplice affermazione limitata alla circoscrizione elettorale di Milano. Non poteva essere qualcosa di più. Scriviamo questo non già per esibire delle eufemistiche nonché postume giustificazioni e consolazioni a noi e agli altri, ma semplicemente perché è la pura, la sacra, la documentabile verità. Noi siamo scesi in campo per affermarci e ci siamo riusciti. La nostra non è né una vittoria, né una sconfitta: è un’affermazione politica> [Cfr. M. Giampaoli, 1919, Libreria del Littorio, Roma-Milano 1929, pp. 305-306].

<La sconfitta – nota Franzinelli – è interpretata dai contemporanei come la fine di Mussolini> (p. 6). I contemporanei, come si sa, non capirono le potenzialità di quei Fasci fondati dall’ex direttore de “l’Avanti” pochi mesi prima, nella milanese piazza San Sepolcro, il 23 marzo, dopo poche riunioni preparatorie. Non era peraltro facile comprendere come potesse avere successo un movimento antipartitico e pragmatico, <palesemente eterogeneo, che raggruppava rivoluzionari e reazionari, repubblicani e monarchici, sindacalisti e imprenditori> (pp. 5-6). Franzinelliricostruisce sine ira et studio il clima politico e sociale di quel difficile dopoguerra di cento anni fa, quando emergono prepotenti lo scontento degli smobilitati e la debolezza della classe politica liberaldemocratica. Nonché il percorso che portò alla fondazione dei Fasci e il loro primo sviluppo. Di pregio la scelta di dare un contenuto ai nomi dei “sansepolcristi”, una lista peraltro più volte rimaneggiata. Attraverso le loro disparate biografie si può comprendere bene il magma umano dal quale nacque il fascismo, e anche il perché. Nomi notissimi, naturalmente, da Marinetti a Goldman, da Farinacci a Crollalanza, da Chiavolini a Bianchi, da Momigliano ad Arpinati. Ma anche nomi ignoti o dimenticati. Nomi di persone – in maggioranza milanesi e lombarde, ma non solo – che accompagnano il destino del futuro duce fino alla fine, ma anche di quelle che via via si perdono per strada, seguono altri percorsi, anche solo antimussoliniani o nettamente antifascisti.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

 

Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta nella storia italiana

Dino Messina, Italiani due volte. Dalle foibe all’esodo: una ferita aperta nella storia italiana, Solferino, Milano 2019

Dopo decenni di colpevole oblio, accompagnato da un negazionismo strisciante, anche grazie all’istituzione del Giorno del Ricordo la bibliografia sul dramma delle foibe e sull’esodo giuliano-dalmata è ormai rilevante e attendibile, al di là della memorialistica e della letteratura. Di quegli eventi così tragici e complessi del Novecento italiano si indagano e si portano alla luce anche vicende particolari che contribuiscono a chiarire il quadro d’insieme. Un quadro che opportunamente ricostruisce Dino Messina in questo saggio, appassionato e coinvolgente senza perdere il necessario rigore storiografico. Il suo viaggio parte dal Magazzino 18, nel Porto Vecchio di Trieste, che raccoglie le masserizie degli esuli che nessuno ha reclamato: <Duemila metri cubi di storia, di memorie> (p. 9).

Il racconto si snoda poi nella ricostruzione del contesto politico e militare in cui il dramma si è sviluppato, dopo l’8 settembre del 1943, quando i partigiani comunisti di Tito avviano con le prime stragi in Istria il lungo percorso che mira a cancellare, in un modo o nell’altro, la storica presenza italiana da quelle terre di confine. Un progetto di pulizia etnica che il ministro degli esteri di Tito, Josip Smodlaka, esplicita nel settembre del 1944 su “Nuova Jugoslavia”, rivendicando all’ex Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni una regione amplissima, che avrebbe dovuto comprendere parte del Friuli, Gorizia, Monfalcone, ovviamente Trieste, l’Istria, Fiume, Cherso, Lussino, Zara, sulla base del falso principio della prevalenza demografica slava sull’elemento italiano.

Messina illustra bene, oltre agli errori compiuti dal fascismo, le tre fasi in cui si sviluppa il dramma di quegli italiani, dai primi eccidialle varie tappe dell’esodo, agli anni nei campi profughi. E, attraverso testimonianze toccanti, lo spaesamento che li coglie quando, rinascendo per la seconda volta italiani, comprendono di essere accolti con distacco, imbarazzo e sospetto, come se la loro stessa esistenza fosse una colpa. La colpa, naturalmente, di essere presunti fascisti, mentre per i programmatori delle stragi e della pulizia etnica <non importava se chi indossava la divisa non era un fascista, anzi con il rischio della vita era passato nel fronte antifascista. Per non essere considerato “nemico del popolo” bisognava aderire al progetto di società socialista e nello stesso tempo appoggiare le pretese territoriali della nuova Jugoslavia> (p. 161). Come peraltro dimostrò, nel febbraio del 1945, la strage di Porzȗs.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

1948. Gli italiani nell’anno della svolta

Mario Avagliano, Marco Palmieri, 1948. Gli italiani nell’anno della svoltail Mulino, Bologna 2018//

Il  gennaio del 1948 entra in vigore la Costituzione della Repubblica Italiana. Frutto di un laborioso compromesso tra le forze politiche che avevano partecipato al Comitato di Liberazione Nazionale e ai primi governi dopo il periodo badogliano, rappresenta simbolicamente una svolta definitiva nella storia nazionale. Il 2 giugno del 1946 era stata eletta l’Assemblea Costituente e, con il referendum istituzionale, dal sistema monarchico si era passati a quello repubblicano. Dopo le presidenze del Consiglio di Ivanoe Bonomi e Ferruccio Parri la guida del governo era stata assunta dal leader democristiano Alcide De Gasperi. La fase transitoria della Repubblica si era conclusa. Le prime elezioni politiche furono dunque fissate per domenica 18 e lunedì 19 aprile. <Sono state un passaggio epocale – sottolineano Avagliano e Palmieri -, dall’esito tutt’altro che scontato> (p. 7). Se invece del blocco moderato e filo-occidentale avesse prevalso il blocco socialcomunista, l’Italia avrebbe imboccato una strada tutt’affatto diversa, che è anche difficile immaginare.

Al termine di <quella che può essere considerata la più accesa campagna elettorale della storia nazionale> (p. 7), l’Italia entrò a pieno titolo e senza dubbi, nel clima internazionale della “guerra fredda”, nell’area geopolitica liberaldemocratica, pur inaugurando la sua specifica anomalia politica, e cioè la presenza di un forte Partito Comunista, che nei fatti impedì l’alternanza tra due formazioni contrapposte, dando vita alla cosiddetta democrazia bloccata. Una anomalia che ha condizionato i decenni successivi. Ma in quale clima, con quali strumenti, con quali aspirazioni il popolo italiano visse lo scontro epocale del 18 aprile? A questi interrogativi rispondono gli autori in maniera esauriente ed efficace grazie a grande lavoro di scavo negli archivi pubblici e privati, utilizzando documenti, memorie, interviste, lettere. Ne deriva una densa e in qualche modo affascinante fotografia di un’epoca lontana, contrassegnata da scontri ideologici oggi impensabili. L’esito del 18 aprile non era già scritto, nonostante il sostegno americano e l’impegno della gerarchia cattolica a favore della coalizione centrista.

In quest’ottica, ampio spazio è giustamente dato all’attentato del 14 luglio contro il leader comunista Palmiro Togliatti. Il clima sociale e politico divenne incandescente. Una crisi generale, se non la rivoluzione, sembrò imminente. Ma Togliatti, il Pci e l’Unione Sovietica volevano realmente trasferire l’Italia nel blocco moscovita? E che cosa sarebbe avvenuto sul piano internazionale? E, soprattutto, come vissero questo momento gli italiani? Certo è che la Dc e i suoi alleati centristi furono in condizione, superata la crisi, <di avviare nel concreto la ricostruzione materiale, economica, sociale, politica e culturale del paese, sulla base dei valori del proprio mondo di riferimento> (p.367). Una storia che ha i colori del dramma, raccontata con rigore scientifico e grande maestria.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

Il populismo latinoamericano e la crisi della democrazia europea

Pasquale Serra, Populismo progressivo. Una riflessione sulla crisi della democrazia europeaCastelvecchi, Roma 2018

Sia pure senza fare esplicito cenno a neo-sovranismi e neo-populismi pentastellati, l’autore ritiene che i caratteri dell’attuale crisi politica italiana ed europea siano difficilmente comprensibili attraverso l’uso delle consolidate categorie destra-sinistra. L’emergere prepotente di nuovi soggetti trasversali al consolidato confronto-scontro tra le tradizioni socialiste e liberaldemocratiche – pur nelle distinzioni note all’interno dei due schieramenti – lo convince che occorrano nuovi strumenti di analisi. O meglio, strumenti che già in realtà esistono e terreni che sono già stati dissodati nei decenni passati attraverso l’analisi del nazional-populismo latinoamericano e, in specie, del peronismo argentino. L’invito è dunque quello di rileggere criticamente in particolare i lavori del sociologo Gino Germani (1911-1979) e del filosofo postmarxista Ernesto Laclau (1935-2014).

Come si sa, semplificando, per l’antifascista Germani – culturalmente radicato in Argentina prima del rientro in Italia – il populismo peronista si distingue radicalmente dal fascismo italiano per la differenza della base sociale: la borghesia, la classe media, nel caso del movimento mussoliniano; la classe lavoratrice urbana e rurale, la “massa disponibile”, nel caso del peronismo, che peraltro è connotato da sue peculiari destra e sinistra interne. Per questo <il peronismo, per Germani, fu realmente capace di dare risposte reali alle classi popolari, le quali, per la prima volta, guadagnarono diritti e dignità, e anche un certo grado di libertà concreta, e si integrarono finalmente nella vita nazionale diventando parte costitutiva di essa> (p. 6). Questo non vuol dire – precisa l’autore – che si debba <riproporre il populismo argentino come un modello positivo per l’Europa> (p. 9).

L’obiettivo del saggio – che rielabora e supera una larga messe di studi specifici – è piuttosto <quello di spingere l’Europa e il suo pensiero politico a confrontarsi con esso, perché dietro la crisi della rappresentanza democratica in Europa, quella scissione drammatica che qui da noi si è venuta a configurare tra sistema della rappresentanza e masse eterogenee, sempre più centrali, e sempre meno omogeneizzabili e integrabili nei quadri delle comunità nazionali, vi è il fatto storico, enorme, della eterogeneità sociale, su cui la cultura politica argentina, da Germani a Laclau, appunto, per ragioni legate alla specificità della sua storia> (p. 10), è stata in qualche modo costretta a riflettere a lungo. Invito non peregrino alla luce dell’uso e abuso che in questi anni, con grande superficialità e senza esiti convincenti, si fa della categoria destoricizzata di fascismo per tentare di definire espressioni politiche “altre” di ardua modellizzazione.

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n. 1, 2019 (nuova serie), a. XXXI

Tutto è ritmo, tutto è swing. Il jazz, il fascismo e la società italiana

Camilla Poesio, Tutto è ritmo, tutto è swing. Il jazz, il fascismo e la società italianaLe Monnier, Firenze 2018//

Forse un libro in cui si scrive di <aristocratici di sangue blu> (p. 54), senza cogliere la tautologia, non andrebbe letto. Invece si tratta di una interessante ricerca di storia sociale, sia pure appesantita dalla pretesa di farne anche una storia politica e dalla preoccupazione costante di ribadire il carattere liberticida della dittatura fascista. E anche questa è una tautologia. L’argomento è d’altra parte scivoloso. Com’è noto, Romano Mussolini, figlio minore di Benito, è stato un grande jazzista e il padre, nel marzo del 1937, non esitò a rivelare di non avere <alcuna antipatia contro il jazz; come ballabile, lo trovo divertente> (p. 99). Altrettanto noto è che orchestre jazz si formarono numerose all’interno dell’Opera Nazionale Dopolavoro.

Come trattare dunque la storia del jazz in Italia, dove approdò, come in Europa, dopo la Grande Guerra, grazie ai musicisti dei transatlantici? Si può, naturalmente, calcare la mano sulle sue denunciate caratteristiche “negroidi” e poi – mentre maturavano le leggi razziali – ebraiche. Si può ironizzare della italianizzazione in “giazzo”, che fa il paio con il cachet ribattezzato cialdino (ma i francesi non sarebbero d’accordo). Si può gridare allo scandalo e titolare una recensione del libro “Allarmi son jazzisti! Musica negroide: così il fascismo boicottò Armstrong e Cole Porter [S.Cappelletto, “La Stampa”, 25/12/2018]. Si può anche minimizzare la circostanzama non lo fa l’autrice – che la spericolata stagione veneziana di Col Porter, del suo amante Boris Kochno e di sua moglie Linda, si chiuse nel 1927 quando <a seguito di un’irruzione della polizia a una delle innumerevoli feste, fu scoperto un “fiume” di cocaina e furono trovati una dozzina di giovani ragazzi seminudi o vestiti con abiti di Linda> (p. 57). Una questione di moralità pubblica, in sostanza, più che di musica, anche se il volume chiarisce in alcuni passaggi lo stretto legame tra il diffondersi del jazz e l’insorgere di preoccupazioni etiche tipiche di un paese profondamente impregnato di moralismo cattolico, quale era – salvo che in ambienti ristretti – l’Italia dei tempi. <Per alcuni aspetti – nota Poesio – il mondo cattolico fu più duro e più contrario al jazz del regime fascista> (p. 70). Famosa l’invettiva lanciata nel 1935 dai presuli del Triveneto, guidati dal viterbese patriarca di Venezia Pietro La Fontaine, contro i divertimenti moderni, l’uso dei costumi da bagno nelle spiagge, e naturalmente la musica sincopata. <Agli occhi della Chiesa ballare sui ritmi jazz spingeva a vestirsi secondo una moda succinta che portava a ammalarsi di malattie mortali oppure a dimagrire a tal punto da provocare infertilità mettendo a repentaglio l’istituzione del matrimonio> (p. 75). È noto che per gli stessi pregiudizi anche l’atletica leggera femminile (negli anni di Ondina Valla) fu contrastata dalla Chiesa.

Contro il jazz e i suoi derivati, che si diffusero anche grazie all’Eiar, scattò poi la molla protezionistica dei musicisti, che peraltro aiutò la nascita di un jazz italiano. Forse, dopo aver criticato il palese razzismo che trasuda dal saggio Jazz Band di Anton Giulio Bragaglia (1929), Poesio avrebbe potuto approfondire il tema dello scontro da tempo in atto nel mondo musicale italiano tra modernisti e tradizionalisti. Nel 1917 Marinetti aveva chiarito nel manifesto La danza futurista che <noi […] preferiamo Loïe-Fuller [la ballerina e attrice statunitense Marie Louise Fuller, 1862-1928] e il cake-walk dei negri>. Si sa che il pro-jazz Alfredo Casella e Gian Francesco Malipiero, fondarono con Gabriele d’Annunzio la “Corporazione delle nuove musiche”, animando un vivacissimo – a volte violento – dibattito culturale, a prescindere da questioni di ordine politico e dal razzismo. Forse non per caso 18 gennaio 1937 Alice de Fonseca scrive alla pianista, convivente e amante del Vate, Luisa Baccara: <Ti accludo questo avviso sui Kentucky Singers. Cesco ne organizza il giro in Italia, se dovessero interessare al Comandante dammene notizia che potrebbero cantare per Lui alla fine di febbraio. Sono pare degli artisti eccezionali> [cit. in G. S. Rossi, Storia di Alice, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 74]. “Les 5 Kentucky Singers” sono presentati dal volantino pubblicitario francese inviato al Vittoriale come “Les extraordinaires chanteursnègres, grandi interpreti di “negro spirituals” e “vocal jazz”.Alice de Fonseca è stata un’amante di Mussolini e lo seguì nella Rsi con il marito Francesco “Cesco” Pallottelli, noto impresario musicale.

Nonostante Bragaglia lo considerasse <musica ammattita e gambe storte>, frutto di una miscela di <snobismo anglosassone>, <americanismo> e <diavolerie dei negri>, il jazz non fu mai proibito, ma in qualche modo “italianizzato” rivedendo i testi e addolcendo i ritmi, nel contesto della crescente campagna contro l’esterofilia. Nel “Radiocorriere” del novembre 1941 si chiariva che la musica sincopata italiana aveva acquistato <il diritto di cittadinanza> e <non si può pensare di sopprimerla> (cit. p. 87).In fondo, lo stesso Bragaglia, dopo aver pubblicato Jazz Band, aveva messo in scena L’opera da tre soldi di Bertold Brecht e Kurt Weill con il titolo italianizzato La veglia dei lestofanti, presentandola come “Commedia jazz”. [cfr. L. Ianniello, Futurismo e Jazz. Occasione mancata o rapporto impossibile?, Tesi di diploma, Conservatorio di Musica di Frosinone, 2010, pp. 60-61].

Una vicenda complessa, dunque, quella trattata dal volume. Un intreccio non sempre ben illustrato – nonostante l’ampiezza delle fonti utilizzate – tra cultura, politica, musica, religione, spirito dei tempi. Un intreccio che risulta in verità più chiaro dal volume di Anna Harwell Celenza: Jazz all’italiana. Da New Orleans all’Italia fascista e a Sinatra, Carocci, Roma 2018. (G.S.R.)

da “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, n.1, 2019, nuova serie, a. XXXI

Trieste: la Fondazione alla mostra su Camillo Castiglioni

Il 29 giugno 2019 è stata inaugurata a Trieste la mostra “Camillo Castiglioni e il mito della BMW”, organizzata dalla Fondazione Franco Bardelli e dal Comune di Trieste, con la collaborazione di BMW Group Archiv e della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice. La Fondazione ha contribuito con il prestito di numerosi documenti d’archivio conservati nel fondo dello storico e diplomatico Attilio Tamaro.
All’inaugurazione hanno partecipato il vicepresidente della Fondazione Gianni Scipione Rossi, i curatori, l’assessore alla cultura del Comune di Trieste Giorgio Rossi, l’assessore all’ambiente della Regione Friuli Venezia Giulia Fabio Scoccimarro, Claudia Castiglioni, pronipote di Camillo, e i responsabili di BMW Group Archiv.
La mostra, curata da Mauro Martinenzi e Susanna Ognibene, si terrà dal 29 giugno al 21 luglio nella sala Attilio Selva di Palazzo Gopcevich, via G. Rossini, 4.
L’inaugurazione è stata fissata in concomitanza con l’arrivo a Trieste del “Fiva world motorcycle” il più importante evento mondiale di moto d’epoca, che quest’anno si svolge in Slovenia e Croazia, con tappa finale in Piazza Unità. Alla manifestazione saranno presenti anche moto provenienti dal Museo BMW di Monaco.
La mostra, allestita da Omniarem, si pone l’obiettivo di raccontare la straordinaria vita di Camillo Castiglioni, uno dei più grandi finanzieri e industriali europei negli anni Dieci e Venti del Novecento, con un particolare approfondimento relativo al periodo in cui come proprietario della BMW ne favorisce la trasformazione in una fabbrica motociclistica. L’intento è quello di realizzare un’esposizione che valorizzi e ponga in risalto sia la singolare storia umana del Castiglioni, che va oltre la connotazione politica dell’epoca, sia la società, il contesto culturale, politico ed economico attraverso cui il nostro personaggio si muove e vive, con particolare riferimento alle sue radici triestine ed ebraiche.
Camillo Castiglioni nacque a Trieste il 22 ottobre del 1879 da Vittorio, pedagogista ed ebraista (vice rabbino di Trieste, poi rabbino capo di Roma dal 1903 al 1911), e morì a Roma il 18 dicembre del 1957.
Il catalogo della mostra – Camillo Castiglioni e il mito della BMW, Goliardica Editrice, Trieste – è curato da Susanna Ognibene e Mauro Martinenzi, con introduzioni di Fred Jakobs, Head BMW Group Archiv, e di Gianni Scipione Rossi, autore della biografia Lo “squalo” e le leggi razziali. Vita spericolata di Camillo Castiglioni(Rubbettino, 2017).

 

Catello Cosenza, il professore tra accademia e umanità

Mercoledì 19 giugno 2019, presso la sede della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, si è tenuto un commosso e sentito ricordo del Prof. Catello Cosenza, ordinario di Economia Politica alla Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza di Roma, a dieci anni dalla scomparsa.

Ad aprire la discussione sul contributo umano e scientifico di Cosenza è stato il Dott. Nicola Benedizione, consigliere di amministrazione della Fondazione che, introducendo all’uditorio presente la figura del Professore, ha evidenziato in particolare il rapporto di amicizia con la Fondazione.

Il primo contributo del pomeriggio è stato affidato al Prof. Adriano Giannola dell’Università Federico II di Napoli. Da economista, Giannola ha ricordato, con particolare vicinanza umana e partecipazione alla vicenda, il rapporto tra Cosenza e il Banco di Napoli, soffermandosi sull’eredità umana e culturale della complessa fase di liquidazione del Banco stesso che li vide partecipi. Il professore, in chiusura, ha dato spazio ai ricordi personali, in particolare ai reciproci stimoli culturali e al legame tra Cosenza e la città di Napoli.

L’Ambasciatore Maurizio Serra, secondo contributo del “Ricordo”, ha richiamato in apertura del suo intervento gli anni di formazione universitaria e il primo incontro con il Prof. Cosenza. Molto interessante lo spunto di riflessione fornito dall’Ambasciatore sulla dimensione pedagogica di Cosenza, particolarmente umile e attento ai giovani.

Il terzo contributo, quello del Dott. Paolo Massa, si è incentrato sull’aspetto culturale e sulla figura di “Maestro” non convenzionale di Cosenza. Particolarmente significativo il parallelo tra lo stesso e l’indimenticabile Keating, interpretato da Robin Williams nell’Attimo fuggente di Peter Weir. In chiusura, Massa ha indicato nella multidisciplinarità la chiave di lettura del pensiero di Cosenza.

Il profilo multidisciplinare del Prof. Cosenza è stato evidenziato anche dalla Prof.ssa Cristiana Abbafati della Sapienza, allieva del Professore e sua stretta collaboratrice scientifica. La professoressa ha presentato, in una sintetica ed esaustiva relazione, l’opera scientifica di Cosenza. Diversi i temi segnalati: dall’economia alla figura dell’economista, fino ad arrivare al complesso rapporto tra politica e scienza economica. La testimonianza della Prof.ssa Abbafati si è conclusa, con un momento di commozione, sul ricordo del carattere spigoloso e sincero del Prof. Cosenza.

Un gradito “fuori programma” è stato affidato a due spontanei contributi sulla figura di Cosenza: quelli del Prof. Augusto Sinagra e del Prof. Gianfranco Lizza, amici, prima che colleghi presso l’A­teneo romano, del Professore. Sinagra si è soffermato sulle idee politiche di Cosenza e sulla sua lettura del fascismo, vissuto non solo come ideale, ma soprattutto come attenzione primaria alle problematiche sociali. Lizza ha invece parlato della collaborazione universitaria con Cosenza e delle peculiarità culturali del Professore, racchiuse nell’espressione “genio e sregolatezza”.

Dopo i due sentiti ricordi appena citati, la parola è passata al Prof. Paolo Simoncelli che, con il rigore che lo contraddistingue, ha ricostruito in maniera dettagliata la biografia di Cosenza, evidenziando, oltre ai ricordi accademici – frutto di un rapporto maturato nell’arco di moltissimi anni di vicinanza –, alcune interessanti e significative vicende familiari.

L’incontro si è concluso con la testimonianza del Prof. Francesco Pezzuto e con il commosso ricordo familiare di Bruno Cosenza, fratello del Professore, presente tra il pubblico.

Le svolte del 1919 nel convegno in Fondazione

Giovedì 13 giugno 2019, dalle ore 16.00, si è tenuto nella Sala della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice il Convegno di studi “La svolta del 1919”.

II convegno si è articolato sulle quattro date principali dell’anno, a livello politico: 18 gennaio, nascita del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo; 23 marzo, nascita dei Fasci di Combattimento di Benito Mussolini; 12 settembre, entrata in Fiume di Gabriele d’Annunzio; 16 novembre, elezioni politiche per la prima volta con il sistema proporzionale voluto da Francesco Saverio Nitti.
Quello fu l’anno della nascita dei partiti di massa in Italia e la risposta delle istituzioni fu la trasformazione in senso proporzionale del sistema elettorale; ma fu anche l’anno di d’Annunzio e della impresa di Fiume, il secondo grave vulnus all’Italia liberale (il primo fu la dichiarazione di guerra e il terzo fu la marcia su Roma). Il 1919 fu anche l’anno del massimalismo socialista, quel massimalismo che nei fatti impedì la creazione di un governo stabile e autorevole in Italia dopo le elezioni; ma fu l’anno in cui gli intellettuali pensarono che la rivoluzione fosse possibile, non quella socialista, più volte sbandierata e mai realizzata, ma quella “nazionale”, erede della guerra e del clima di battaglia del dopoguerra.
Del 1919, anno di nascita di due delle grandi famiglie politiche del Novecento, i cattolici democratici e i fascisti, si è dunque parlato  nel convegno,  così articolato:

Giovanni Dessì, docente di Storia delle dottrine politiche, Università di Roma Tor Vergata, segretario generale dell’Istituto Luigi Sturzo.
La nascita e il significato del Partito Popolare Italiano

Giuseppe Parlato, docente di Storia contemporanea, Unint di Roma, presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice
Da San Sepolcro a Fiume

Simonetta Bartolini, docente di Letteratura Italiana contemporanea, Unint di Roma
Il diciannovismo degli intellettuali

Andrea Ungari, docente di Storia contemporanea, Università Guglielmo Marconi di Roma
Il ‘19 del Re

Silvio Berardi, docente di Storia contemporanea, Università Niccolò Cusano di Roma
Nitti e la proporzionale, con uno sguardo all’Europa

Ha coordinato
Gianni Scipione Rossi, vice presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice.

Gli atti del convegno saranno pubblicati nel n. 2/2019 degli Annali della Fondazione.

Il corso di formazione 2018-2019

La Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, nell’anno scolastico 2018- 2019 e in continuità con i tre anni precedenti, ha svolto, con la direzione del prof. Rodolfo Sideri, attività di formazione destinata ai docenti di Scuola Secondaria di II grado, in particolare di discipline umanistiche. Un’attività, quella formativa, che, rivolta a docenti e studenti, è una delle peculiarità da molti anni della Fondazione, interessata non solo alla conservazione e alla produzione culturale storica e filosofica, ma altresì a divulgarne gli esiti e le nuove prospettive a una platea più larga di quella degli studiosi.
Il corso di formazione dei docenti si è intitolato appunto Nuove prospettive storiografiche e si proposto di offrire, con un metodo seminariale, una pano- ramica approfondita delle più recenti letture e interpretazioni storiografiche della storia contemporanea e della storia economica, spesso trascurata nello svolgimento dei programmi scolastici, a detrimento di un migliore intendimento delle vicende storiche.
Per l’anno scolastico 2018-2019, il corso si è svolto a partire da dicembre 2018 ed è terminato, come da direttiva dell’Usr Lazio, a maggio, con un esame conclusivo sulle tematiche affrontate. Nello specifico, il prof. Giuseppe Parlato, presidente della Fondazione, si è occupato della storia politica del secondo dopoguerra; il dott. Marco Zaganella ha trattato dei problemi economici del secondo dopoguerra; il prof. Danilo Breschi ha tenuto lezione sul Sessantotto e i fenomeni ad esso connessi; il prof. Silvio Berardi si è occupato di storia delle relazioni internazionali del secondo dopoguerra; infine, il prof. Rodolfo Sideri ha analizzato le principali tematiche della filosofia italiana tra il 1945 e il 1968.

Attualità del pensiero di Augusto del Noce: convegno a Trieste

La Fondazione ha patrocinato il convegno di studi “Augusto Del Noce. Attualità del suo pensiero”, svoltosi a Trieste il 30 e 31 maggio 2019, per iniziativa della Lega Nazionale e della Fondazione Augusto Del Noce. Il convegno ha ottenuto il patrocinio anche del Senato della Repubblica, del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, del Cnr, del Comune di Trieste, dell’Università di Trieste e della Regione Friuli Venezia Giulia. Il presidente della Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, Giuseppe Parlato, ha tenuto la relazione Del Noce, Baget Bozzo, Gedda: Resistenza, “partito cristiano” e crisi del centrismo.