di Federica Formiga
//In epoca greca e romana la carica propagandistica era affidata alla scultura, alla statuaria, alle iscrizioni, alle monete, alle rappresentazioni iconografiche, cioè a tutte quelle fonti che avevano come oggetto l’esaltazione e l’affermazione del potere, l’approvazione e la condivisione ideologica; diver- so invece fu nei periodi successivi e in particolare durante la Prima Guerra mondiale, quando ad ausilio della propaganda venne fatto un uso intensivo di mezzi d’azione di massa significativi quali appunto la stampa. La propaganda dell’inizio del XX secolo non ha nulla a che vedere con quella greca e soprattutto con quella dell’età di Pericle, il primo forse a tentare di influire psicologicamente e ideologicamente sulla folla. Di quest’influenza fu mago il tiranno Pisistrato (600-527) perché si servì di diversi strumenti, dall’eloquenza alle elargizioni al popolo, alla capacità di ‘rivelare’ i nemici che, nella loro violenza, erano un pericolo non solo per la sua persona, ma anche per tutti i cittadini ateniesi. Però ‘l’uso’ del nemico, la sua individuazione divenne un sistema primario di propaganda solo con la rivoluzione francese.
<La designazione del nemico ufficiale è il mezzo per eccellenza atto a provo- care un’emozione popolare, per smuovere le folle ed ottenere da esse un’a- desione su punti ben diversi dalla semplice lotta al nemico.>
È a partire dall’impero romano che la propaganda viene elaborata sotto forme diverse a seconda dei regimi, nei quali però aveva degli elementi in comune: verso l’esterno mirava a far sentire i popoli conquistati parte integrante del perfetto sistema romano e non soggiogati con la forza e, verso l’interno, era basata su quello che potremmo chiamare ante litteram nazionalismo. Cicerone è forse tra coloro che utilizzarono il termine propaganda nel senso più vicino al concetto odierno in quanto nel De officiis (2, 43) scrisse «vera gloria radices agit, atque etiam propagatur»; in questo passo propago ha il significato di diffusione, ampliamento, trasmissione ed è proprio con tali accezioni che oggi utilizziamo il sostantivo, sebbene lo carichiamo di valenza negativa. L’impero romano fu il primo a servirsi dell’informazione come propaganda facendo redigere manifesti che raccontassero la vita so- ciale, dessero notizie politiche, riassumessero le leggi, i discorsi e i lavori del senato e se la propaganda scritta nell’impero romano restò un fenomeno letterario limitato alle classi colte superiori, da queste l’imperatore doveva attirare consensi, non fu esclusivamente così durante la Grande Guerra perché la propaganda era destinata a tutti. Gli strumenti a disposizione erano le feste (motivi di intrattenimento erano organizzati, soprattutto dopo Caporetto, anche per i soldati), i discorsi (ai soldati e alla massa si parlava attraverso conferenze e comizi), manifesti e iscrizioni (prime forme di quelli che saranno i Bollettini, gli opuscoli e i cartelloni propagandistici), la letteratura (fiorente fu quella di guerra creata per deformare gli avvenimenti o denunciarli). La propaganda doveva però avere caratteri diversi a seconda di chi si rivolgesse, perché doveva essere semplice soprattutto se rivolta alla masse; mentre per gli ufficiali e anche per la truppa necessitava di peculiarità diverse, perché si puntava sull’elevato ceto sociale, sulla nobiltà dei sentimenti, invece per la truppa serviva trovare rispondenza nello spirito popolare e rude del soldato.
La forma con la quale fare propaganda andò a perfezionarsi solo tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo quando, consapevoli che era impossibile spiegare una dottrina politica al popolo, si passò alla forma dello slogan, brevi frasi facili da diffondere e ricordare. Le monarchie centralizzate che stavano occupando sempre più potere avevano l’obiettivo di giustificare e di far capire alla gente le proprie azioni attraverso il diritto e per questo i legisti adottarono formulazioni dottrinali che potessero giustificare l’agito, bastava diffonderle per farle diventare accettabili senza spirito critico; ancora una volta quasi nulla di diverso dalla propaganda messa in campo tra il 1914 e il 1918; al XIV secolo però mancavano i mezzi d’azione e anche i migliori tecnici della propaganda, come i legisti medievali, lavoravano con scritti diffusi in pochi esemplari e con la parola, ma soprattutto senza mai sistematizzare un metodo visto che le esperienze di propaganda dopo un certo tempo venivano abbandonate e non servivano per formulare una regola che riguardasse la propaganda in generale. Occorrerà l’apparizione dei caratteri mobili perché la propaganda avesse a disposizione uno strumento di conoscenza rapida ed efficace.
<La stampa permette di far circolare le idee tra le masse in modo molto più considerevole che i discorsi, di agire a distanza, di creare un’opinione pubbli- ca e di tenere molto meno conto dei costumi esistenti. Bisogna considerare che in quest’epoca lo stampato aveva molta più autorità sul lettore di quanta ne abbia oggi; era ancora un oggetto raro e poteva contenere, agli occhi del lettore, solo la verità. Ma bisognava saper leggere […]. Proprio perché l’individuo sa leggere diventa più accessibile alla carta stampata. La grande forza della Riforma sarà quella di influenzare l’opinione pubblica con la circolazione di opuscoli.>
Il termine propaganda tra l’altro comparve solo nel 1622 quando papa Gregorio XV istituì formalmente la Sacra congregatio de propaganda Fide, una nuova strategia della Chiesa per esercitare contemporaneamente un potere amministrativo, giudiziario, coercitivo e per controllare la vita intellettuale attraverso la censura, ma anche la diffusione di testi religiosi attraverso la Stamperia poliglotta.
L’ultimo passo da compiere nello sviluppo fu quello di dare alla pro- paganda le caratteristiche che ancora le mancavano, cioè essere duratura e organizzata, passaggio avvenuto con la Rivoluzione francese. La propaganda tendeva a raggiungere l’opinione pubblica nella sua globalità, a plasmarla, diventando quindi di massa soprattutto grazie all’utilizzo della stampa, mezzo essenziale per Napoleone che fece pubblicare il Parallelo fra Cesare, Cromwell e Bonaparte, celebre opuscolo panegirico sulla sua figura. Anthony Pratkanis e Elliot Aroson attribuiscono la nascita della propaganda, come oggi la conosciamo, al momento in cui venne aperta a Philadelphia nel 1843 la prima agenzia di pubblicità e con la Prima Guerra mondiale il processo venne a compimento grazie al modo e soprattutto ai mezzi con i quali venne condotta. Se già agli albori dell’introduzione della tipografia i messaggi erano divenuti più capillarmente trasmissibili, grazie ai tempi rapidi di preparazione e diffusione del testo, ci vollero secoli e nuove tipologie di prodotto (manifesti illustrati, cartoline, brevi opuscoli) per iniziare a creare un punto di vista, un’opinione facendo in modo che il destinatario del messaggio lo recepisse intuitivamente e lo accettasse ‘volontariamente’ fino a farlo divenire proprio. Sono questi gli anni di un salto decisivo per la propaganda con un coinvolgimento più massiccio della popolazione nella vita politica e nella ridefinizione radicale degli strumenti e dei linguaggi della comunicazione: la missione più importante era fabbricare la vittoria e lo si poteva fare popo- lando l’opinione pubblica di eroi e di nemici, sfumare le implicazioni disastrose che la guerra portava con sé e diffondere l’ottimismo.
L’Italia entrò militarmente in guerra il maggio del 1915, ma ne fu coivolta psicologicamente fin dall’inizio del conflitto e ne sono prova il dibattito tra interventisti e neutralisti oppure, soprattutto durante il conflitto, le voci dissidenti quali quelle dei ‘disfattisti’, in particolar modo i socialisti, che pure avevano scelto di ‘non aderire, né sabotare’. Gli schieramenti e le varie fazioni al loro interno si sono rapportati con delle nuove forme di comunizione tutte rivolte, in un senso o nell’altro, a fare propaganda. La storiografia ormai assegna la nascita di quest’ultima proprio alla Grande Guerra perché fu il periodo durante il quale si svilupparono nuovi strumenti che andavano dal cinematografo, ai manifesti e a piccole spicciole pubblicazioni da distribuire, spesso cladestinamente, tra i civili e i militari, sia amici sia nemici. La propaganda si rivolgeva infatti a tre categorie distinte: ai soldati, per alimentare la volontà di combattere; al nemico per incoraggiare la rivolta e la diserzione; ai civili per chiedere il sostegno morale ed economico alla guerra. Tra le professioni direttamente coinvolte in tali attività ci fu senza dubbio quella editoriale perché la parola scritta, anche sotto forma di slogan, rivestì un ruolo fondamentale che nei secoli precedenti non aveva avuto così tanta fortuna. L’impresa già nei decenni immediatamente successivi all’Unità d’Italia aveva subito delle trasformazioni, o meglio, un’evoluzione tecnica e finanziaria delle sue strategie di mercato, anche se con le dovute differenze regionali. Nei primi anni del Novecento iniziarono la loro attività gran parte delle case editrici destinate a diventare colossi editoriali quali Rizzoli, Mondadori e Laterza; però nelle grandi città la piccola stamperia e la grande azienda editoriale continuavano a convivere, nonostante il dislivello tecnologico raggiunto fosse nettamente disomogeneo a vantaggio delle grandi aziende che investivano nei torchi meccanici. Le tipografie in Italia aumentarono di numero, quasi raddoppiando tra il 1844 e il 1873 passando così da circa 490 a 911, mantenendo però sempre il modello a conduzione familiare e il loro ruolo fu determinante nella pubblicazione di tutti quegli opuscoli che ebbero vita durante il conflitto bellico. Nella prima metà dell’Ottocento esistevano discrete aziende tipografiche, ma i dazi doganali non le faceva- no crescere e se da un lato le tenevano lontane dai rischi imprenditoriali, dall’altro non permettevano il fiorire della concorrenza. Dopo l’Unità fu eliminato il farraginoso meccanismo delle tasse, ma servirono quasi altri due decenni per superare la logica localistica e familiare e per pensare di poter entrare nel mercato nazionale anche grazie a strumenti, al momento inesistenti, quali un catalogo unificato di informazione bibliografica e di organizzazione degli editori6. Solo nel 1888 l’Associazione Libraria italiana, divenuta Associazione tipografico-libraria italiana, diede alla luce gli annuari del commercio librario, gli elenchi dei periodici e delle biblioteche e soprattutto i primi cataloghi collettivi che fornirono un panorama della produzione. Nel 1897, grazie alla presidenza Bocca, nacque il Catalogo generale della libreria italiana, il cosiddetto Pagliaini, dal nome del compilatore, che assolse per anni una funzione indispensabile nel panorama bibliografico che si andava profilando. Giuseppe Pomba nel 1872 scrisse che l’editoria in Italia faceva i progressi necessari per poterla far stare al passo con le altre Nazioni e ne sono prova editori quali Sonzogno, Barbèra, Le Monnier, Pomba e Treves i quali, attraverso la creazione di nuove collane i cui volumetti erano destinati al popolo o alla massa, consentirono al mondo dell’editoria di sopravvivere anche durante il periodo bellico. Difficile però tratteggiare un quadro uniforme perché la realtà si scomponeva in una serie di situazioni ben distinte: molti erano i casi lungo tutta la penisola di esercizi strutturati in forma di libreria-editrice; esisteva poi lo squilibrio tra l’entità dei volumi stampati e la relativa distribuzione e che portò allo scontro tra i librai, che rivendicavano una percentuale più alta sulle vendite, con gli editori, che invece li accusavano di non prodigarsi abbastanza per allargare il circuito distributivo.
Però, stranamente, i cambiamenti politici e lo scontro bellico alle porte modificarono lo scenario grazie anche alla nascita di nuovi soggetti sociali e di moderni partiti di massa. L’anno dello scoppio della Prima guerra mondiale a Milano l’Unione italiana dell’educazione popolare promosse una ‘biblioteca di coltura popolare’, nota per il colore della sua copertina, come ‘collana rossa’, di cui 2.000 copie sulle 10.000 stampate erano state diffuse gratuitamente nelle biblioteche popolari delle quali, sul territorio nazionale, alla fine del 1914 se ne contano circa 1.400. Il conflitto portò a un aumento delle stampe riguardanti lo scontro, tanto che il Giornale della libreria elenca oltre 194 titoli tra libri, opuscoli ed estratti pubblicati nel 1914 e 295 nel 1915 riguardanti la guerra e la sua preparazione. Lo scontro portò inoltre a una serie di cambiamenti a partire dalla distribuzione libraria:
<Italiani, dagli ospedali militari, dai paesi di confine, dalle trincee, dagli estremi ridotti, ogni giorno, giungono a noi dai fratelli feriti, dai fratelli combattenti, commosse domande di libri: e i rappresentanti delle Istituzioni e dei Comitati delle maggiori città italiane, riuniti a Milano, hanno con grande dolore constatato che, diffusi a centinaia di migliaia di volumi raccolti, le riserve librarie sono oramai quasi esaurite, così che da oggi diventerebbe impossibile soddisfare le ripetute insistenti richieste, se di nuovo non soccorra la vostra fraternità.>
<La donazione di libri da parte di case editrici (Barbèra, Le Monnier, Bemborad, Nerbini e Salani fino a Sandron) e di singoli tipografi divenne tra i sistemi più diffusi anche per approvvigionare le biblioteche militari il cui allestimento e cura rientravano nel progetto di educazione nazionale; durante il periodo bellico si distribuivano libri piacevoli, divertenti, e soprattutto ispirati agli ideali nazionali, ma anche di conforto, di antidoto ai vizi e, ovviamente, di propaganda patriottica>.
La propaganda svolse un ruolo importante e crescente nel primo conflitto mondiale, tanto da essere considerata una delle armi principali con cui la guerra fu combattuta, sia sul fronte militare sia sul fronte interno. In Europa, particolarmente in Italia, essa accompagnò l’affermarsi della società di massa di cui la guerra fu levatrice, con i suoi nuovi linguaggi, leader e soggetti politici.
Così il conflitto fu anche una ‘Grande Guerra delle parole’ come si legge in Peter Buitenhuis.
Si gettavano quindi le premesse e maturavano i presupposti che a breve, di fronte all’evento bellico, condurranno anche in Italia a una serie di iniziative tese alla diffusione di materiale da lettura fra le truppe impegnate in guerra, sull’esempio di quanto andavano facendo le altre potenze europee quali Francia, Inghilterra, Germania.
Anche se di fronte a milioni di morti è azzardato, oltre che irriverente, affermare che il mondo editoriale ebbe motivo di sviluppo non possiamo non constatare che, allo scoppio della guerra, ci fu una presa di coscienza di quanto fosse necessario pubblicare per creare anche nuovi lettori tra quei giovani soldati leve dello sviluppo nazionale grazie ai quali si poteva tentare di sconfiggere quell’endemica ignoranza contro la quale si lottava dall’inizio del Novecento. Nella congiuntura che si stava profilando la lettura poteva diventare un agile strumento di sollievo, ma nell’immediato proprio anche di propaganda coinvolgendo tutti, e non solo le reclute combattenti, in quella vorticosa dialettica divisa tra interventismo e astensionismo.
Gli eventi diminuirono le vendite della produzione che potremmo defi- nire classica, ma le perdite vennero largamente compensate da altri titoli o nuove forme librarie e i contraccolpi incisero sulle caratteristiche che l’edito- ria italiana aveva avuto fino a quel momento. Una delle forme a stampa che si andò sviluppando fu quella degli opuscoli, cioè pubblicazioni di dimensioni ridotte e di veste editoriale economica, generalmente destinate a fornire una breve sintesi di un argomento o a dare informazioni di carattere generale e pratico. Tra le differenze più evidenti tra l’editoria postunitaria e quella sviluppatasi durante il conflitto bellico c’è anche quella legata ai nuovi lettori provenienti dai ceti urbani emergenti dotati di un reddito frutto delle loro attività mercantili e professionali; non si tratta più esclusivamente di uno strato intellettuale, spesso legato al patriziato, contemporaneamente produttore e fruitore, ma di un nuovo pubblico con altre domande da soddisfare e richiedente nuovi generi. Con questo contesto culturale e sociale l’Italia entrò nel conflitto e l’editoria non poteva non tenerne conto nel suo statuto e nel proprio codice comunicativo. Non era possibile trascurare il nuovo ceto medio neanche nelle nuove forme del libro sempre più realizzabile a vaste tirature grazie a una tecnologia ormai consolidata. Infatti le nuove possibilità di espansione editoriale trovavano linfa nei recenti miglioramenti tecnico-tipografici che consentivano di impaginare facilmente e con miglior risultati testo e immagine. Edoardo Sonzogno e Adriano Salani, su un piano popolare, Treves e Hoepli, su un livello più elevato furono i primi ad applicare le innovazioni. La guerra inoltre portò a una serie di cambiamenti tra i quali, e non da ultimo, la nascita di uomini ‘illeterati’, che scrivevano dando vita a una produzione di prodotti editoriali che testimoniano le trasformazioni altropologiche e sociali che la guerra portava con sé. Non è questa però la sede per studiarne la scrittura, spesso stentata o spesso semplice traduzio- ne di un’oralità, sebbene fosse meno dialettale grazie al fronte in guerra che contribuì all’utilizzo unicamente dell’italiano. La vera trasformazione antropologica fu quella di potersi rapportare con i nuovi mezzi e forme di comunicazione dei quali il conflitto bellico divenne il trampolino di lancio nonostante gli strumenti fossero all’inizio quasi esclusivamente governati dallo Stato, che non poteva non approfittarne di essere perennamente pre- sente con simboli e slogan.
L’ufficio storiografico della mobilitazione, istituito presso il ministero per le armi e munizioni con lo scopo di raccogliere dati e documenti della guer- ra, iniziò nel primo volume del 1918 dell’Archivio storico italiano un’attività che doveva essere una rassegna bibliografica ragionata di guerra. L’idea era di offrire agli studiosi un complesso organico per ulteriori indagini bibliografiche e a Giuseppe Prezzolini spettò di aprire l’iniziativa, che però non ebbe un seguito. Prezzolini esordì il suo articolo sottolineando che la produzione libraria italiana di guerra non poteva non tener conto delle condizioni sociali, economiche e politiche molto diverse regionalmente e che la produzione libraria di un paese si poteva dividere in quella fatta per scopi non commerciali da enti e privati non speculatori e in quella per scopi commerciali, fatta da editori che si proponevano di trarne un utile. Fu la prima categoria a portare subito a un aumento di produzione durante il triennio bellico perché erano i prodotti commissionati direttamente dallo Stato che, accorgendosi soprattutto dell’enorme importanza della propaganda, ha sussidiato o direttamente sostenuto le spese di molte pubblicazioni, in varie lingue e in varie forme, dal foglio all’opuscolo, dal volume alla strenna, dal calendario al segnalibro, o sotto le mentite spoglie di numeri unici di riviste, di volumi e opuscoli da collezioni. Gli stessi organi di Stato si sono prodigati a diventare editori di bollettini, di notiziari, di raccolte di regolamenti e di annuari, di elenchi, di volumi e di brevi pubblicazioni per l’istruzione alla guerra. Tra le funzioni, compiute tra l’altro ancor oggi lo Stato, quella di editore è tra i pubblici servizi:
essa assorbe tutta o gran parte della attività di parecchi rami dell’amministrazione governativa e tende ad acquistare un’importanza sempre maggiore, poiché si accentua la convenienza per lo Stato di far conoscere alla colletti- vità le condizioni e i risultati della propria azione e per la collettività la convenienza di valersi dello Stato per poter esaminare taluni indici e dati sulla situazione economica e sociale e generale e per svariate indagini scientifiche e tecniche. Parte di tale produzione, anche durante il conflitto, era destinate anche alla vendita, ma finì spesso al macero sia per una sbagliata distribuzione sia per la difficoltosa consultabilità dettata dalla mole di materiale. Tutto era pubblicato senza un’adeguata e necessaria sintesi e a questo si aggiun- gono quelle pubblicazioni completamente assenti di coordinamento, di un programma di svolgimento definito; l’accusa era che gli uffici di redazione inserissero materiale del quale disponevano occasionalmente: leggi, analisi di mercato, relazioni di fatti e bilanci che non avevano nessun seguito, che restavano discorsi o argomenti estemporanei per la cui pubblicazione si era- no affrontati notevoli costi, difficilmente recuperabili con la vendita privata, ma soprattutto inutili a fini propagandistici. Il Prezzolini nella produzione non commerciale inserisce anche quella dei privati sollecitati dai pretesti, ma anche dalla vanità, di portare il loro contributo alla guerra di carta e di parole stampate attraverso testi commemorativi o la stampa, per volere delle famiglie, delle lettere e dei diari dei soldati caduti.
Il problema invece dell’editoria commerciale durante il conflitto bellico era stabilire l’equazione tra il costo della materie prime e l’altezza dei salari da una parte con la capacità d’acquisto del Paese dall’altra. Dal 1914 la realtà editoriale fu molto meno rosea di quanto previsto, infatti erano da affrontare non solo le spese delle materie prime, ma anche la rarefazione dei produttori (autori) e ovviamente dei compratori. La capacità di acquisto era anche limitata per altre ragioni: <l’analfabetismo letterale e spirituale, la lingua italiana pochissimo conosciuta all’estero e il commercio librario male organizzato. La crisi però non fu affatto devastante in quanto gli italiani in quegli anni di guerra hanno letto di più sebbene abbiano letto peggio, perché di fronte a un languire della cultura e del senso critico e un minor vigore intellettuale si fece vivo un maggior bisogno di divertimento che poteva essere soddisfatto con una produzione rapida e ‘acciabattata’: le letture di svago e gli opuscoli d’occasione prendono il passo sopra gli studi seri e i volumi organici […]. La vita attiva della guerra, stagnando con la trincea, ha creato una certa disposizione, se non altro alla mediazione, certo alla lettura.>
I primi editori che si accorsero che la guerra poteva essere un volano commerciale furono quelli delle carte geografiche che fin dalla neutralità incominciaro a pubblicarle per rendere edotti su dove si stesse svolgendo il conflitto europeo assecondando così quella curiosità più legata al luogo che al perché. Tra le sorprese e le innovazioni portate dalla guerra ci furono poi le tipografie da campo sempre più operative a partire dal 1915.
<A che può servire ormai la parola, quando parlano i cannoni e i mortai? Ciò è tanto vero che nemmeno il piano di mobilitazione tedesca, tanto perfetto e completo, si era provveduto il caso in cui si dovessero stampare ancora le parole sulla carta. Ma venne la rapida invasione del Belgio, la rapida occupazione di alcune provincie francesi, che fecero sentire il bisogno di sempre più numerose carte topografiche […]. Una tipografia venne impiantata in un treno ferroviario […]. Il suo compito consiste nello stampare carte nella quali, con segni rossi e azzurri, vengono contraddistinte le posizioni proprie e del nemico […]. Il funzionamento dell’officina tipografica acuì il desiderio, se non il bisogno, di avere altri stampati e soprattutto qualche giornaletto.>
Questo portò alcune tipografie a stampare anche in città, lontano dal fragore dei cannoni. Era questa la soluzione produttiva adottata che condusse già dai primi mesi dall’inizio del conflitto a una sovrabbondanza di opuscoli in crescita poi esponenziale nei tre anni successivi. Tra le prime pubblicazioni uscirono solo due libretti: G. Bordoni, La grande guerra: la conflagrazione europea e Norberto Dell’armi, Piccola storia del popolo germanico, ma la situazione era destinata a cambiare rapidamente grazie anche all’attività di autori ed editori, che diedero eco al disagio e al nuovo stato degli intellettuali italiani, alimentati sempre più dalla tensione legata alla politica. L’editoria all’inizio fece fatica a diventare il diffusore delle loro opinioni, perché era rimasta indietro rispetto al confronto, continuava a produrre testi scolastici, volumi di storia e romanzetti d’appendice, come non esistesse il presente almeno fino a quando gli intellettuali non iniziarono a giocare un ruolo determinante e trovarono spazio di espressione nelle riviste e nei giornali.
Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, promotori e collaboratori della Voce, furono tra i primi a emergere tra gli intellettuali a favore della guerra
<si trasformarono in militanti di un’iniziativa politica e culturale che non può fare a meno degli strumenti messi a loro disposizione dall’editoria, e gior- nalistica e libraria: e su di essa confrontano anche l’attività letteraria, per esempio con la condanna del romanzo ‘commerciale’, frutto di un’editoria fondata sul profitto.>
Il rapporto della politica con l’editoria e viceversa si era fatto più urgente all’inizio nel secondo decennio del Novecento. I giovani intellettuali, tra i quali si contavano anche molti letterati, avevano la necessità di conquistare la fiducia di tutti coloro, cioè i borghesi, che potevano contribuire alla ‘rinascienza’ della nazione italiana e al loro servizio ci doveva essere una nuova editoria per diffondere l’idealismo. Il problema nel consenso nasceva quindi prima tra gli intellettuali e i maestri, secondo Prezzolini, dovevano dirsi persuasori; è in questo clima che nel 1908 era sorta la rivista La Voce le cui edizioni miravano ad allargare il pubblico e per lo stesso motivo nel 1911 venne aperta anche la Libreria La Voce per combattere la letteratura di consumo in nome di una libreria di diffusione; l’esperienza fu immediatamente seguita da un’attività di editoria libraria per, come affermò Prezzolini, «creare uno strumento di studio e di azione in Italia». Sempre nel 1911 il Prezzolini dichiarava che lo strumento sarebbero stati gli opuscoli a basso prezzo (10-15 centesimi) e che le questioni trattate sarebbero state attuali:
<Noi pubblicheremo opuscoli. Saranno opuscoli popolari, di questioni vive, nazionali. Bisogna che penetrino dappertutto. In campagna, nei piccoli pa- esi, dove non c’è libraio; nei sobborghi; fra gli studenti; fra i maestri; fra i parroci.>
È noto e in più sedi è stato trattato come la stampa abbia ricoperto sin dai suoi albori il ruolo di diffusore, su larga scala e in tempi rapidi, del pensiero politico oltre ad aver contribuito alla conoscenza della letteratura nazionale e classica; a cavallo tra il XIX e XX secolo, quando ciascuno poteva leggere ciò che voleva, la tensione tra la libertà e i tentativi di orientamento si fece più forte e raggiunse l’apice a partire dalla fine del 1914 con la propaganda bellica interventistica che fece largo uso del messaggio stampato, in primis attraverso la stampa periodica, ma anche di altro materiale quali i manifesti, le cartoline e appunto gli opuscoli, oggetti che non avevano la prospettiva di durare per sempre, e soprattutto non avevano alcun valore economico, ma erano idonei a influenzare l’opinione pubblica. Il libro, corposo o meno, non si configurava più come nei primi anni del Novecento quale un genere di consumo riservato ad aree sociali circoscritte, abituate a considerarlo come un elemento di corredo obbligatorio per lo status sociale e per qualificare il grado culturale24. Già nell’ottobre del 1914 il Republican di Springfield scriveva che il grande conflitto europeo avrebbe modificato il gusto dei lettori. La previsione profetizzava che i libri ricercati sarebbero stati quelli sulla guerra e molti argomenti, nei tempi del conflitto, sarebbero passati in secondo piano25. Aumentò il numero dei lettori che avevano bisogno di notizie in tempi brevi e soprattutto efficaci. Nulla più poteva viaggiare nell’ottica del progetto culturale per il popolo, ma si doveva ricorrere ad altri mezzi, quali proprio la propaganda, arma che si verifico’ assai efficace sia da mettere in campo per sollevare l’umore delle truppe e dei civili sia per distruggere l’amor proprio nemico. La letteratura della e sulla guerra fece così aumentare la produzione tipografica. Il settore di intervento, sviluppatosi dapprima a Firenze, fu così proprio quello di una vasta produzione di fogli volanti, opuscoli e libretti a poco prezzo, cioè strumenti che erano il terreno per far crescere la coscienza nazionale e destinati a diventare poi dei veri e propri monumenti di carta. Un ruolo di punta venne ricoperto proprio dalle edizioni della Voce che contribuirono a vivacizzare il dibattito antigiolittiano e portarono avanti la rivoluzione contro l’italietta e la cultura ufficiale e accademica alla ricerca di innovazione politica e culturale
<Gli editori impararono a parlare un linguaggio intriso di tecniche pubbli- citarie per conquistare un pubblico generico, se vogliamo di massa, e non classista, mentre piano piano il numero degli alfabetizzati registrava flessioni in aumento e l’editoria di cultura non si dimostrava così solida, tanto che gli editori potevano sopravvivere nel mercato con tranquillità dedicandosi quasi esclusivamente alla produzione scolastica o alla divulgazione. Le case editrici divennero più agili, aggressive e pronte a cogliere le opportunità diversificando la produzione nei generi e sfruttando la capacità distributiva sempre più sviluppatasi in reti. Inoltre gli editori presero coscienza della loro possibile autonomia sin dalla dichiarazione formale di guerra alla Germania, con la quale tra l’altro interrupero gli scambi creando così le basi per una propria indipendenza dall’influenza estera e soprattutto da quella tedesca. […]>
Il saggio completo, con il titolo Gli opuscoli prima di Caporetto: nuovi prodotti per la propaganda, corredato di apparato di note, in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2014-2015, XXIV-XXV, pp. 35-104.
Il tema è stato sviluppato dall’autrice nel volume:
Federica Formiga, Anche le parole sono in armi. Opuscoli e propaganda nella Grande Guerra, Luni Editrice , Milano 2019