Quando De Felice per capire il fascismo s’ispirava a Gramsci

Sulla figura e sull’opera di Renzo De Felice, nei dieci anni o poco più che ci separano dalla sua scomparsa, si è scritto moltissimo, a testimoniare della peculiare centralità da lui avuta nella storiografia e più in generale nella vita intellettuale dell’Italia repubblicana. Ma a distinguere il recente volume di Giovanni Mario Ceci Renzo De Felice storico della politica, edito da Rubbettino, è il fatto che per la prima volta ad occuparsi del nostro maggior storico del fascismo sia un giovane studioso, che al tempo delle polemiche che accompagnarono negli anni Settanta le opere defeliciane non era neppure nato.

Dall’esame dell’intera produzione storiografica di De Felice, che Ceci considera per grandi temi, emerge anzitutto una ricchezza di influenze culturali davvero fuori dal comune: da quelle più note, legate ad esempio alle opere e alla diretta conoscenza di Federico Chabod e di Delio Cantimori o successivamente di George Mosse, a quelle più nascoste, legate a un’idea della storia politica come storia delle credenze diffuse, delle illusioni popolari, dei miti e in genere delle rappresentazioni collettive.

Così i suoi studi sul «misticismo rivoluzionario » di fine Settecento avevano dietro la lettura del Bloch de I re taumaturghi, mentre la ricostruzione dell’ondata di miracoli che si verificò in Italia alla vigilia dell’occupazione francese sul finire del XVIII secolo teneva conto della classica opera di Georges Lefebvre sulla «grande paura» nella Francia del 1789. Anni dopo, terminata la fase degli studi dedicati all’Italia giacobina, la sua attenzione, non tanto alla cultura del fascismo come corpo formalizzato di testi e dottrine, ma al mondo mentale dei fascisti come insieme di fantasie, opinioni, rappresentazioni irrazionali, si rifaceva a un’idea ampia della cultura, sulla scia di un grande studioso di scienza politica come Gabriel Almond. Davvero poco nota, nella fitta trama di riferimenti ricostruita da Ceci, l’influenza su De Felice di certe pagine di Gramsci. Del Gramsci che nei Quaderni del carcere sottolineava l’importanza delle credenze popolari, ma anche di quello che, nel pieno della battaglia contro Mussolini, aveva invitato a considerare il fascismo come un movimento sociale espressione dei ceti medi.

Naturalmente il libro è soprattutto dedicato alla «rivoluzione storiografica » rappresentata dagli studi defeliciani sul fascismo, dall’opera pionieristica sugli ebrei durante il regime alle migliaia di pagine di una biografia di Mussolini che ricostruiva gran parte della vita italiana durante il Ventennio. Una «rivoluzione» che ha certamente prodotto dei frutti, ma forse, sostengono sia Ceci sia Renato Moro nella prefazione al volume, non ha influenzato in profondità la cultura di un Paese che riguardo al proprio passato fascista sembra ancora schiavo di luoghi comuni, pregiudizi, ricostruzioni fantasiose. Così, l’accuratissima esposizione che Ceci fa dei principali temi della ricostruzione defeliciana del fascismo ha anche il risultato di riproporre fatti, interpretazioni, analisi che presentano spesso un carattere di novità non inferiore a quando furono scritti la prima volta. Si prenda in particolare il capitolo dedicato a ricostruire come De Felice abbia valutato il carattere totalitario o meno del regime fascista, che riproduce giudizi ancora oggi illuminanti. Per tutto il primo decennio del regime e oltre, le iniziali inclinazioni totalitarie del movimento fascista furono congelate dal sistema di compromessi (con il re, con la Chiesa, con i centri del potere economico, con la burocrazia statale) che aveva caratterizzato la costruzione del regime. Le cose cambiarono dopo il 1936, quando fu lo stesso Mussolini ad avviare una «svolta totalitaria » che avrebbe dovuto portare rapidamente alla politicizzazione in senso fascista dell’intera società. Dunque, a partire da quella data, il fascismo fu un regime «ad indirizzo totalitario», anche se — aggiungeva De Felice — non riuscì mai ad esserlo effettivamente.

La «svolta totalitaria» non aveva infatti intaccato realmente il compromesso con i vari, diremmo oggi, poteri forti e si era limitata in gran parte al terreno culturale ed educativo. Soprattutto, una volta illustrati i progetti, le aspirazioni e anche le politiche totalitarie del regime, non si poteva sfuggire, secondo De Felice, ad un confronto con ciò che avveniva alla stessa epoca nella Germania di Hitler e nella Russia di Stalin. Da tale confronto emergeva come mancassero al regime italiano alcuni elementi di fondo perché lo si potesse considerare realmente totalitario: non vi era, scriveva lo storico, «il ricorso sistematico al terrore di massa e, quindi, al sistema concentrazionario»; non era mai stata compiuta davvero «la transizione dallo Stato di diritto allo Stato di polizia»; non si era realizzato, anzi il fascismo neppure l’aveva cercato, un controllo del partito sullo Stato. Sicché De Felice invitava a non «lasciarsi trarre in inganno dal grande uso che (…) il fascismo fece del termine totalitario», con la conseguenza altrimenti di scambiare l’autorappresentazione del regime con «la realtà dei veri totalitarismi ». Che ancora oggi questi giudizi non siano troppo diffusi sembra appunto indicare quanto gli studi di De Felice sul fascismo abbiano avuto un’influenza meno estesa di quanto si crede; ma anche, perciò, quanto quegli studi non abbiano perso di importanza e attualità.

GIOVANNI BELARDELLI
In Corriere della Sera 14/10/2008