Marinetti: cocaina d’Italia

A cento anni dal Manifesto del Futurismo una biografia ripercorre la vita del fondatore dell’Avanguardia italiana e della sua rivoluzione totale, dall’arte alla politica.

Saper raccontare la Storia è un dono raro, ancor più nel nostro Paese, dove dilagano megasaggi su micro fatti, che nessuno legge, accompagnati da infinita documentazione, per lo più indigerita. E poiché la storia è fatta dagli uomini, il genere biografico rappresenta un capitolo essenziale di questa disciplina, anch’esso tra più negletti presso di noi. Ci sono però le eccezioni, e tra queste va certamente annoverato Giordano Bruno Guerri, che sa raccontare la storia e predilige l’approccio biografico, come conferma la lunga galleria di personaggi del secolo passato che negli anni ci ha regalato, da Bottai a Ciano, da Balbo a Malaparte, fino a Bonaiuti e al recentissimo D’Annunzio. A questo elenco si aggiunge ora il volume dedicato a Filippo Tommaso Marinetti, personaggio che non ha mai goduto di particolare fortuna da parte della critica, nonostante il ruolo decisivo svolto nella cultura italiana ed europea nella prima metà del Novecento. A lui si deve infatti quel celeberrimo manifesto del Futurismo pubblicato il 20 febbraio del 1909 sul «Le Figaro», che avrebbe rappresentato un punto di riferimento imprescindibile per la cultura, ma anche per la politica negli anni successivi. E tuttavia, nonostante questa evidente primogenitura, innumerevoli sono i saggi dedicati al movimento futurista e alle sua manifestazioni nei diversi campi, e pochi quelli che si occupano del suo creatore. Tra le spiegazioni più ovvie, come ricorda Guerri, quella che egli ebbe la ventura di morire nel territorio della Repubblica Sociale, e precisamente a Bellagio, nelle stanze dell’Hotel Splendido, che gli erano state offerte dall’ambasciatore giapponese Hidaka in attesa di un mai giunto permesso di espatrio in Svizzera.

Questa morte, avvenuta il 2 dicembre del 1944, e seguita da un funerale privato nella Chiesa di S. Giacomo, fu poi seguita dalle pubbliche esequie a Milano in piazza san Sepolcro, volute dallo stesso Mussolini, che il 9 dicembre fece approvare dal Consiglio dei ministri un decreto con cui si disponeva che «le spese per i funerali dell’Accademico d’Italia F. T. Marinetti» venissero assunte a carico dello Stato. Quella sacralizzazione di Marinetti voluta da un regime al crepuscolo fu certamente essenziale per condannarlo alla damnatio memoriae evocata da Guerri. La salma venne poi tumulata nel Cimitero Monumentale della città cara al fascismo delle origini, al quale indubbiamente l’inventore del Futurismo era legato per averne condiviso le fortune in particolare negli anni in cui il movimento aveva ancora tutte quelle caratteristiche rivoluzionarie che costituivano l’essenza più vera del Futurismo e del suo inventore. Guerri ripercorre tutte le tappe di una vita avventurosa vissuta all’insegna della rottura degli schemi e precostituiti e delle verità inconfutabili. Marinetti, poeta, romanziere, saggista, editore, ma soprattutto creatore di cultura, con l’intuito intellettuale proprio dei grandi aveva colto appieno l’incrinatura che si stava determinando nella società politica e culturale dell’Europa all’alba del nuovo secolo.

Il Futurismo era la presa d’atto che il vecchio mondo era giunto al capolinea e si dovevano creare gli spazi per favorire l’affermarsi di un nuovo mondo in tutti i campi: dalla poesia alla pittura, dall’architettura alla musica, fino alla politica.

L’incontro con il Fascismo-movimento, per usare l’espressione di De Felice, era quindi inevitabile, così come era inevitabile l’allontanamento dal Fascismo-regime, quando Marinetti si accorse che si andava all’accomodamento con la monarchia e alla rinuncia allo «svaticanamento». Rimase tuttavia al fianco del Fascismo, diventando accademico d’Italia (che sembrerebbe una contraddizione in termini per un rivoluzionario) in nome dell’amor di Patria, che lo portò volontario in Etiopia e addirittura nella campagna di Russia, ormai quasi settantenne. Rimase però sempre un libertario fondamentalmente anarchico, perché questo era il nucleo più profondo e vero di un atteggiamento che contestava ogni luogo comune e ogni verità costituita, ponendosi come precursore delle infinite imitazioni all’insegna della contestazione e della provocazione di cui gli anni successivi sarebbero stati disseminati. Un contestatore che sapeva però anche guardare con occhio critico anche a se stesso, quando, nell’«Aeropoema di Gesù» confessa «l’illusione di sentirsi meccanico quando si è in realtà soltanto carne piangente». Di lui resta l’inesauribile attività di promotore e provocatore della cultura, che contribuì in modo determinante a sprovincializzare il clima culturale del nostro Paese, creando legami destinati a durare con la cultura europea e mettendo l’Italia all’avanguardia nel dibattito internazionale: insomma un lascito importante e rimosso, che il libro di Guerri riscopre in tutto il suo valore.

ALDO G. RICCI
Da “Storia in Rete” n. 42, marzo 2009