Rivoluzione o reducismo? Contro-agiografia del ’68
Finalmente un libro sul Sessantotto il cui autore non è né un reduce né vive del mito. Spesso gli “anni formidabili” sono stati studiati a metà tra l’autobiografia e l’agiografia. Qui invece si respira un’aria di politicamente scorretto. Sognando la rivoluzione. La sinistra italiana e le origini del ’68 (Mauro Pagliai editore, 15 euro) di Danilo Breschi tratta in realtà degli anni che hanno preparato il ’68.
Il linguaggio di quella stagione nacque da un gruppo di intellettuali, di politici e di riviste di quegli anni, dai titoli ora evocativi e minacciosi (Quaderni rossi, Classe operaia, Il Potere operaio) ora più blandi (Il progresso veneto) ma non meno ricchi di contenuti esplosivi. A far uscire queste riviste un variegato mondo di già maturi politici socialisti delusi dal nascente centro-sinistra (Raniero Panzieri, Vittorio Foa), di trentenni letterati e filosofi come Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Toni Negri, di ventenni “normalisti” come Adriano Sofri e Gian Mario Cazzaniga. La loro dottrina era “l’operaismo”, fissato in un testo chiave dell’epoca come “Operai e capitale” di Tronti, uscito nel 1966. Chi erano i loro principali nemici? La Dc più conservatrice? Le legislazione ancora per certi aspetti arretrata e liberticida? L’assenza di garanzie e di diritti minimi per quei lavoratori di cui si facevano interpreti? No, il nemico principale era il riformismo che, nel caso italiano, significava il centro-sinistra di Moro e Nenni.
Fa impressione il volume di fuoco, per il momento solo verbale (ma Valerio Morucci fu un accanito lettore di Tronti), che Asor Rosa, Tronti, Negri, Sofri e gli altri riversarono contro un esperimento, quasi ancor prima che partisse. Il governo “repressivo” era quello di Moro, uno degli statisti più progressisti del nostro paese e il Partito socialista al governo uno dei più a sinistra dell’Europa occidentale. Questo livore nei confronti del centro-sinistra caratterizzò poi tutto il ’68 quando il movimento si augurò la presenza di un governo reazionario che facesse esplodere “le contraddizioni”. Il Pci criticava l’operaismo riconoscendovi però un figlio forse un po’ sbandato ma tutt’altro che degenere. Altrimenti come avrebbe visto la luce presso una casa editrice come Einaudi Operai e capitale di un filosofo alle prime armi? Ma l’abbraccio tra il Pci e i giovani occupanti avvenne tra il ’67 e il ’68. Un abbraccio che non è solo tattico. Le occupazioni universitarie costituirono una bombola di ossigeno per un Pci in crisi, che finì per coprire le azioni del movimento per ritrovare un ruolo.
Ma la favola di un partito già pronto a governare, già “riformista” e perciò estraneo alla violenza è appunto una favola. L’autore si ferma al ’68 ma chi studiasse il rapporto tra il Pci e violenza rossa scoprirebbe un Pci assai più connivente con il mito della violenza rivoluzionaria. È questo sogno a spingere gli operaisti a odiare il riformismo e la democrazia, a sovrapporre alle figure concrete degli operai negli anni del boom una mistica classe. Idee e parole che alimentarono più di una generazione, con esiti spesso tragici ma a volte anche comici e grotteschi.
MARCO GERVASONI
In «il Riformista», 24 dicembre 2008