Un libro svela il “secondo volto” del Pci.
Uno squarcio di luce sull’apparato antidemocratico e illegale di cui si è servito il Partito comunista italiano fino agli anni Ottanta, viene aperto dal libro Compagno cittadino. Il Pci tra via parlamentare e lotta armata (Rubbettino), che sarà presentato domani pomeriggio a Roma presso la Fondazione Ugo Spirito. Ne è autore Salvatore Sechi, docente di Storia contemporanea all’università di Ferrara e per due anni consulente della commissione parlamentare dell’inchiesta sul dossier Mitrokhin. Sechi contesta la tesi storiografica, predominante fino a oggi, secondo cui il Pci scelse di imboccare dopo il 1945 una via esclusivamente non violenta, al fine di arrivare al governo attraverso la forma democratica ed elettorale. Molti documenti smentiscono questa vulgata storiografica e dimostrano invece l’esistenza di una struttura clandestina di tipo militare messa in piedi dal Pci che la tenne a lungo in vita. Dal volume viene fuori, quindi, l’immagine di un partito da un lato sicuramente parlamentare e democratico, dall’altro però con un’anima rivoluzionaria che non escluse fino all’ultimo il ricorso a una seconda via pur di arrivare al potere.
L’esistenza All’interno del Pci di un apparato a carattere paramilitare è in contraddizione con le dichiarazioni che rilasciavano i dirigenti di Botteghe Oscure, i quali predicavano il raggiungimento del socialismo attraverso un percorso democratico e parlamentare, dichiara al VELINO il professor Sechi che spiega: Sia che questo apparato paramilitare fosse potuto servire come forma di difesa e prevenzione contro attacchi scagliati contro il Pci, sia che fosse servito per conquistare il potere, è indubbio come in entrambi i casi fosse comunque una struttura illegale e antidemocratica. In cosa consisteva questo apparato paramilitare? “L’obiettivo era quello di ricreare la vecchia struttura molecolare della guerra partigiana” risponde Sechi -, con gruppi equipaggiati con quelle armi che non vennero consegnate una volta finita la Resistenza. Migliaia di militanti comunisti furono inviati in Cecoslovacchia per essere addestrati militarmente.
Non si trattava solo di ex partigiani ma anche di compagni scelti direttamente dalla direzione del Pci. Inoltre a Botteghe Oscure il Kgb installò delle radiotrasmittenti in modo che Mosca fosse informata in tempo reale delle decisioni prese dalla direzione del partito. Il Pci “continua Sechi – mandava in Unione Sovietica militanti per formarsi nell’uso delle tecnologie di radio-ricetrasmissione e chiedeva centinaia di passaporti falsi da utilizzare per membri della direzione, della segretaria e del comitato centrale in caso fosse stato fatto un colpo di mano anticomunista in Italia. Tutto questa struttura resta in piedi ancora all’inizio degli anni Ottanta. Affermare, come ha fatto il senatore Emanuele Macaluso, che questa organizzazione non è mai esistita è abbastanza curioso”.
Un altro aspetto trascurato da gran parte della storiografia che viene affrontato nel libro riguarda i finanziamenti che il Pci ricevette da Mosca. “Il Pci è vissuto di tangenti per tutta la sua vita. Quelle passate per Milano, emerse nel corso di Tangentopoli, sono solamente una minutaglia. Delle altre non se ne parla mai”, afferma Sechi che si affretta a spiegare quali siano state queste altre: “Basta leggersi le carte che il procuratore di Mosca Valentin Stepankov consegnò a Giovanni Falcone con il quale si scambiava informazioni. Si parla dei massicci e costanti finanziamenti elargiti dal Pcus a Botteghe Oscure e delle tangenti che il Pci prendeva sull’import-export. Su quelle forme, cioè, di intermediazione commerciale e finanziaria fatte dalle aziende pubbliche e private italiane con i paesi dell’Europa Orientale, forme di intermediazione che passavano esclusivamente attraverso società create dal Pci”.
Quello che stupisce maggiormente è il fatto che le notizie portate alla luce da Sechi non sono che la punta di un iceberg. “Come membro della commissione Mitrokhin – dichiara lo studioso – ho potuto consultare documenti degli archivi dei ministeri dell’Interno e della Difesa, ma molte carte non mi sono state fatte vedere. Mi veniva portato del materiale ma non ho potuto sceglierlo io. La scelta la facevano l’archivio e le segreteria del ministero e questo elemento ha tradito lo spirito della ricerca. Nonostante avessi fatto una richiesta alla commissione Mitrokhin per sbloccare la situazione – denuncia Sechi -, mi è stato negata la libera consultazione delle carte e il confronto tra le varie fonti documentarie. In pratica molti documenti restano ancora blindati e fuori consultazione”.
Chi impedisce che venga fatta luce su mezzo secolo di storia italiana? “Senza dubbio si oppongono coloro che sono direttamente interessati a non rendere pubblici quei documenti “risponde lo studioso -, cioè gli eredi del Pci i quali non vogliono che emergano il lato paramilitare del partito e i finanziamenti ricevuti da Mosca. In questo modo ritengono non possa essere messo in dubbio la tesi secondo cui il Pci sia stato esclusivamente un partito nazionale, democratico e parlamentare. Sechi parla di “un’impostura” e un “sopruso” nei confronti della ricerca storica e aggiunge: “Mi dispiace che Giuliano Amato e Arturo Parisi, professori universitari e miei vecchi amici, si rendano complici di questa situazione. Spero che in qualità di responsabili degli Interni e della Difesa mettano a disposizione degli studiosi questa documentazione, affinché sia chiarito un aspetto importante della storia repubblicana e di un partito, come il Pci, che è stato un attore di primo piano. Bisogna che liberalizzino quelle carte anche perché “- conclude Sechi – se non vogliamo seguitare a raccontarci le storielle sui misteri d’Italia che non si possono risolvere, bisogna cominciare a fare chiarezza su questi coni d’ombra della nostra storia recente”.
in “Il Velino sera”, 10 gennaio 2007