di Gianni Scipione Rossi
// Non avevo 16 anni. Seconda liceo in stile Coppedè, ma rimandato a settembre in matematica, come l’anno prima, e l’anno dopo. Perché mai ho rifiutato il Classico? Ma se nel 1968 non ti ribellavi, a qualunque cosa, chi eri? Se non ti ribelli a quattordici anni, chi sei?
Il mondo intero e gli ormoni erano in fermento. Quel giorno. C’è oggi un’ipertrofia di celebrazioni. Ma a me importava sul serio della Luna? Questo non riesco a metterlo bene a fuoco. A fuoco metto solo che da mesi puntavo E., che neppure mi guardava, o quasi. Ella non lo avrebbe fatto mai… Je t’aime… moi non plus. Ormai, comunque, ci si ripensava a fine settembre…
Evitare l’estate in campagna era impossibile, da rimandato. Ma non è che si zappasse… E ne guadagnai un Trotter, per andare a ripetizione in città. Talvolta. Talaltra al lago. Tanto non c’erano i cellulari. Viterbo. La mia città di nascita e del cuore. La città di vita era Roma, ovvio. Con una residua punta di nostalgia per Trieste, lasciata da poco. Anche sul confine orientale c’era una E., che non mi guardava…
Quel giorno. No, la Luna non era al centro dei miei pensieri. Ma c’era fibrillazione nella famiglia allargata ospite dei nonni. A loro della Luna importava meno di niente. Si erano stupiti per i dirigibili, gli aerei, le macchine. La modernità l’avevano digerita in due anteguerra e altrettanti dopoguerra. Che cosa vuoi che sia la Luna? Quella interessava la generazione di mezzo. Con un problema strategico. Nell’arcadia estiva dei nonni il televisore non c’era. E non ci mancava. Tre anni e un giorno prima avevo subito alla radio la tragica, catastrofica, incredibile sconfitta con la Corea del del Nord.
Ma come si fa ad accontentarsi della radio mentre l’uomo alluna? Qualche lustro dopo avrei sostenuto il contrario, per ragioni di bottega. “Andiamo!”, ordinò mio zio al nipote maschio più grande, cioè sicuramente a me. “Andiamo!” E andammo, a traslocare l’arcano strumento urbano che doveva diventare villano.
Non c’erano suv in giro e l’Ape del mezzadro non sembrò adatto. Ma infilacela la monumentale tv lignea nel Maggiolone grigio topo del nonno, il mezzo di trasporto più ampio a portata di mano. Il televisore viaggio’ comodamente davanti, al posto della nonna. Un’avventura degna di Jules Verne, altro che Luna.
M’importava della conquista dello spazio? No, ma fu memorabile. Un’emozione difficile da descrivere. Incollati allo schermo, in circolo, nel salone dei pranzi familiari. “Fate silenzio!” Ne’ di Tito Stagno ne’ di Ruggero Orlando ho memoria. E anche oggi, con tutto il rispetto, non mi sembrano così importanti nella narrazione. Sarebbe meglio raccogliere quella di un contadino del Montana. È un po’ un tic narcisistico di noi giornalisti considerarci al centro della scena mentre abbiamo la fortuna di essere pagati per essere proprio lì.
Quel giorno. Gli eroi erano loro. Gli astronauti. Io non avrei mai avuto il coraggio. Mai. E loro ci portavano sulla Luna. Noi, al plurale, l’umanità. È servito a qualcosa? O era solo una inutile sfida da guerra fredda? (comunque noi di qua la stavamo vincendo) Sotto il profilo tecnologico è servito, sicuramente. L’umanità è rimasta quel che era e sarà. Ma ogni tanto sogna.
Quel giorno, quanto sognammo quel giorno… Emozione, grida, paura… “E se precipita?” “Riusciranno a tornare?” “Fate silenzio!” Anche i nonni si emozionarono, pur indossando la maschera di un altero distacco.
A quindici anni e poco più pensi che se sei arrivato, con loro, sulla Luna, e hai sentito quel piede come tuo, la vita ti offrirà cose straordinarie. E sei felice. Ecco, quel giorno fui felice, accantonando E. Ce la giocheremo a settembre… Verrà lo so, verrà, la fine di agosto… Nell’attesa, con mia cugina, uscimmo a riveder le stelle. Un prato di lucciole ci abbagliò.
Poi ci sono toccati gli anni di piombo. Per un po’ non guardammo la Luna.