Il fascismo tra antiurbanesimo e modernità

Danilo Breschi, Mussolini e la città. Il fascismo tra antiurbanesimo e modernitàLuni Editrice, Milano 2018

//Ormai da tempo la storiografia più avvertita utilizza per il fascismo la categoria della complessità che abbandona il modello fisico classico della ricerca della causa prima, della causa efficiente, nella consapevolezza che anche fenomeni apparentemente secondari incidono sulla realtà complessiva e costituiscono perciò, per lo storico, un angolo visuale persino più ampio dei macrofenomeni. Il saggio di Breschi si pone a pieno titolo all’interno di questa prospettiva analizzando il rapporto città-campagna nel fascismo che consente una riflessione, ampia ed estremamente documentata, del rapporto del fascismo con la modernità, o meglio, con l’idea di modernità che esso teoreticamente coltivò e cercò di praticare. Come è naturale, data la natura polimorfica del regime fascista, in particolare della sua ideologia, le tesi dell’Autore hanno una caratteristica ellittica, così come ellittico fu il rapporto del fascismo con il fenomeno dell’urbanesimo e della ruralizzazione.

Dopo un’introduzione all’urbanesimo e all’ideologia dell’antiurbanesimo in Italia e in Europa agli inizi del Novecento, Breschi analizza l’atteggiamento del regime verso l’urbanesimo e l’opposizione ad esso tra gli anni Venti e gli anni Trenta, senza che sia possibile una distinzione ideologica che corra attraverso precise linee temporali; in tutte e due le fasi storiche, infatti, il primato della campagna e l’opera urbanistica del fascismo si sovrappongono, a volte persino si connettono a delineare un quadro di sostanziale governance della modernità che il fascismo voleva realizzare. Si trattava, cioè di cavalcare la tigre per non esserne sbranati, alla ricerca di modelli di sviluppo non sempre coerenti e lineari. Come scrive l’Autore: «L’obiettivo di fondo era appunto cogliere a pieno i vantaggi materiali che lo sviluppo tecnologico porta inevitabilmente con sé, finalizzando il tutto all’affermazione della potenza – economica e militare – italiana nel mondo, cercando nel contempo di mantenere pressoché intatta la gerarchia sociale e soprattutto la scala di valori morali ereditata dalla società preesistente» (p. 26). Un tema che il fascismo non poteva ignorare in quanto fenomeno di massa; e l’urbanizzazione prefigurava un processo di standardizzazione  eindividualizzazione, che sarà poi chiamata civiltà dei consumi con il quale fare i conti. Non a caso, ricorda l’Autore, studioso di Pellizzi e Spirito, alcuni intellettuali fascisti dedicarono ampie discussioni ai problemi connessi alla società di massa che poneva come alternativa o una progressiva democratizzazione del regime o un rafforzamento dell’autorità podestarile. Proprio queste diverse prospettive si leggono in controluce nella diatriba tra strapaese e stracittà e nella volontà di controllo del territorio che non casualmente inizia nel 1925-1926, nel momento in cui inizia il regime.

Il fascismo, anche se non solo dittatura di sviluppo, non poteva né voleva rinunciare a un’azione modernizzatrice del Paese, così che la sua ideologia ruralizzatrice può essere letta come residuo del fondo squadristico del fascismo agrario e come propaganda tesa a rassicurare i ceti interessati alla conservazione dello status quo: «Il ruralismo fascista fu compensazione retorica per un’operazione, solo in minima parte riuscita, di controllo sociale delle campagne, anzi di loro immobilizzazione o “cristallizzazione”, mentre si procedeva alla ristrutturazione di città di cui si avvertiva l’inevitabile espansione» (p. 198). Non solo propaganda però; Breschi connette, in modo ci sembra molto opportuno, il tema della ruralizzazione a quello dell’uomo nuovo o meglio dell’italiano nuovo che il fascismo si era riproposto di realizzare. Se l’ideale era il cittadino fedele ai valori della tradizione che trovava la sua identità sociale nel diritto di proprietà e che interpreta, o meglio vive, il progresso non come rottura degli assetti culturali e sociali precedenti, ma come modernizzazione di quegli stessi assetti, il rurale si prestava meglio dell’anonima e sradicata massa urbanizzata. L’Autore ritiene che ciò urti «con quell’impersonalità, con quel senso di devozione e dedizione alla causa collettiva della nazione, su cui Mussolini e molti fascisti facevano affidamento sia per marcare il proprio “passaggio” nella storia d’Italia sia per effettuare mobilitazioni di massa necessarie all’affermazione del prestigio internazionale» (p. 481). E ciò è ulteriore elemento dell’impassein cui si trovò il fascismo sia come ideologia sia come prassi di governo, anche se, almeno nell’ideologia se non nella prassi di governo, il fascismo non intese la mobilitazione di massa come negazione dell’individualità, ma come la sua subordinazione agli interessi collettivi della nazione. Non si trattava, cioè, di negare l’individualità, ma di integrarla in una concezione superiore; così come la proprietà privata non venne negata, ma subordinata agli interessi economici della nazione. Superare la dimensione individuale integrandola in quella sociale, non cancellarla; il fascismo non è una mistica, anche se, come noto, ebbe una Scuola di mistica.

Comunque quest’oscillazione si tradusse nella legislatura e nelle realizzazioni del regime che nei suoi primi quattro anni di vita favorì la creazione di grandi centri metropolitani, mentre, a partire dal 1926, si cominciò a sottolineare con forza che l’urbanesimo costituiva un problema anche grave, preludio al discorso dell’Ascensione, che Mussolini tenne alla Camera dei deputati il 26 maggio 1927. Il Duce divideva il suo discorso in tre parti: nella prima teneva l’esame del popolo italiano dal punto di vista della salute fisica e della razza, mentre la terza stabiliva le future direttive politiche generali dello Stato; la seconda riguardando l’assetto amministrativo della nazione. Mussolini lamentava la recrudescenza delle malattie cosiddette sociali che ha spinto il regime a un’intensa campagna profilattica e igienica; auspica inoltre una «frustrata demografica» che giustificava la tassa sui celibi, in nome del suo noto antimalthusianesimo. Parte di questa strategia era, nel discorso del capo del fascismo, la lotta a un certo tipo di urbanesimo, quello industriale, ma anche alla piccola proprietà rurale che conduce alla medesima sterilità i popoli. A dimostrazione, come scrive Breschi, che «l’avversione contro l’urbanesimo non era infine indiscriminata e totalmente accecata da un’ideologia antimodernista» (p. 297); perché non si combatteva la città in quanto luogo simbolo del moderno, ma la sua degenerazione in non-luogo, generatore di nevrosi e causa della perdita del senso di continuità generazionale a favore di un individualismo atomistico che avrebbe alla lunga reso liquida e indeterminata la società.  Non solo però ragioni eugenetiche in vista dell’italiano nuovo, ma anche preoccupazione politica di controllo della condotta pubblica e privata, più facile «se le possibilità di contatto e scambio fossero risultate diminuite in numero e quindi fossero diventate anche più agevolmente controllabili dalle autorità podestarili e prefettizie» (p. 314).

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Rodolfo Sideri

Il testo completo in “Annali della Fondazione Ugo Spirito”, a. 2018, XXX